di Gianfranco Ferraro (ITA 02.2022 – in aggiornamento)
ISTERICI E SCONTENTI: SULLA PROFANAZIONE DEL RITO
28.03.2022
C’è qualcosa, nel cazzotto di Will Smith a Chris Rock, che mi sembra faccia di quella scena un paradigma dell’isteria e dello scontento di una intera società, società di cui Hollywood è stata sempre, nel bene e nel male, l’accurata rappresentazione spettacolarizzata.
Il rito, per eccellenza.
Certo, si può semplicemente dire che Smith e Rock sono due imbecilli narcisi e machisti, come sempre ci sono stati. Ma due imbecilli che partecipano a un rito smettono, per ciò stesso, di essere tali e si adeguano a dei filtri che li rendono, per un momento, altro da quello che sono. Se due imbecilli invece si possono manifestare anche in un rito per quello che sono, cioè senza filtri, è il rito stesso che manifesta la sua impotenza sacrale. Diventa una cosa tra le altre: non fa differenza che uno dia un cazzotto in un bar di periferia o in mondovisione.
A un Clint Eastwood o a un Sean Connery non sarebbe mai venuto in mente, a una battuta infelice di un comico verso la loro compagna o moglie, di alzarsi e dargli un pugno in mondovisione. E non solo perché non erano imbecilli o narcisi, ma perché il loro spettacolo implicava una ritualità e una forma a cui non era possibile sfuggire. Implicava appunto un filtro. È questo filtro, che garantisce i rituali di ogni società umana, e su cui probabilmente contava anche Chris Rock sentendo di poter dire di tutto (e, in fondo, neanche qualcosa di troppo grave) che è venuto meno.
Nella lacerazione del filtro spettacolare a essere irrimediabilmente profanato è dunque anche il rituale: se anche il rito per eccellenza può essere devastato, allora non c’è più alcun rito, su quel piano, che tenga.
Ed è precisamente questo, credo, che fa di quella scena il paradigma di una dei sintomi, se non delle cause stesse, dell’isteria e dello scontento della società contemporanea: la vita viene progressivamente sempre meno mediata, e sempre meno mediata la sua emotività. La stessa idea che una emozione debba essere lavorata, persino repressa, per poter essere culturalmente integrata è progressivamente venuta meno. La libera espressione è stata tradotta dallo spettacolo nella liberazione brutale: quando lo spettacolo non riesce più a mediare, e il vero e il falso perdono la loro distinzione, la brutalità spettacolare emerge nel pugno vero di un attore in scena.
Proprio per questo in un altro tempo quella scena non sarebbe accaduta: perché l’isteria e lo scontento potevano ancora contare su dei filtri, culturalmente codificati.
La scena di ieri è la trasposizione reale di ciò che Joaquin Phoenix è riuscito a rappresentare neanche troppo tempo fa. Nel riso di Joker, ma soprattutto nel sorriso con cui Joker confessa in scena i suoi omicidi veri finendo con l’assassinare, in diretta, il conduttore che lo intervista.
Certo, di Joker non si direbbe che è un imbecille, ma solo un pazzo.
Proprio questo, la scena è ancora più triste di quanto sembri. Rendendo triste persino il luogo dello spettacolo per eccellenza, essa ne rivela quelle basi profondamente tristi, isteriche e scontente, su cui poggia orma esso stesso, così come la società di cui è espressione.
Nella trasposizione su un registro “reale” di una scazzottata che l’industria culturale di Hollywood abitua, letteralmente, a “schermare”, lo spettacolo hollywoodiano finisce col perdere quell’aura che aveva consentito – come ad ogni altra merce, secondo Benjamin o Debord – la permanenza di un registro sacro anche nella società capitalista avanzata.
La scazzottata non è più solo una scazzottata, se trasmessa in mondovisione, e due imbecilli non sono più solo due imbecilli. E invece sì. Ma se in mondovisione può andare in scena una scazzottata tra due imbecilli, questa può avvenire dovunque e per molto meno.
Se dio non esiste, tutto è permesso. Tutto ridiventa possibile, se i luoghi in cui una cultura ha trasposto il sacro spariscono progressivamente. Joker appare nella veste di pazzi e imbecilli che confondono continuamente il vero col falso. Ci si potrebbe chiedere se questo c’entri qualcosa con i due anni di pandemia o con la guerra in corso: probabilmente, sì, ma c’entra ancor di più col nostro futuro.
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NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI
27.03.2022
Non vorrei essere nei (sudatissimi) panni dei diplomatici americani che, dopo ogni dichiarazione del Presidente USA, devono correre ogni volta ad aggiustare il tiro. In ordine sparso, Biden ha dato a Putin del “killer”, del “macellaio” e del “tiranno”, per inciso, tutte definizioni calzanti se non fosse che definizioni simili sono state date da presidenti americani a gente come Osama bin Laden, Saddam Hussein e Gheddafi, prima di dichiarare una qualche guerra. Non contento e, a conferma di quanto detto, Biden ha chiarito che Putin “non può rimanere al potere”. Richard Hass, Presidente del US Council of Foreign Relations, ha messo in chiaro come le dichiarazioni del suo “potus” (il Presidente nel gergo diplomatico) “rendono una situazione già difficile ancora più difficile e più pericolosa una situazione già pericolosa. Il che è ovvio. Meno ovvio è come riparare il danno”. Hass suggerisce quindi ai capi diplomatici di chiamare le controparti e di chiarire come gli USA siano pronti a raggiungere un accordo col macellaio. Il che, sempre per inciso, non sarebbe la prima volta nella storia americana. Il consiglio sembra essere stato prontamente seguito dal Segretario di Stato, che si è affrettato a mettere una pezza, ribadendo che gli USA non puntano ad un cambio di regime in Russia e di “pensare” che le dichiarazioni di Biden debbano essere interpretate nel senso che Putin non può avere il potere di fare la guerra a chicchessia. Sembra ovvio che il segnale sia indirizzato a chi, nell’amministrazione russa, può avere ancora un peso per frenare Putin, così come sembra altrettanto ovvio che i diplomatici sentano di dover in qualche modo mettere sotto tutela diplomatica un presidente fuori controllo. C’è da aggiungere, però, come sempre, che soffiare sul fuoco sia visto da qualcuno come una buona strategia per compattare il voto in vista delle elezioni di Midterm e che la “retorica” di Biden possa quindi aiutare. Nella migliore delle ipotesi, il mondo è quindi in mano a un killer (etc…) che ha messo sotto tutela dittatoriale il suo Paese, a un Presidente a cui i suoi stessi diplomatici danno del rincoglionito e a una società democratica la cui isteria le sue elites pensano di poter ricompattare solo attraverso un nemico.
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SERVI E PROTERVI
25.03.2022
L’unica cosa interessante, se così si può dire, delle grandi crisi o catastrofi che dir si voglia, come quella che stiamo vivendo, è l’apparizione di tipi antropologici “puri”, nei quali una certa natura umana si offre senza quelle autolimitazioni e quegli schermi tipici della normalità. Uno di questi tipi antropologici è quello del “servo” che, finalmente convinto di avere le spalle coperte dal proprio editore e padrone, lancia le proprie invettive senza ascoltare le argomentazioni altrui e senza neanche voler argomentare le proprie. L’odio del risentito, come spiegava Nietzsche, appare allora in tutta la sua fantastica, multicolore meraviglia, manifestando le vere basi su cui si basava, in passato, la presunzione di una moderazione politica, logica e verbale. Lo dico a proposito di un “dibattito”, visto per caso, tra Marco Travaglio, del quale non sono peraltro un grande estimatore, e il direttore di un giornale del gruppo GEDI.
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VIOLAZIONI
25.03.2022
Leggo testualmente che “Il Cremlino ha negato oggi qualsiasi violazione delle leggi internazionali sulle bombe al fosforo in Ucraina”. Nel senso che le leggi internazionali proibiscono le bombe al fosforo, e, quindi, queste non sarebbero state usate, o che invece le proibiscono solo un po’, come Falluja sta lì a dimostrare, e quindi le si può usare, ma solo un po’?
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A CHI SPARA (IL VERO) ZELENSKY
25.03.2022
https://www.youtube.com/watch?v=JceiIUTMvD0
Ho dovuto rivedere un paio di volte, per crederci, il trailer del film “Il servitore del popolo”, che è servito da trampolino di lancio per la carriera politica di Vladimir Zelensky, una carriera tutta imperniata sulla riproposizione, nella realtà dell’attore protagonista, di una trama nella cui finzione un anonimo cittadino diventava presidente del suo Paese per combattere la corruzione dei politicanti. Nella scena, il Presidente fittizio spara, ironicamente sul Parlamento di politicanti: ammazzandoli per davvero.
Il Paese che fa da scenario alla finzione come alla realtà politica, per intenderci, è sempre lo stesso: l’Ucraina. Ora, se sono evidenti, mi sembra, tanto nella finzione come nella realtà, i legami con quei movimenti populisti che, negli ultimi anni, hanno rappresentato e anche denunciato la crisi delle democrazie occidentali, pretendendo a volte di combattere la loro corruzione aprendo i parlamenti “come scatole di sardine”, di certo non credo che in questi movimenti si sia arrivati mai a pensare di “sparare” sui parlamentari, anche solo in sogno, come invece fa proprio Zelensky nel film.
Ma se in Ucraina c’è chi si è davvero riconosciuto nella finzione di un Presidente-eroe che spara sul parlamento per servire il suo “popolo”, forse qualche domanda sulla “democraticità” di un politico che fonda la propria politica anche su questo gesto dovremmo farcela, come dovremmo farci qualche domanda sul vero significato dell’eroico “spirito democratico” che starebbe animando il governo ucraino nella difesa delle democrazie occidentali contro l’Autocrate di Mosca, così come sulla sua volontà di perseguire la pace, così come sulla sua volontà di evitare, davvero, solo perché il suo Paese potrebbe sprofondare, una terza guerra mondiale.
E a rispondere a queste domande dovrebbero essere, in primis, i parlamentari che, in Italia e in Europa, hanno applaudito qualcuno che, sotto bombe vere, ci mancherebbe, ha voluto fare – in una finzione sulla scorta della quale ha però coscientemente voluto costruire la sua realtà politica – di quelle aule sorde e grigie in cui loro stessi sono seduti un bivacco di manipoli. Anzi, una tomba.
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MAFIA GEOPOLITICA, GEOPOLITICA MAFIOSA
25.03.2022
Essendo la loro terra ormai da tempo immemore una colonia di potenze tutte venute da fuori, ed avendo, anche per questo motivo, perduto qualsivoglia ambizione e voglia di conquistare il mondo, i siciliani hanno acquisito il vezzo di ritenere che tutto il mondo sia in qualche modo “Sicilia” oppure, più precisamente, che il mondo sia davvero comprensibile solo a partire dalla Sicilia.
Non essendo neanch’io, un po’ per scherzo e un po’ seriamente, del tutto estraneo a questo vezzo di fare della Sicilia un paradigma del mondo, e soprattutto dei suoi poteri, ho da poco dato alle stampe un saggio che fa della mafia un paradigma (addirittura) del nichilismo geopolitico contemporaneo, nel quale tento di mostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, come gli Stati (e in genere tutti i poteri che sfuggono ad un diritto condiviso) si comportino tra loro come in Sicilia si comportano e si comportavano i boss.
Ora, da militante antimafia, so che un boss mafioso non si combatte mai parteggiando per un altro boss mafioso: certo si può combatterlo sul territorio, provando a togliergli il terreno sotto i piedi, ovvero a convincere il suo “popolo” a sottrarsi al suo dominio. Si può anche combatterlo, in rappresentanza di un altro potere che sia apparentemente in grado di imporre uno “stato di diritto” e di difendere la popolazione contro le soverchierie del boss. Un potere che deve però legittimarsi non solo contro quel boss ma contro tutti i boss: contro la “mafia”, insomma, in tutte le sue concretizzazioni.
Anche in questo caso, difficilmente però si riesce a vincere la partita, a meno che non spunti un “collaboratore”, un Buscetta, insomma, che dall’interno ti dia le chiavi per smontare pezzo pezzo tutta l’organizzazione. D’altronde, che un qualche “collaboratore” debba apparire rivela proprio il carattere “mafioso” di una certa associazione a delinquere. Si capisce allora come i casi di Julian Assange e di Edward Snowden, così come quello di Anna Politovskaya, meno dicono delle loro persone e più dei gangster, pardon, del tipo di poteri che li hanno perseguitati.
E in tutto questo, se manca oggi quel potere in grado di contrapporsi ai boss come tali, sembra venirci a mancare anche la volontà, o la capacità, di sfidare sul suo territorio il nostro boss di quartiere. Anche perché, va da sé, si troverà sempre un boss che ti dirà, mentre ti uccide o ti “suicida”, che l’altro boss è ancora peggiore.
Se il mondo fosse la Sicilia, o la Sicilia fosse davvero un paradigma del mondo, si dovrebbe forse trovare il coraggio di dire – un coraggio insomma, questo, non militarista – come quello di Peppino Impastato, che la mafia è tutta, non solo quella di don Tano o don Totò, “una montagna di merda”. O anche semplicemente, come diceva Giovanni Falcone, che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”.
(Anche se mai come nella geopolitica mafiosa di questi giorni, sembra valere quel rischio indicato da Falcone quando, con una nota di pessimismo tutto siciliano, manifestava la speranza che “la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo”.)
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IL SOSPETTO (CHIMICO)
24.03.2022
Ricordo perfettamente quando il 5 febbraio del 2003, l’allora (oggi buonanima) Segretario di Stato americano Colin Powell mostrò in una seduta dell’Assemblea delle Nazioni Unite la “prova” che l’Iraq aveva a disposizione delle armi chimiche per una distruzione di massa. La “prova” consisteva in una non meglio identificata provetta di antrace. Che nella provetta ci fosse effettivamente antrace non fu mai dato sapere. Ci è dato sapere, invece, che, un mese e mezzo dopo, e a causa di quella prova, gli Usa invasero l’Iraq di Saddam Hussein, così come ci è dato sapere che nell’Iraq “liberato” non furono mai trovate armi chimiche, né dagli americani né dalle organizzazioni internazionali. Ci è anche dato sapere che i servizi segreti italiani ebbero un ruolo, rocambolesco e servile tanto da risultare ilare, nella costruzione di quella “prova”, rivelatasi falsa.
Quindici giorni fa, l’ambasciatore russo all’Onu ha dichiarato che in Ucraina ci sarebbero delle armi chimiche occidentali che verrebbero usate sotto “falsa bandiera” per far ricadere sui russi la responsabilità del loro uso. Oggi il governo ucraino sostiene che la Russia è pronta a utilizzare armi chimiche, sotto “falsa bandiera”, mentre Biden rincara la dose dicendo che se i russi utilizzeranno armi chimiche, la Nato risponderà.
Ovviamente, non ci sono ragioni per credere che, a meno che non sia un pazzo o un criminale, Putin utilizzi armi chimiche in Ucraina. Così come non ci sono ragioni per credere che i governi occidentali siano così pazzi o bugiardi da costruire prove false per giustificare una guerra.
Ovviamente. Però lasciateci almeno il sospetto.
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PAZZI E GUELFI BIANCHI
24.03.2022
Tra le chicche del giorno c’è che il Papa ha dato letteralmente dei “pazzi” ai governi che hanno aumentato del 2% le spese militari, cioé quello tedesco e quello italiano. Come si sa, nel Basso Medioevo ci si divise su chi dovesse condurre le redini di un governo “globale”: i ghibellini sostenevano l’imperatore, i guelfi il papa. Sconfitti i primi, i secondi si divisero tra coloro che difendevano un papato dei “Signori” (guelfi neri) e i secondi un papato della “plebe” (guelfi bianchi). A Firenze, la vittoria dei “Signori” costrinse un tale Dante Alighieri, guelfo bianco, all’esilio, provocando però quella sottile e, sul momento, apparentemente inutile rivincita consistita nell’eternizzare nell’inferno di una Commedia tutti i pazzi e i criminali del suo tempo.
Potrei dirmi oggi, anche io, un guelfo bianco. Ma – mi si dirà – non siamo più nel Medioevo. Ah, no?
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UN ALTRO VLADIMIR: SU EQUIDISTANZA O ANTI-IMPERIALISMO
23.03.2022
Non se il riso o la pietà prevale, a vedere quel che un tempo era la sinistra dividersi tra chi giustifica la guerra di quel grande assassino di popoli che è Putin e chi osanna un Occidente che dove ha potuto ha proterviamente e violentemente fatto la guerra difendendo i propri interessi, ammantandoli di diritti umani.
L’anti-imperialismo prende le parti dei popoli, sempre, contro i loro governi imperialisti. Non è equidistanza, è pacifismo.
È internazionalista: come lo è stato, nel 1914, Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin.
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MESSINA 1943 – UNA STORIA NATURALE DELLA DISTRUZIONE
21.03.2022
Nella personalissima “storia naturale della distruzione” (W. G. Sebald) che riguarda me e la mia famiglia, due immagini ricorrono: una è quella di un bambino di 5 anni, nascosto con la mamma e la sorellina più piccola nella cantina di casa di Giampilieri, frazione di Messina, alla luce di una lucerna ad olio, mentre tutto intorno suonano le sirene e sopra le case stridono le bombe, l’altra è quella di una bambina appena nata, che allatta in un rifugio antiaereo scavato nella montagna di Castellaccio, a Gravitelli. I bombardamenti alleati che colpirono Messina nel 1943, e che si fecero via via più intensi nei mesi precedenti allo sbarco in Sicilia nel luglio dello stesso anno, facevano parte della strategia di guerra aerea degli Alleati anglo-americani, consapevolmente mirata a terrorizzare la popolazione civile nei Paesi dell’Asse, per sottrarre legittimità al regime. A partire da quel momento, la guerra è sempre stata, fino ad oggi, guerra contro i civili, contro le case e contro le esistenze. Qualunque guerra, da allora, pretende di coinvolgere in sé ogni vita e la vita di ogni persona tutta intera. Alla base di questo tipo di guerra c’è quella divaricazione assoluta dello sguardo che separa una fotografia aerea di una città da una fotografia panoramica. Le case diventano obiettivi, le strade linee, e anche quando la guerra si sposta sul terreno, tra i muri, quella distanza dello sguardo è talmente incorporata da non poter più guardare le pietre e la materia umana se non come un unico, indistinto nemico di fronte a sé. La guerra oggi è solo questo, un terrore come mezzo, e come unico fine il terrore stesso. Non ho memorie familiari che giustifichino la strategia dei bombardamenti Alleati: ai civili, sotto le bombe, non importava più chi li governasse, mentre ciò che importava è che finissero le bombe. E proprio qui, credo, la divaricazione dello sguardo si fa più ampia, antropologica quasi. Certamente epistemologica: tra lo sguardo di un comandante in capo e lo sgomento di due bambini, tra la geo-politica, la politica che si identifica nel disegno di una linea su una carta geografica, e la politica delle esistenze che chiedono solo di poter continuare ad esistere. Pochi mesi dopo quei bombardamenti, gli Alleati furono accolti come liberatori, e giustamente. Per i due bambini messinesi la “libertà” ebbe il sapore del cioccolato “mmiricano” e la fine delle notti in cantina o nei rifugi. Per i grandi, la fine del terrore per sé e per i propri figli. L’Italia “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” perché si fonda sullo sguardo di quei due bambini, i miei genitori.
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IN MEZZO
21.03.2022
Gli uni: “corridoi umanitari solo se vi arrendete”. Gli altri: “la resa non è un’opzione”. In mezzo, i sacrificabili.
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RIFERIMENTI
20.03.2022
Riferimenti storici per riferimenti storici, e caduta diplomatica per caduta diplomatica, per far capire alla Knesset il destino che i russi stanno dando a Mariupol, oggi Zelensky poteva citare un esempio, certo più appropriato della Shoah e più conosciuto dai parlamentari israeliani: Gaza.
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L’ANGOSCIA E LA BARBARIE: IL NICHILISMO EUROPEO E IL COMUNISMO
06.03.2022
“Si possono ben riconoscere le potenze della storia, se solo si spoglia quest’ultima da ogni teologia morale e religiosa”
“Voglio sperare che il mio lavoro contribuirà a chiarire la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza questa analisi non è possibile comprendere né la guerra odierna né la situazione politica odierna”,
Lenin, Prefazione alla prima edizione de “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, Leningrado, aprile 1917.
“Ci ho addosso una rabbia blu… domani tutto il quartiere dev’essere ripulito dalle parole straniere, dove ne pesco una, gli strappo le budella!”
K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità
La barbarie è sotto i nostri occhi. E penso di non sbagliare se dico che l’angoscia è il sentimento più condiviso, per lo meno, per le generazioni europee nate dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancor di più per quelle nate dopo la fine della “Guerra Fredda”: è un sentimento sfiancante, che mette a nudo, come scriveva Bataille, tutto l’orrore di ciò che sappiamo senza sapere. Come tale, è un sentimento semplicemente incomprensibile, perché, con gli strumenti di ciò che sappiamo, non si può afferrare. Non è un caso che l’angoscia sia stato il sentimento cruciale per chi scriveva poco prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. Sembra andare di pari passo con la barbarie. Una barbarie che, ai nostri giorni, ha certamente un responsabile: l’imperialismo del governo russo. Non sapendo cosa fare di questa angoscia, cerchiamo una risposta, una soluzione, alla barbarie, che a sua volta ci ripropone, di ritorno, ancora una volta l’angoscia. Quel che la barbarie rivela, ci si rese conto all’epoca, è però solo un contenuto di angoscia che era già lì, prossimo, coperto da un “sapere” che però non corrispondeva al mondo. Tra gli anni ’30 e ’40 ci fu chi interpretò il militarismo, il nazionalismo, come una risposta all’angoscia, occidentale, europea: forse non a caso, il primo a identificare quest’angoscia europea fu un russo, F. Dostoevskij. Nietzsche vide, in quest’angoscia russa, una cifra di un nichilismo che abbracciava, in realtà, l’Europa intera. La criminale invasione dell’Ucraina da parte del governo russo mette a nudo, né più né meno, questo sentimento di angoscia: non credo di sbagliare, se dico che è precisamente questo sentimento che accomuna, oggi, più di ogni altra cosa, e, certo, in misura diversa, chi è costretto a scappare o a morire sotto le bombe russe, in Ucraina, e chi assiste, impotente, al di qua e al di là della nuova cortina di ferro, all’irruzione della barbarie come cifra del vivere umano.
Da qui, da questa angoscia comune agli europei occidentali, agli ucraini di tutte le etnie, e ai russi, che occorre partire oggi, così com’è all’orrore comune di fronte alla barbarie come “soluzione” dell’angoscia che è nostro dovere rispondere. Pretendere di rispondere all’angoscia con la barbarie è quanto pretende di fare qualunque imperialismo nazionalista: oggi, quello putiniano.
In condizioni non dissimili da quelle attuali (non fosse che per l’immane potere di distruzione che oggi i governi hanno nelle proprie mani), un secolo fa qualcuno, e nel mezzo dei milioni di morti che si consumavano lungo il Reno o la Vistola, si fece una domanda chiara, a partire dalla stessa angoscia che oggi condividiamo: da cosa è prodotto l’imperialismo, e come farla finita con la barbarie? Porre fine all’imperialismo, ci si rispose, era possibile solo attraverso una comprensione degli interessi, mascherati da nazionalismo, che muovevano le élites economiche a maciullare le esistenze di interi popoli. Una vera fine della barbarie si può cioè individuare solo nel momento in cui si comprende ciò che muove questi interessi e nel momento in cui si comprendere che l’interesse dei popoli è radicalmente alternativo. Fare degli interessi dei popoli e degli oppressi un’opzione politica, necessariamente internazionale, è il comunismo. La risposta che il ’900 diede, per così dire, non riuscì ad essere all’altezza della domanda: ne è prova il fatto che, con la cosiddetta fine delle ideologie, in realtà, nuove ideologie sono nate, o per lo meno, rinate: in Russia – ma questo vale per molti altri Paesi – è rinata, nutrita da un risentimento diffuso che sarebbe bene appunto indagare a fondo, una ideologia che, oggi, si è tradotta nella distruzione di quel che rimaneva del diritto internazionale, peraltro già pesantemente ferito nelle scorse decadi, e nel puro e semplice esercizio della violenza predatoria. La guerra “d’usurpazione, di rapina, e di brigantaggio”, per usare le parole di Lenin, che Putin sta conducendo in Ucraina, si copre di un velo nazionale e nazionalista, giustificando appunto la sua guerra attraverso una mistificazione nazionale del tutto simile a quella che portò, in poche settimane, e contro le apparenti intenzioni di tutti, alla Prima Guerra Mondiale. Per questa ragione, non ce ne fossero altre, un comunista – se ancora ha un senso questo nome, dopo il ‘900, e forse ce l’ha davvero – non può che essere, radicalmente, violentemente, contro la prepotenza di una élite che, per difendere i propri interessi neocoloniali, arrivi sino al punto da produrre macerie, producendo una mistificazione nazionalista o imperialista per rispondere all’angoscia del proprio “popolo”. Se non vi è guerra che non abbia bisogno di mistificare la propria barbarie, oggi quella mistificazione passa per il nazionalismo, come, in altre circostanze, è passata per la cosiddetta “esportazione della democrazia”. Comprendere come ogni mistificazione sia una risposta all’angoscia degli individui e come ogni “valore” sia un tentativo di coprire interessi contrari ai popoli, è il compito del comunismo. Gli ucraini sono europei, sono europei i russi, siamo europei “noi”: quali angosce e quali interessi ci accomunano? Dalla risposta a questa domanda può venire fuori una risposta, l’unica risposta che non passi dalla guerra.
Allora, essere comunisti significa oggi convidere, per intero, senza se e senza ma, l’angoscia del popolo ucraino sotto le bombe, così come ha sempre significato prendere le parti dell’unica “guerra giusta”, quella di ogni oppresso verso l’oppressore. Significa, anche, condividere l’angoscia dei popoli ed essere, senza se e senza ma, contro ogni nazionalismo. Significa, oggi, essere contro l’imperialismo del governo russo, così come si è contro qualunque imperialismo. Significa essere coscienti del fatto che fare della pace l’unica opzione politica contro l’imperialismo significa riproporre ciò che la garantisce, una “difesa della società” , di una società che è oggi – proprio per la distruzione che incombe su tutto il globo – necessariamente globale. Una difesa degli interessi degli oppressi, che o è anche inter-nazionale, o non è, o è anche economica, o non è, o anche è spirituale o non é. Essere comunisti significa oggi rispondere all’angoscia che ci accomuna con la speranza che ci accomuna e rivoltare la società, le sue strutture, i suoi valori, ovunque, se ciò serve a trovare l’unica via d’uscita dalla guerra.
Non è dire “né contro questo imperialista né contro quello”. È prendere parte, è arruolarsi nell’unica vera battaglia che possa porre fine alla guerra.
È non votare, mai, i crediti di guerra (al contrario di quanto molte socialdemocrazie fecero, nel 1914).
Faccio mia la risoluzione della V Internazionale per la guerra in Ucraina:
“Cessate il fuoco immediato, mediazione degli organismi internazionali (ONU), forza d’interposizione a garanzia del cessate il fuoco, corridoio umanitario, fondi a sostegno delle organizzazioni umanitarie e non degli eserciti di qualsiasi parte, mantenimento dei canali diplomatici, accoglienza dei profughi, radicalizzazione delle sanzioni finanziarie nei confronti della Russia e non dei russi, richiesta del rispetto dello ‘stato di diritto’ per accettare l’adesione dell’Ucraina all’UE, nessun ‘arruolamento’ alla retorica militare, costruzione, sempre, di vie di pace.”
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HONECKER, L’ULTIMO BACIO
03.03.2022
Nella confusione tragica e stupida, come solo la guerra può darla, di queste ore, leggo, appena sveglio, la notizia: “La Germania consegnera’ altri 2.700 missili anti-aerei all’Ucraina. Lo ha riferito una fonte governativa, precisando che Berlino “ha approvato un sostegno supplementare all’Ucraina”. Si tratta di missili di tipo Strela, di fabbricazione sovietica, che erano in uso nell’ex Germania dell’est.”
“È sempre per le piccole cose che ci si perde”, scriveva Dostoievskij. Uno dei possibili prodotti del “rimosso” è, per la psicanalisi, la creazione del lapsus, nel quale un desiderio inconscio si rivela, ma nascondendosi tra le trame della lingua. L’inevitabile prodotto del grande rimosso tedesco della riunificazione, con la conseguente, drammatica incapacità di creare un’egemonia anche culturale, anche politica, e non solo economica, per l’Europa degli ultimi trent’anni, è tutto qui: nel restituire i missili di quello Stato, la Germania orientale, considerato nemico per quarant’anni e poi assorbito senza dirsi cosa davvero “assorbire”, volesse dire, ai “sovietici”, pardon, ai russi, che di quello Stato erano stati i signori, lanciandoglieli, questi missili, direttamente contro, anzi, facendoglieli lanciare contro da una delle repubbliche ex-sorelle dell’ex impero sovietico. C’è da giurare, o forse solo da sperare, che del sadismo fecale, intrinseco a questo lapsus, il governo tedesco non si renda probabilmente neanche conto fino in fondo, come non si è reso conto di tutto ciò che il rimosso tedesco (non) ha provocato in tutti questi anni, provando predatoriamente ad assorbire le economie di interi Paesi, per di più senza considerarli veramente fratelli. Certo è che, una volta di più, il buon occidentale evita di sporcarsi le mani col sangue del nemico, provando a “suicidarlo”, affogandolo, silenziosamente, con la sua stessa spazzatura. Si racconta che l’ultima volta che un segretario del PCUS visitò la DDR, il segretario russo – era Gorbaciov – disse all’omologo tedesco orientale, Honecker, piuttosto indispettito con quella storia della “ristrutturazione” (perestrojka) e della “trasparenza” (glasnost) che il russo portava avanti, col rischio di far perdere vita e lavoro anche a tutta la nomenklatura dell’Est, che “chi rimane indietro viene punito dalla storia”. A quanto pare Honecker, alquanto offeso per non essere stato baciato come era uso tra capi di governo del Patto di Varsavia, domandò, beffardo e risentito, se in Russia ci fossero “abbastanza salami per tutti”. Come a dire: della Germania non potete, voi russi, fare a meno. A quanto pare, in tutti questi anni, dei salami i russi non hanno saputo che farsene, né tantomeno dei propri missili abbandonati in Germania. Con la “restituzione” tedesca, Honecker avrà avuto infine il suo bacio di vendetta, per quanto la sua ombra affranta di macellaio, c’è da giurarlo, rimarrà, ancora una volta, in Germania.
Nella foto: un murales dipinto sul muro di Berlino, che ritrae il celebre bacio tra Breznev e Honecker.
La scritta dell’anonimo street artist riporta: “Aiutami, dio mio, a sopravvivere a questo amore mortale”
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DEMONI (UNIVERSITARI) DEL POLITICAMENTE CORRETTO: DOSTOEVSKIJ O BULGAKOV?
03.03.2022
In Italia una Università pubblica, la Bicocca di Milano, ha annullato un corso su Dostoevskij per, cito, “evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in questo momento di forte tensione”. Poi, sommersa dalle critiche, ha ritrattato la propria decisione, chiedendo al relatore di aggiungere, per “par condicio”, anche alcuni autori ucraini.
So, per esperienza, come l’università si stia sempre più vocando a divenire una istituzione aliena a ogni forma di polemica e a ogni forma di tensione, e dunque a divenire, in prospettiva, inutile per la stessa società. Eppure, confesso che la notizia mi ha colpito ugualmente per tre motivi: per la stupidità, che permette anche solo di pensare che parlare di un classico dell’umanità, come Dostoevskij, possa generare in qualche modo tensione, che non sia la giusta necessaria tensione che ogni umano dovrebbe vivere almeno una volta nella vita per poter aggiungere un po’ di umanità alla propria umanità; l’ignavia, che non fa comprendere come proprio in un momento di tensione leggere i classici dell’umanità, dovunque siano nati, produce un senso di umanità in qualunque umanità, ovunque essa viva; l’ignoranza, che fa sì che un accademico non sappia come Dostoevskij sia stato per il suo tempo, per la sua Russia, e per il suo governo, un punto radicale di contestazione e di rivolta; infine, per la psicologia che c’è dietro questa decisione, quella di chi vorrebbe quasi prevenire, terrorizzato, una qualunque polemica, a cui evidentemente non sarebbe in grado di rispondere, vista la stupidità, l’ignavia e l’ignoranza di cui sopra. Ancora peggio, però, mi sembra appunto la giustificazione e la rettifica data dall’Università: se mettiamo un russo, Dostoevskij, dobbiamo mettere anche un ucraino. Come se, appunto, la cultura umana si dovesse distinguere per nazionalità e non invece per quello che effettivamente ha dato; o, peggio, come se uno scrittore, morto, fosse responsabile per quello che fa il governo del Paese in cui è nato, un secolo dopo. Un pensiero che ce la dice lunga sui demoni che il “politically correct” porta con sé, soprattutto in tempi di guerra: quello di generare un discorso “neutro”, assorbendo o cancellando qualunque cosa appaia o possa apparire come nemico. Spiace che Paolo Nori, lo scrittore a cui erano state affidate le lezioni, non abbia avuto la brillantezza di proporre, per “par condicio”, un autore di Kiev, Michail Bulgakov, che ha sempre scritto in russo e contro le istituzioni culturali del suo tempo, ridotte a cimiteri: magari qualcuno avrebbe capito come una cultura e una lingua uniscano i popoli più di mille carriarmati o di inquisizioni preventive, e soprattutto come la resistenza e la rivolta uniscano scrittori e popoli più di quanto non li dividano, criminalmente, i loro governanti.
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UN NOME, UNO SPETTRO
25.02.2022
Una volta, tanti anni fa, chi era contro i nazionalismi e gli imperialismi, contro tutti gli imperialismi e tutti i nazionalismi, aveva un nome, ma non ricordo più quale, sinceramente. Chi era contro tutti gli imperialismi e i nazionalismi veniva guardato male, lo si temeva, lo si guardava quasi come si guarda uno “spettro” che, in un campo di battaglia, invece di combattere, rivolgeva le proprie armi contro i generali che indicavano il nemico. Ora, se mi ricordo bene, quelli che pensavano queste cose dicevano che ogni guerra, qualunque guerra, fa arretrare gli uomini ad uno stadio di evoluzione precedente, e che, proprio per questo, occorreva eliminare alla base le condizioni di ogni guerra, dicevano che occorreva lottare contro tutti gli imperialismi e tutti i nazionalismi, per far sì che i popoli si riconoscessero come legati da una unica forza, una forza comune, una umanità comune. Che l’umanità è davvero tale solo se si riconosce per quello che essa ha in comune, dicevano. Diceva, questa gente, che non c’è un imperialismo buono e uno meno buono, ma che gli imperialismi vanno tutti combattuti, indistintamente. C’è stato addirittura un tempo in cui le “cancellerie di tutta Europa” temevano questa gente come una specie di “spettro”, insomma, come il proprio nemico assoluto, perché avrebbe sgretolato, impietosamente, il loro potere di morte.
Ecco, non ricordo più il nome che si dava questa gente, né il nome di questo “spettro”, che forse, come tutti gli spettri, non ha bisogno di nomi. Ma insomma, se ancora lo incrociaste, questo spettro, ditegli che sì, che lui è e sarà sempre dalla parte giusta della storia.
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SULLA RUSSIA E SUI RUSSI, ORA SERIAMENTE
22.02.2022
Molti anni fa mi capitò, per un caso raro della vita, di andare in Russia. Ci andai, per scelta, in pieno inverno. La Russia era per me, fino a quel momento, queste cose: lo scorno di Napoleone nelle distese innevate di “Guerra e pace”, la politica, e quindi, per la mia generazione, essenzialmente Gorbaciov (come tutti gli italiani hanno sempre chiamato e scritto il nome dell’ultima speranza sovietica e della fine della guerra fredda) e Lenin, il filo e il contrasto che univa e separava i due, la musica, la grande musica dell”800 e del ‘900, il cinema, quello di Eizenstejn e di Sokurov, e poi, sì, Juri Gagarin, il primo cosmonauta, un ricordo del quale la mia fidanzatina tedesca (dell’Est) dell’epoca teneva sulla scrivania, quasi per aggrapparsi ad una infanzia che le avevano chiesto, a un certo punto, di rifiutare.
Ma non ero mai stato in Russia.
Rimasi stupito, per giorni, e non, come capita a volte, perché si cercano, senza trovarle, tutte le proiezioni che su di un luogo si sono fatte in precedenza, ma perché invece, per una volta, tutte le proiezioni stavano lì. Tutte, negli occhi di un’anziana babuscka che vendeva pantofole di paglia su un marciapiede, e nelle feste dei giovani fatte nelle meravigliose stazioni metro di Mosca, per ripararsi dal freddo.
Erano i primi anni di governo di Putin, dopo quelli, terribili, di Eltsin. Terribili perché avevano spogliato la Russia, e i russi, non solo di una certa dignità del vivere, ma perché li avevano umiliati, sistematicamente, agli occhi del mondo. C’erano state le bombe, nelle stazioni delle metro, solo pochi mesi prima. Mi spiegarono che Putin non era la Russia, anzi, che era molto diverso, questo grigio demone pietroburghese, dalla maggior parte dei russi. Non beveva, non rideva forte. Ma una cosa era riuscito a fare, Putin, oltre ad ammazzare la Politovskaya: ed era dare un po’ di dignità al vivere quotidiano, e a dare un senso ad uno Stato. Uno Stato vecchio di secoli, e che era stato, letteralmente, predato.
Era riuscito a offrire un progetto per far uscire i russi dall’umiliazione cocente a cui erano costretti da anni. Questo lui lo sapeva, e lo sapevano, obtorto collo, anche i russi. Qui nasceva il suo potere.
Tutto qui. Mi veniva aspro da capire, ma questo era. L’umiliazione.
E negli occhi della nonnetta russa, che mi guardava mentre contavo e ricontavo i rubli con cui lei avrebbe vissuto, forse, un anno, questa umiliazione non c’era. Credo di aver intuito allora che una cosa sarebbe importata più di tutte ai russi: quella di farla finita con l’umiliazione. Credo di averlo intuito perché c’è qualcosa in questo aspetto del carattere russo, anche dei ceti più popolari, che è vicino, forse troppo, a un certo sentire comune della terra da cui vengo, la Sicilia. Poveri, i siciliani, disposti ai sacrifici anche più aspri, ma non umili.
È questo, penso, che, al di là delle manfrine di cui si stanno riempiendo i giornali occidentali di questi giorni, dovrebbe essere chiaro. Qualunque russo aspettava, da trent’anni, il momento in cui poter essere, nuovamente, riconosciuto. È questo, penso, che un vecchio presidente americano avrà difficoltà a capire. E il brivido che percorre le cancellerie di tutta Europa è in fondo simile a quello che per decenni hanno avuto buon gioco a chiamare “comunismo”. Il comunismo è un’altra cosa, sia ben chiaro, e non è stato, no, l’Unione Sovietica (anche se qualcosa di “russo” in questa autoesaltazione degli umili che è il comunismo forse c’è davvero). La Russia è però uno spettro, di fronte a cui l’Occidente è costretto a guardarsi, così come ha fatto Nietzsche, quando si è specchiato in Dostoievskj. E come hanno fatto il “capitalismo occidentale” o la “democrazia”. Cancellare lo spettro, tentare di distruggerlo, significa distruggere se stessi. Come gli europei hanno imparato bene: alle porte di Mosca o a Stalingrado.
Ora non siamo solo noi a guardare la Russia: è la Russia che ci guarda, e, semplicemente, aspetta.
APPUNTI SPARSI SULLA GUERRA RUSSO-UCRAINA
C’è qualcosa, nel cazzotto di Will Smith a Chris Rock, che mi sembra faccia di quella scena un paradigma dell’isteria e dello scontento di una intera società, società di cui Hollywood è stata sempre, nel bene e nel male, l’accurata rappresentazione spettacolarizzata.
Il rito, per eccellenza.
Certo, si può semplicemente dire che Smith e Rock sono due imbecilli narcisi e machisti, come sempre ci sono stati. Ma due imbecilli che partecipano a un rito smettono, per ciò stesso, di essere tali e si adeguano a dei filtri che li rendono, per un momento, altro da quello che sono. Se due imbecilli invece si possono manifestare anche in un rito per quello che sono, cioè senza filtri, è il rito stesso che manifesta la sua impotenza sacrale. Diventa una cosa tra le altre: non fa differenza che uno dia un cazzotto in un bar di periferia o in mondovisione.
A un Clint Eastwood o a un Sean Connery non sarebbe mai venuto in mente, a una battuta infelice di un comico verso la loro compagna o moglie, di alzarsi e dargli un pugno in mondovisione. E non solo perché non erano imbecilli o narcisi, ma perché il loro spettacolo implicava una ritualità e una forma a cui non era possibile sfuggire. Implicava appunto un filtro. È questo filtro, che garantisce i rituali di ogni società umana, e su cui probabilmente contava anche Chris Rock sentendo di poter dire di tutto (e, in fondo, neanche qualcosa di troppo grave) che è venuto meno.
Nella lacerazione del filtro spettacolare a essere irrimediabilmente profanato è dunque anche il rituale: se anche il rito per eccellenza può essere devastato, allora non c’è più alcun rito, su quel piano, che tenga.
Ed è precisamente questo, credo, che fa di quella scena il paradigma di una dei sintomi, se non delle cause stesse, dell’isteria e dello scontento della società contemporanea: la vita viene progressivamente sempre meno mediata, e sempre meno mediata la sua emotività. La stessa idea che una emozione debba essere lavorata, persino repressa, per poter essere culturalmente integrata è progressivamente venuta meno. La libera espressione è stata tradotta dallo spettacolo nella liberazione brutale: quando lo spettacolo non riesce più a mediare, e il vero e il falso perdono la loro distinzione, la brutalità spettacolare emerge nel pugno vero di un attore in scena.
Proprio per questo in un altro tempo quella scena non sarebbe accaduta: perché l’isteria e lo scontento potevano ancora contare su dei filtri, culturalmente codificati.
La scena di ieri è la trasposizione reale di ciò che Joaquin Phoenix è riuscito a rappresentare neanche troppo tempo fa. Nel riso di Joker, ma soprattutto nel sorriso con cui Joker confessa in scena i suoi omicidi veri finendo con l’assassinare, in diretta, il conduttore che lo intervista.
Certo, di Joker non si direbbe che è un imbecille, ma solo un pazzo.
Proprio questo, la scena è ancora più triste di quanto sembri. Rendendo triste persino il luogo dello spettacolo per eccellenza, essa ne rivela quelle basi profondamente tristi, isteriche e scontente, su cui poggia orma esso stesso, così come la società di cui è espressione.
Nella trasposizione su un registro “reale” di una scazzottata che l’industria culturale di Hollywood abitua, letteralmente, a “schermare”, lo spettacolo hollywoodiano finisce col perdere quell’aura che aveva consentito – come ad ogni altra merce, secondo Benjamin o Debord – la permanenza di un registro sacro anche nella società capitalista avanzata.
La scazzottata non è più solo una scazzottata, se trasmessa in mondovisione, e due imbecilli non sono più solo due imbecilli. E invece sì. Ma se in mondovisione può andare in scena una scazzottata tra due imbecilli, questa può avvenire dovunque e per molto meno.
Se dio non esiste, tutto è permesso. Tutto ridiventa possibile, se i luoghi in cui una cultura ha trasposto il sacro spariscono progressivamente. Joker appare nella veste di pazzi e imbecilli che confondono continuamente il vero col falso. Ci si potrebbe chiedere se questo c’entri qualcosa con i due anni di pandemia o con la guerra in corso: probabilmente, sì, ma c’entra ancor di più col nostro futuro.
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Non vorrei essere nei (sudatissimi) panni dei diplomatici americani che, dopo ogni dichiarazione del Presidente USA, devono correre ogni volta ad aggiustare il tiro. In ordine sparso, Biden ha dato a Putin del “killer”, del “macellaio” e del “tiranno”, per inciso, tutte definizioni calzanti se non fosse che definizioni simili sono state date da presidenti americani a gente come Osama bin Laden, Saddam Hussein e Gheddafi, prima di dichiarare una qualche guerra. Non contento e, a conferma di quanto detto, Biden ha chiarito che Putin “non può rimanere al potere”. Richard Hass, Presidente del US Council of Foreign Relations, ha messo in chiaro come le dichiarazioni del suo “potus” (il Presidente nel gergo diplomatico) “rendono una situazione già difficile ancora più difficile e più pericolosa una situazione già pericolosa. Il che è ovvio. Meno ovvio è come riparare il danno”. Hass suggerisce quindi ai capi diplomatici di chiamare le controparti e di chiarire come gli USA siano pronti a raggiungere un accordo col macellaio. Il che, sempre per inciso, non sarebbe la prima volta nella storia americana. Il consiglio sembra essere stato prontamente seguito dal Segretario di Stato, che si è affrettato a mettere una pezza, ribadendo che gli USA non puntano ad un cambio di regime in Russia e di “pensare” che le dichiarazioni di Biden debbano essere interpretate nel senso che Putin non può avere il potere di fare la guerra a chicchessia. Sembra ovvio che il segnale sia indirizzato a chi, nell’amministrazione russa, può avere ancora un peso per frenare Putin, così come sembra altrettanto ovvio che i diplomatici sentano di dover in qualche modo mettere sotto tutela diplomatica un presidente fuori controllo. C’è da aggiungere, però, come sempre, che soffiare sul fuoco sia visto da qualcuno come una buona strategia per compattare il voto in vista delle elezioni di Midterm e che la “retorica” di Biden possa quindi aiutare. Nella migliore delle ipotesi, il mondo è quindi in mano a un killer (etc…) che ha messo sotto tutela dittatoriale il suo Paese, a un Presidente a cui i suoi stessi diplomatici danno del rincoglionito e a una società democratica la cui isteria le sue elites pensano di poter ricompattare solo attraverso un nemico.
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MAFIA GEOPOLITICA, GEOPOLITICA MAFIOSA
25.03.2022
Essendo la loro terra ormai da tempo immemore una colonia di potenze tutte venute da fuori, ed avendo, anche per questo motivo, perduto qualsivoglia ambizione e voglia di conquistare il mondo, i siciliani hanno acquisito il vezzo di ritenere che tutto il mondo sia in qualche modo “Sicilia” oppure, più precisamente, che il mondo sia davvero comprensibile solo a partire dalla Sicilia.
Non essendo neanch’io, un po’ per scherzo e un po’ seriamente, del tutto estraneo a questo vezzo di fare della Sicilia un paradigma del mondo, e soprattutto dei suoi poteri, ho da poco dato alle stampe un saggio che fa della mafia un paradigma (addirittura) del nichilismo geopolitico contemporaneo, nel quale tento di mostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, come gli Stati (e in genere tutti i poteri che sfuggono ad un diritto condiviso) si comportino tra loro come in Sicilia si comportano e si comportavano i boss.
Ora, da militante antimafia, so che un boss mafioso non si combatte mai parteggiando per un altro boss mafioso: certo si può combatterlo sul territorio, provando a togliergli il terreno sotto i piedi, ovvero a convincere il suo “popolo” a sottrarsi al suo dominio. Si può anche combatterlo, in rappresentanza di un altro potere che sia apparentemente in grado di imporre uno “stato di diritto” e di difendere la popolazione contro le soverchierie del boss. Un potere che deve però legittimarsi non solo contro quel boss ma contro tutti i boss: contro la “mafia”, insomma, in tutte le sue concretizzazioni.
Anche in questo caso, difficilmente però si riesce a vincere la partita, a meno che non spunti un “collaboratore”, un Buscetta, insomma, che dall’interno ti dia le chiavi per smontare pezzo pezzo tutta l’organizzazione. D’altronde, che un qualche “collaboratore” debba apparire rivela proprio il carattere “mafioso” di una certa associazione a delinquere. Si capisce allora come i casi di Julian Assange e di Edward Snowden, così come quello di Anna Politovskaya, meno dicono delle loro persone e più dei gangster, pardon, del tipo di poteri che li hanno perseguitati.
E in tutto questo, se manca oggi quel potere in grado di contrapporsi ai boss come tali, sembra venirci a mancare anche la volontà, o la capacità, di sfidare sul suo territorio il nostro boss di quartiere. Anche perché, va da sé, si troverà sempre un boss che ti dirà, mentre ti uccide o ti “suicida”, che l’altro boss è ancora peggiore.
Se il mondo fosse la Sicilia, o la Sicilia fosse davvero un paradigma del mondo, si dovrebbe forse trovare il coraggio di dire – un coraggio insomma, questo, non militarista – come quello di Peppino Impastato, che la mafia è tutta, non solo quella di don Tano o don Totò, “una montagna di merda”. O anche semplicemente, come diceva Giovanni Falcone, che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”.
(Anche se mai come nella geopolitica mafiosa di questi giorni, sembra valere quel rischio indicato da Falcone quando, con una nota di pessimismo tutto siciliano, manifestava la speranza che “la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo”.)
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HONECKER, L’ULTIMO BACIO
03.03.2022
Nella confusione tragica e stupida, come solo la guerra può darla, di queste ore, leggo, appena sveglio, la notizia: “La Germania consegnera’ altri 2.700 missili anti-aerei all’Ucraina. Lo ha riferito una fonte governativa, precisando che Berlino “ha approvato un sostegno supplementare all’Ucraina”. Si tratta di missili di tipo Strela, di fabbricazione sovietica, che erano in uso nell’ex Germania dell’est.”
“È sempre per le piccole cose che ci si perde”, scriveva Dostoievskij. Uno dei possibili prodotti del “rimosso” è, per la psicanalisi, la creazione del lapsus, nel quale un desiderio inconscio si rivela, ma nascondendosi tra le trame della lingua. L’inevitabile prodotto del grande rimosso tedesco della riunificazione, con la conseguente, drammatica incapacità di creare un’egemonia anche culturale, anche politica, e non solo economica, per l’Europa degli ultimi trent’anni, è tutto qui: nel restituire i missili di quello Stato, la Germania orientale, considerato nemico per quarant’anni e poi assorbito senza dirsi cosa davvero “assorbire”, volesse dire, ai “sovietici”, pardon, ai russi, che di quello Stato erano stati i signori, lanciandoglieli, questi missili, direttamente contro, anzi, facendoglieli lanciare contro da una delle repubbliche ex-sorelle dell’ex impero sovietico. C’è da giurare, o forse solo da sperare, che del sadismo fecale, intrinseco a questo lapsus, il governo tedesco non si renda probabilmente neanche conto fino in fondo, come non si è reso conto di tutto ciò che il rimosso tedesco (non) ha provocato in tutti questi anni, provando predatoriamente ad assorbire le economie di interi Paesi, per di più senza considerarli veramente fratelli. Certo è che, una volta di più, il buon occidentale evita di sporcarsi le mani col sangue del nemico, provando a “suicidarlo”, affogandolo, silenziosamente, con la sua stessa spazzatura. Si racconta che l’ultima volta che un segretario del PCUS visitò la DDR, il segretario russo – era Gorbaciov – disse all’omologo tedesco orientale, Honecker, piuttosto indispettito con quella storia della “ristrutturazione” (perestrojka) e della “trasparenza” (glasnost) che il russo portava avanti, col rischio di far perdere vita e lavoro anche a tutta la nomenklatura dell’Est, che “chi rimane indietro viene punito dalla storia”. A quanto pare Honecker, alquanto offeso per non essere stato baciato come era uso tra capi di governo del Patto di Varsavia, domandò, beffardo e risentito, se in Russia ci fossero “abbastanza salami per tutti”. Come a dire: della Germania non potete, voi russi, fare a meno. A quanto pare, in tutti questi anni, dei salami i russi non hanno saputo che farsene, né tantomeno dei propri missili abbandonati in Germania. Con la “restituzione” tedesca, Honecker avrà avuto infine il suo bacio di vendetta, per quanto la sua ombra affranta di macellaio, c’è da giurarlo, rimarrà, ancora una volta, in Germania.
Nella foto: un murales dipinto sul muro di Berlino, che ritrae il celebre bacio tra Breznev e Honecker.
La scritta dell’anonimo street artist riporta: “Aiutami, dio mio, a sopravvivere a questo amore mortale”
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DEMONI (UNIVERSITARI) DEL POLITICAMENTE CORRETTO: DOSTOEVSKIJ O BULGAKOV?
03.03.2022
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UN NOME, UNO SPETTRO
25.02.2022
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SULLA RUSSIA E SUI RUSSI, ORA SERIAMENTE
22.02.2022
Molti anni fa mi capitò, per un caso raro della vita, di andare in Russia. Ci andai, per scelta, in pieno inverno. La Russia era per me, fino a quel momento, queste cose: lo scorno di Napoleone nelle distese innevate di “Guerra e pace”, la politica, e quindi, per la mia generazione, essenzialmente Gorbaciov (come tutti gli italiani hanno sempre chiamato e scritto il nome dell’ultima speranza sovietica e della fine della guerra fredda) e Lenin, il filo e il contrasto che univa e separava i due, la musica, la grande musica dell”800 e del ‘900, il cinema, quello di Eizenstejn e di Sokurov, e poi, sì, Juri Gagarin, il primo cosmonauta, un ricordo del quale la mia fidanzatina tedesca (dell’Est) dell’epoca teneva sulla scrivania, quasi per aggrapparsi ad una infanzia che le avevano chiesto, a un certo punto, di rifiutare.
Ma non ero mai stato in Russia.
Rimasi stupito, per giorni, e non, come capita a volte, perché si cercano, senza trovarle, tutte le proiezioni che su di un luogo si sono fatte in precedenza, ma perché invece, per una volta, tutte le proiezioni stavano lì. Tutte, negli occhi di un’anziana babuscka che vendeva pantofole di paglia su un marciapiede, e nelle feste dei giovani fatte nelle meravigliose stazioni metro di Mosca, per ripararsi dal freddo.
Erano i primi anni di governo di Putin, dopo quelli, terribili, di Eltsin. Terribili perché avevano spogliato la Russia, e i russi, non solo di una certa dignità del vivere, ma perché li avevano umiliati, sistematicamente, agli occhi del mondo. C’erano state le bombe, nelle stazioni delle metro, solo pochi mesi prima. Mi spiegarono che Putin non era la Russia, anzi, che era molto diverso, questo grigio demone pietroburghese, dalla maggior parte dei russi. Non beveva, non rideva forte. Ma una cosa era riuscito a fare, Putin, oltre ad ammazzare la Politovskaya: ed era dare un po’ di dignità al vivere quotidiano, e a dare un senso ad uno Stato. Uno Stato vecchio di secoli, e che era stato, letteralmente, predato.
Era riuscito a offrire un progetto per far uscire i russi dall’umiliazione cocente a cui erano costretti da anni. Questo lui lo sapeva, e lo sapevano, obtorto collo, anche i russi. Qui nasceva il suo potere.
Tutto qui. Mi veniva aspro da capire, ma questo era. L’umiliazione.
E negli occhi della nonnetta russa, che mi guardava mentre contavo e ricontavo i rubli con cui lei avrebbe vissuto, forse, un anno, questa umiliazione non c’era. Credo di aver intuito allora che una cosa sarebbe importata più di tutte ai russi: quella di farla finita con l’umiliazione. Credo di averlo intuito perché c’è qualcosa in questo aspetto del carattere russo, anche dei ceti più popolari, che è vicino, forse troppo, a un certo sentire comune della terra da cui vengo, la Sicilia. Poveri, i siciliani, disposti ai sacrifici anche più aspri, ma non umili.
È questo, penso, che, al di là delle manfrine di cui si stanno riempiendo i giornali occidentali di questi giorni, dovrebbe essere chiaro. Qualunque russo aspettava, da trent’anni, il momento in cui poter essere, nuovamente, riconosciuto. È questo, penso, che un vecchio presidente americano avrà difficoltà a capire. E il brivido che percorre le cancellerie di tutta Europa è in fondo simile a quello che per decenni hanno avuto buon gioco a chiamare “comunismo”. Il comunismo è un’altra cosa, sia ben chiaro, e non è stato, no, l’Unione Sovietica (anche se qualcosa di “russo” in questa autoesaltazione degli umili che è il comunismo forse c’è davvero). La Russia è però uno spettro, di fronte a cui l’Occidente è costretto a guardarsi, così come ha fatto Nietzsche, quando si è specchiato in Dostoievskj. E come hanno fatto il “capitalismo occidentale” o la “democrazia”. Cancellare lo spettro, tentare di distruggerlo, significa distruggere se stessi. Come gli europei hanno imparato bene: alle porte di Mosca o a Stalingrado.
Ora non siamo solo noi a guardare la Russia: è la Russia che ci guarda, e, semplicemente, aspetta.