FRANCESCO BIAGI [ITA_30/11/2017]
La redazione di Thomasproject ringrazia la rivista «Il Ponte» per la possibilità di riprodurre la recensione di Francesco Biagi al libro I reietti della città. Ghetto, periferia, stato di Loïc Wacquant (edizione italiana e traduzione a cura di Sonia Paone e Agostino Petrillo, Pisa, ETS, 2016, pp. 372; ed. or. Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Cambridge, Polity Press, 2008). L’articolo è uscito nel n. 10 de «Il Ponte», Ottobre 2017, ISSN: 0032-423 X
«Parlare oggi di “banlieue problematica” o di “ghetto” significa evocare, in modo quasi automatico, non delle “realtà”, d’altronde largamente sconosciute da parte di quelli che ne parlano più volentieri, ma dei fantasmi, nutriti di esperienze emotive suscitate da parole o immagini più o meno incontrollate. […] È dunque, più che mai necessario praticare un pensiero para-dossale: ossia il pensiero che, erigendosi al tempo stesso contro il buon senso e contro i buoni sentimenti, si esponga di apparire ai benpensanti delle due sponde o come un partito preso, mosso dal desiderio di épater le bourgeois, o come una forma d’indifferenza insopportabile nei confronti della miseria dei più bisognosi. Si può operare una rottura rispetto alle false evidenze e agli errori inscritti nel pensiero sostanzialista dei luoghi, solo a condizione di operare un’analisi rigorosa dei rapporti tra le strutture dello spazio sociale e le strutture dello spazio fisico.»[1]
Ludwig Wittgenstein nelle annotazioni filosofiche presenti in Pensieri diversi sostiene che «il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole» come se fosse «un’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili» dove impietriti assistiamo «l’uno dopo l’altro percorrere le stesse strade e sappiamo già dove adesso devierà, dove proseguirà dritto senza notare la biforcazione».[2] Poco più avanti, in un altro frammento del 1931, appunta: «il potere che il linguaggio possiede nel rendere tutto uguale, […] fa sì che il tempo abbia potuto essere personificato, il che non è meno strano di quanto lo sarebbe l’aver fatto delle costanti logiche altrettante divinità».[3] Loïc Wacquant assume fino in fondo la lezione del filosofo austriaco per servirsi della sociologia come strumento disvelatore delle mistificazioni e dei pregiudizi che attanagliano gran parte della realtà umana: «fissando i rudimenti di uno schema comparativo provvisorio, desidero innanzitutto sollecitare la massima cautela nel trasferimento transatlantico di concetti e teorie appartenenti a una articolazione che tiene assieme dominazione razziale, disuguaglianza di classe e strutturazione dello spazio. E quindi aiutare a prevenire gli errori nelle politiche pubbliche derivanti dagli errori analitici promossi dalla campagna politico-mediatica ai quali questa questione confusa e controversa è soggetta» (p. 167).
Simili motivazioni sono le medesime che hanno spinto Agostino Petrillo e Sonia Paone hanno tradotto a quattro mani l’ampio volume I reietti della città. Ghetto, periferia, stato,[4] il quale raccoglie un decennio di ricerca sul campo (1987-1997) fra il ghetto americano di Chicago e la banlieue francese di Parigi del celebre allievo di Pierre Bourdieu.
Tuttavia è lecito porre un quesito: perché rendere disponibile in lingua italiana delle ricerche risalenti a più di dieci anni fa? La risposta più adeguata è fornita dallo stesso autore, nelle conclusioni: «Per il lettore dispiaciuto di non trovare qui un quadro più attuale […] ricordo che il ritmo della ricerca non è quello dei commenti dei media o dell’azione pubblica, il compito delle scienze sociali non è quello di cavalcare l’onda degli eventi attuali, ma portare alla luce i meccanismi durevoli e invisibili che li producono» (pp. 308-309). Se mi è consentito, aggiungo che ritrovo l’utilità di una traduzione italiana di Urban Outcasts innanzitutto per porre nel dibattito sociologico del nostro Paese un punto di non ritorno; d’ora innanzi I reitti della città sarà la cifra per continuare a leggere e interpretare anche le periferie del nostro stivale. Wacquant, per mezzo della sociologia storica, offre una costellazione chiara nel campo degli urban studies che si confrontano con il fenomeno della marginalità urbana, avanzando delle categorie chiare per comprendere le ricadute sociali della ristrutturazione neoliberale. Pertanto l’autore sostiene che «per l’analisi sociologica si apre, non la constatazione di impotenza che porta alla presentazione compiaciuta o rassegnata delle forze del mondo, ma la riaffermazione motivata del primato della politica come capacità di articolare e di impegnarsi sulle scelte collettive fatte con piena conoscenza delle cause e delle conseguenze» (p. 313).
Il volume nasce come la sistematizzazione compiuta di una raccolta di diversi articoli pubblicati in altrettante riviste internazionali (si veda p. 316) i quali seguivano, passo passo, le tappe della ricerca di una sociologia storica comparata fra il fenomeno del ghetto statunitense principalmente dalle lotte contro l’apartheid fino agli anni ‘90 e la banlieue francese, nella medesima congiuntura, ovvero dagli anni ’50-’60 all’ultimo decennio del secolo scorso.
La rigorosa attualità del volume si intravvede, in primo luogo, nella capacità di ricostruire il file rouge dei due differenti fenomeni urbani, spesso banalizzati nell’identificazione giornalistica e pubblicistica che cavalca il «panico morale»[5] suscitato dai luoghi delle periferie; in secondo luogo, per l’acume nell’indicare il rimosso della società liberale – probabile metafora di un inedito «Popolo dell’abisso» nel solco di Jack London – ovvero la direzione del nuovo regime di «marginalità urbana avanzata» verso cui tende l’attuale progetto economico-sociale neoliberista.
Innanzitutto l’autore delinea la transizione storica dello statuto sociologico del ghetto verso la condizione di “iperghetto” negli USA, evidenziando il ruolo fondamentale svolto dalle strutture politiche statali e federali nella riproduzione della marginalità sociale e urbana razzializzata (Cfr.: p. 108). Wacquant rifiuta le categorie della «disorganizzazione» coniate dalla Scuola di Chicago negli anni Trenta e – simultaneamente – rifiuta anche la più recente narrazione sociologica perbenista e depoliticizzante della «Underclass» diffusasi nelle accademie statunitensi, al fine di mostrare come il ghetto americano sia collassato su se stesso, intensificando al suo interno le dinamiche di esclusione e marginalità fino a trasformarsi in “iperghetto”. Sinteticamente: se il ghetto americano si caratterizza per aver messo al bando i neri escludendoli radicalmente dalla vita civile e sociale della città, fino a provocare una specie di stato parallelo dentro il suo perimetro capace di funzionare come una rete comunitaria di mutuo-aiuto per la medesima categoria esclusa, l’iperghetto si caratterizza nell’aver mantenuto l’esclusione razziale, eliminando quel tessuto sociale comunitario cruciale per sostenere collettivamente il destino delle persone nere. Alla condizione razzista si somma il fenomeno della rottura dei legami sociali di mutuo soccorso, cosicché lo statuto del ghetto si intensifica in termini di violenza, disagio, disoccupazione e impossibilità di avere le necessarie opportunità di vita. I tre poli della razza, della classe sociale e dello spazio sono implosi su se stessi scatenando l’inasprimento delle medesime condizioni sociali marginali. A sostegno di questa tesi, Wacquant porta dati e studi etnografici svolti sul campo di persona che qui per ragioni di spazio non è possibile analizzare; inoltre, identifica nello Stato il protagonista principale di questa implosione a causa di una sua progressiva ritirata dal punto di vista “sociale” e una sua enorme estensione invece dal punto di vista penale e repressivo. Il vero responsabile infatti del collasso del ghetto nell’iperghetto sono le politiche governative di abbandono urbano e la conseguente ricaduta sociale di un simile stigma, che influenza la possibilità di avere e cercare un lavoro, di potersi costruire delle relazioni che superano le trincee urbane della periferia. Infine, nel corso della lettura del volume, balza agli occhi la somiglianza delle testimonianze citate dal sociologo francese con la recente opera di Ta-Nehisi Coates dal titolo Tra me e il mondo,[6] dove lo scrittore afroamericano di Baltimora immagina di scrivere una lettera al figlio raccontando la vita di soprusi e discriminazioni vissute dai neri della sua famiglia nelle periferie delle metropoli statunitensi.
La seconda parte del volume ci conduce nel Vecchio Mondo, l’Europa e più precisamente nella banlieue francese di Parigi, per confutare la tesi di una progressiva convergenza fra il fenomeno della periferia statunitense con quella francese e più in generale europea. L’autore dimostra chiaramente come l’assimilazione del concetto di ghetto americano per descrivere i fenomeni di disagio nella periferia d’oltralpe sia stata utilizzata strumentalmente dai media e dalla classe dirigente francese, con il fine di dare una rappresentazione stereotipata e stigmatizzante capace di legittimare il panico morale delle classi più abbienti oppure da studiosi che «non tengono conto delle specificità dei regimi di welfare e degli immediati ambienti socio-spaziali all’interno dei quali gli individui e le categorie evolvono in ciascuna società» (p. 224). Inoltre, è bene tenere a mente che «gli strumenti concettuali “nazionali” incorporano al loro interno specifici presupposti, morali, politici, e sociali specchio della particolare storia di intento classificatorio di ciascun paese» (p. 193).
Se vi sono dei tratti simili fra il ghetto e la banlieue sono dovuti alla posizione comune di avere degli abitanti che vivono «al fondo della gerarchia materiale e simbolica dei luoghi che compongono la metropoli» (p. 320). Tuttavia la periferia francese si distingue da quella statunitense principalmente per l’elemento principale della posizione di classe (mentre il ghetto nero ha come prima caratteristica la discriminazione di razza), la quale si caratterizza entro una composizione multietnica di tutti i reietti della periferia, comprendendo vaste fasce di popolazione meno abbiente sia autoctona che migrante. La banlieue non è un ghetto, perché non nasce e non si sviluppa nello stigma dell’apartheid, anzi si caratterizza come “anti-ghetto” (p. 321) così come è ribadito nella postfazione all’edizione italiana scritta appositamente dall’autore. La banlieue suscita uno stigma che è profondamente legato alla discriminazione di classe, questo non significa negare il razzismo e la xenofobia in Francia, tuttavia questi due dispositivi agiscono a livello complementare alla stratificazione sociale. Il governo francese non ha mai progettato per la banlieue il livello di apartheid subito dai ghetti neri americani. La periferia francese infatti nasce come quartiere operaio e dei meno abbienti, scrivendo una propria biografia radicalmente diversa dalla periferia americana: «a differenza del ghetto nero americano, la banlieue non è una formazione sociola omogenea, portatrice di una identità culturale unitaria, dotata di una avanzata autonomia organizzativa e di una duplicazione istituzionale, basata su una scissione dicotomica tra razze (cioè tra categorie etniche fittiziamente biologizzate) ufficialmente riconosciuta dallo stato» (p. 189).
In secondo luogo, la banlieue non ha subito il medesimo ritiro dello Stato che invece è avvenuto negli USA, basti pensare ai numerosi programmi del Paese d’oltralpe per le periferie, che si spingono fino a strumentalizzare il concetto di “diritto alla città” proposto da Henri Lefebvre.[7] Il diritto alla città infatti, ha sperimentato in Francia derive mainstream per mezzo di una vera e propria «rivoluzione passiva» del termine. Laurence Costes in Lire Henri Lefebvre ricorda ad esempio che nel 1973 l’allora ministro delle infrastrutture Olivier Guichard (uno dei più stretti collaboratori di De Gaulle) riprende esplicitamente tale concetto: «Oltre che un diritto all’alloggio» il governo intende assicurare ai cittadini «una diritto alla città, un diritto a un ambiente vivibile e ricco» che addirittura possa cambiare la vita.[8] Altri esempi di riutilizzo da parte dei governi del diritto alla città come strumento di governance incapace di sradicare profondamente le radici della marginalità urbana sono: (1) il programma “Banlieues 89” dell’architetto Roland Castro, ripreso nel 1983 dal governo di Sinistra, il quale aveva come obiettivo l’affermazione del diritto alla città nelle periferie delle metropoli francesi; a questo proposito Wacquant ricorda come Castro sia uno dei più agguerriti sostenitori dell’identificazione tra ghetto americano e banlieue francese (p. 173). (2) La “Loi d’orientation pour la ville” del 1991, dove vi è contenuto un particolare articolo sul “diritto alla città”, ampiamente criticato nel dibattito francese, dove ci si interrogava su quale “diritto alla città” fosse contemplato – per esempio – nei confronti dei sans papier.
Pertanto, «l’iperghetto fin-de-siècle negli Stati Uniti è un cosmo chiuso, monotono, razzialmente e culturalmente unificato, caratterizzato da una bassa densità organizzativa e limitato da una sfuggente penetrazione del welfare state, mentre il suo omologo strutturale sul lato francese è fondamentalmente eterogeneo nella sua assunzione etno-razziale e anche sociale, aperto al suo ambiente circostante e sostenuto da una presenza relativamente forte delle istituzioni pubbliche» (p. 258).
Infine, Wacquant mette in luce come anche certi ambienti della gauche d’oltralpe abbiano accettato sommariamente l’equazione fra ghetto americano e banlieue francese, fra i quali ricordiamo diverse pubblicazioni del giornale Le Monde (p. 170) e il celebre sociologo Alain Touraine (pp. 173-174).
La terza parte del libro è interamente dedicata alla concettualizzazione di una nuova categoria sociologica proposta dall’autore: la «marginalità urbana avanzata». Con questo termine Wacquant intende definire un nuovo regime sociale «ancora in fase iniziale […] che si discosta sia dal ghetto tradizionale d’America che dallo “spazio operaio europeo” del lungo XX secolo», e si caratterizza per «nuove forme di chiusura escludente che si traducono in una espulsione verso i margini e le fessure dello spazio sociale e fisico, [le quali] sono sorte – o si sono intensificate – nelle metropoli postfordiste, non a seguito di disallineamenti economici o arretratezza, ma, al contrario, come l’effetto delle irregolari, disarticolate mutazioni dei settori più avanzati delle economie occidentali, come ricaduta delle mutazioni sulle frazioni inferiori della classe operaia in ricomposizione e sulle categorie etniche subordinate, nonché sui territori da loro occupati nella città duale» (p. 258). Questi fenomeni si stanno sempre più espandendo e inghiottiscono grosse fette di popolazione a causa dell’ipostatizzazione di una condizione generale di precarietà di vita personale e collettiva – definita nel dibattito sociologico americano come condizione di working poor – capace di sottomettere tutti gli ambiti esistenziali del soggetto (dall’abitare, alla condizione lavorativa ecc ecc). Pertanto, «col qualificativo “avanzato” si intende qui indicare che queste forme di marginalità non sono dietro di noi; non sono residui, ciclici o di transizione; e non vengono gradualmente riassorbite dall’espansione del “libero mercato”, vale a dire da una ulteriore mercificazione della vita sociale, a partire da beni e servizi pubblici essenziali, o dall’azione dello stato sociale (protettiva o disciplinare). Piuttosto, esse si ergono dinanzi a noi: sono incise sull’orizzonte del divenire della società contemporanea» (Ibidem).
Illuminanti sono anche le riflessioni dell’autore nel mettere in relazione il nuovo regime urbano di «marginalità avanzata» con la condizione del precariato lavorativo: i due elementi si alimentano reciprocamente. La stigmatizzazione territoriale «contribuisce attivamente alla dissoluzione di classe» immobilizzando la condizione di precarietà in una fascia di «collettività abortita» privandola «dei mezzi per produrre la sua propria rappresentazione» sociale, politica e simbolica (p. 326). E ancora: «lo stigma spaziale sottrae ai residenti in queste zone la capacità di rivendicare un luogo e di modellarsi una propria lingua: appioppa loro una identità nociva, imposta dall’esterno» (Ibidem). Di nuovo, Wacquant richiama in causa il ruolo delle istituzioni incapaci di far fronte alle questioni sociali, e – molto spesso – ancelle dell’ideologia neoliberale (ad esempio per questo incapaci di capire il ruolo rivoluzionario del reddito minimo garantito slegato dalla condizione del lavoro salariato); per questo motivo lascia in eredità il compito di portare avanti una rinnovata sociologia capace di «legare insieme le forme mutanti della marginalità urbana con le modalità emergenti di rimodellamento degli stati» (p. 329) poiché «i distretti della miseria urbana […] si trasformano nei primi obiettivi e campi di prova su cui il Leviatano neoliberale viene fabbricato e messo in opera», una ricerca – conclude – «di stringente interesse non solo per gli studiosi della metropoli, ma anche per i teorici del potere dello stato e per i cittadini che si mobilitano per promuovere giustizia sociale nella città del Ventunesimo secolo» (p. 330).
Infine: quali considerazioni trarre per il nostro presente dall’humus sociologico dell’Italia di oggi? Come utilizzare i reagenti proposti da Wacquant per offrire un quadro delle metropoli nel nostro stivale? Una riflessione come questa supera chiaramente lo spazio a disposizione, tuttavia mi preme un’altra osservazione che deduco dalla lettura, spingendo la ricerca di Wacquant un po’ oltre sé stessa.
Credo che si possano trarre delle tracce di ricerca rispetto al tema di come lo Stato reagisce rispetto al fenomeno della «marginalità urbana avanzata». Anche nel nostro Paese – in altre forme più specifiche e proprie del nostro retroterra di governo – stiamo assistendo al passaggio tra «un workfare restrittivo e un prisonfare espansivo» (p. 329), basti pensare al ruolo “d’eccezione” assunto dai sindaci con la possibilità dell’utilizzo del dispositivo dell’ordinanza fin dal Decreto Sicurezza dell’allora Ministro Roberto Maroni (Febbraio 2009) o al più recente Decreto Minniti-Orlando (Febbraio 2017), il quale punisce e stigmatizza con strumenti repressivi tutte le forme di povertà e di devianza assunte dai gruppi sociali più deboli. Dentro questo tracciato, lo stato neoliberista esonera se stesso dalle responsabilità di non aver saputo contenere la galoppante ineguaglianza socio-economica, poiché è la punizione dei poveri e meno abbienti che diventa autentica “politica sociale”. L’imperativo inscritto per legge è far scomparire dagli occhi del cittadino-consumatore quelle marginalità che si potrebbero incontrare nello spazio pubblico, nelle strade e nelle piazze. I ministri di centrosinistra Orlando e Minniti sostengono che la sicurezza è a tutti gli effetti un “bene pubblico”, per questo la sua continua garanzia, per risolversi, ha necessità di alimentare un paradosso, ovvero l’espulsione dalla società[9] di coloro che il sistema stesso non è più in grado di includere. Il Governo si preoccupa quindi di “muovere guerra” nei confronti dei poveri, degli ultimi e degli emarginati, anziché immaginare nuove forme di inclusione sociale capaci di offrire vie d’emancipazione.
La «marginalità urbana avanzata» quindi è una categoria sociologica che dobbiamo assumere per il XXI secolo e ci lascia un mare aperto da esplorare anche nello scenario italiano «strappando il velo ideologico delle tematiche spaziali, etniche e securitarie», affinché sia possibile portare alla luce «il nesso causale tra il destino dei reietti urbani e la questione sociale del nuovo secolo, vale a dire, la desocializzazione del lavoro salariato e i suoi riverberi nella parte bassa della struttura delle classi e dei luoghi» (p. 314).
Note
[1] P. Bourdieu, Effetti di luogo, in P. Bourdieu et altri, La miseria del mondo, Edizione italiana a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, Mimesis, Milano, 2015, p. 187.
[2] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980, p. 46.
[3] Ivi, p. 52.
[4] L. Wacquant, I reietti della città: Ghetto, periferia, stato, edizione italiana e traduzione a cura di Sonia Paone e Agostino Petrillo, Pisa, ETS, 2016, pp. 372 (ed. or. Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Cambridge, Polity Press, 2008). D’ora innanzi le pagine citate da questo volume saranno indicate nel corpo del testo fra parentesi.
[5] S. Cohen, Folk Devils and Moral Panics, Routledge, London, 2011.
[6] Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, Codice Edizioni, Torino, 2016.
[7] Lefebvre di fronte a questa «rivoluzione passiva» del concetto di diritto alla città nell’introduzione del 1981 al terzo volume della Critica della vita quotidiana (Critique de la vie quotidienne, Vol. III, L’arche, Paris, 2014, pp. 7-46) denuncia il tentativo di strumentalizzazione governamentale da parte dei poteri dello Stato, alla luce dei primi tentativi di distruzione del welfare all’alba della crisi del patto fordista.
[8] L. Costes, Lire Henri Lefebvre, Ellipses, Paris, 2009, p. 117.
[9] Per uno studio sistematico sui processi di espulsione prodotti dal neoliberismo si veda: S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Bologna, 2015.