ANDREA CENGIA [ITA_21-10-2017]
Di neoliberismo e di controrivoluzione liberale, di Thatcher e di Reagan, si è tornati a parlare recentemente. Due lavori su tutti vanno citati: quelli di Dardot-Laval,[1] e di De Carolis.[2] Questi testi permettono di descrivere, tra l’altro, la forza e l’impatto, governamentale di quel modello risultato vincente in particolare nel post 1989. Supportato dalla rivoluzione informatica e, in generale tecnologica, ci ha consegnato un mondo svuotato, dominato dalle passioni tristi,[3] in cui effettivamente sembra aver trionfato, per il momento, il modello di una società atomica, obbediente, formattata secondo le richieste di un mondo produttivo, che vuole cittadini (ancora?) acritici, perfetti portatori d’acqua al mulino dei meccanismi di produzione di plusvalore, secondo le forme di razionalità strumentale che ben descriveva la prima generazione della Scuola di Francoforte.
L’impatto politico generale di questo processo ha assunto, nell’arco di tempo che ci porta dal 1989 ad oggi, svariate forme: privatizzazioni, trasformazioni e strappi più o meno riusciti ad esempio in Italia, alla Carta costituzionale e al patto sociale che l’avrebbe dovuta sostenere. Le politiche economiche e le politiche hanno assunto prevalentemente una indicazione di ossequio alle richieste pressanti del cosiddetto “mercato”, trasformando alla radice gli stili di vita e di convivenza di larghe porzioni della popolazione occidentale.
In Italia, questa stagione post 1989, che potremmo convenzionalmente, definire post “svolta della bolognina”,[4] ha coperto, con varie e apparenti sfumature della cromatica politica, azioni di normalizzazione, parzialmente giustificate da esigenze di bilancio. In questa monocorde litania pro-mercato (temperato e stemperato che sia), uno dei richiami più tristemente noti è stata l’esigenza di adeguare il modello di istruzione italiano alle richieste del mercato. Questo processo può essere considerato pienamente in corso. Infatti non solo la richiesta è ribadita anche oggi dalla normativa, ma non si può non rilevare anche un generale e acritico atteggiamento di ossequio, misto a timore, verso il totem del mercato. Nel mondo della scuola tutto ciò viene solo leggermente mascherato terminologicamente con la formula che racconta di una fondamentale “alleanza” tra scuola e lavoro,[5] Insomma, nei suoi punti essenziali, questa alleanza ripropone con minime sfumature il successo propagandistico rappresentato, magistralmente, dal tristemente noto imperativo delle “tre i”.[6] La scuola, quindi, generalmente intesa (dalla primaria fino alla più alta formazione universitaria) è stata ed è il luogo di preparazione e di esercizio per l’uomo neoliberale, sia esso discente, sia esso docente.
Questa ricostruzione, molto semplificata, credo sia una utile introduzione in grado di far comprendere perché l’universo scuola non solo rimane al centro di un processo di trasformazione in pieno svolgimento, ma proprio per questo, è bisognoso di uno sguardo teorico e politico che sia, soprattutto, non embedded. Nella generale atrofizzazione degli spazi di osservazione critica, la scuola, mi verrebbe da dire, se vuole essere costitutivamente democratica, deve mantenere un perimetro di riflessione che lasci aperta la possibilità di invertire la tendenza appena descritta e, considerata la profondità delle ferite inferte, di ricominciare un processo di disintossicazione.
Un esempio, raro purtroppo, di questa operazione schierata a fianco del sofferente mondo dell’istruzione è quello che si può osservare leggendo Didattica minima di Mino Conte (ed. libreriauniversitaria.it), docente di Filosofia dell’educazione all’Università di Padova. Già il titolo meriterebbe un commento a sé: Didattica minima è, con tutta evidenza un richiamo alla Didactica Magna di Comenio e inoltre, a me pare, che l’aggettivo minima possa facilmente rimandare al noto testo di Adorno Minima moralia. Infatti non può lasciare indifferenti il fatto che il testo di Adorno riporti, come sottotitolo, Meditazioni della vita offesa. Si potrebbe perciò affermare che questo lavoro, pensato per gli studenti che si apprestano, a vario titolo, ad entrare da professionisti nel mondo della scuola, ma che dovrebbe essere letto da tutti (insegnanti, genitori, cittadini), potrebbe essere compreso nella formula Meditazioni della istruzione offesa o, per usare il sottotitolo pensato dall’Autore, Anacronismi della scuola rinnovata.
La domanda che Mino Conte colloca significativamente nel preambolo è un quesito non scontato, sul quale oggi, gli studenti, ma in realtà tutti gli operatori della scuola e dell’educazione, dovrebbero riflettere. Che cosa significa insegnare? La radicalità del quesito deriva dal suo rapporto con il tempo, ossia cosa significa, in particolare, insegnare oggi. Infatti, nelle trasformazioni tecnologico-produttive in corso, chiedersi cosa significhi insegnare vuol dire confrontarsi con il proprio tempo. La domanda sollecita quindi una presa di distanza dalle automatiche risposte che nel contesto generale vengono fornite. Infatti, non è che oggi non esista, anzi, non sia dominante una sorta di sentire comune sul significato di insegnamento. Per chi non ha voglia di pensare troppo, la risposta alla domanda posta dall’Autore c’è ed è pronta alla soddisfazione del cliente. Quindi per cosa si insegna? E la risposta oggi tra chi frequenta la scuola (studenti e genitori) o, purtroppo, anche tra chi la “abita” come luogo di lavoro, luogo dove dispiega la propria professionalità, è divenuta un sentire molto condiviso. Si pensa fondamentalmente che studiare (ossia l’altra faccia speculare dell’insegnare) significhi acquisire delle competenze (al meglio dei saperi) utili per trovare una propria collocazione nel sistema economico in vigore. In sintesi: la scuola oggi è per il mercato e studiare è acquisire ciò che il mercato chiede. Conseguentemente, insegnare significa fornire una offerta compatibile con la domanda sociale dominante.
Fatte queste premesse, occorre precisare che Didattica minima, oltre ad essere un testo che tutti gli operatori della scuola (da viale Trastevere 76/A, sede del Ministero fino alle scuole di paese) dovrebbero leggere, è anche un testo pensato per chi ha scelto, o si appresta a scegliere di entrare nella scuola come docente. Da questo punto di vista, quindi, il testo di Conte è un libro che, rispetto al liberismo[7] imperante, vorrebbe mantenere viva la possibilità di ricominciare. Ed è già nella prima facciata introduttiva che Conte illustra questo esercizio del sapere critico. Il sapere critico è ciò che deve accompagnare il percorso professionale in tutte le sue fasi. Ben sapendo di tradire lo spirito della logora espressione del lifelong learning, mi pare che l’Autore pensi che proprio il sapere critico sia l’unico in grado di sviluppare un apprendimento che dura l’arco della vita: esercitare il pensiero critico instancabilmente e dalla sua contaminazione, apprendere. Questo è ciò che restituisce statura alla funzione docente (neoassunto o ingrigito come afferma l’Autore), non certo alcuni corsi di formazione eterodiretti che sbandierano la indifferibile utilità dell’ultimo ritrovato nelle tecnologie didattiche.
Per le ragioni appena evidenziate, il testo di Conte inizia disponendo ed esponendo quelle che sono le coordinate teoriche che possono permettere di orientare lo sguardo del lettore rispetto al contesto generale dello spazio e del tempo in cui la scuola si trova ad agire. La scuola è per l’Autore quella “istituzione che ci precede tutti, che è ed era già prima di noi e nonostante noi”.[8]
Traspare da queste parole, a mio avviso, un rispetto profondo dell’Autore per le potenzialità trasformative ed emancipative che l’istituzione scuola potrebbe esprimere. Nello stesso tempo molto di quanto è contenuto nel testo è l’amara constatazione che alla scuola sia stato sottratto questo spazio di possibilità. Ed allora occorrerebbe chiedersi da chi sia venuta questa azione. Conte propone allora, ed è anche una sorta di programma metodologico, di allargare il campo perché “non è pensabile, riteniamo, occuparci di scuola, di insegnanti, come se attorno a noi stessi niente o nulla fosse”. [9] Si tratta di un punto essenziale nell’intero discorso del testo. L’operazione che propone Conte si ricollega così ad altre azioni di smascheramento che di tanto in tanto sono riuscite ad emergere dalla routine del quotidiano della storia occidentale. A me pare che, buona parte del discorso che l’Autore presenta si giochi teoreticamente e metodologicamente qui. Infatti, non è difficile pensare che una banale obiezione del sentire comune, o di qualche tecnico solerte, potrebbe essere mossa alla citata affermazione di Conte. Si potrebbe cioè affermare che l’Autore non ha visto la mole di dispositivi normativi, europei e nazionali che hanno interessato la scuola e che non l’hanno lasciata immobile rispetto alle esigenze del mercato. In quest’ottica, non è vero che di scuola e di insegnanti ci si occupa come nulla fosse, in quanto vi è stata una forte accelerazione normativa e culturale che, ancora in corso, spinge per la definitiva sincronizzazione (moto contrario al disallineamento)[10] del mondo della scuola alle esigenze del mondo del lavoro, ossia del mercato. Qualcuno quindi vanterebbe come un successo quello che invece l’Autore spiega essere uno degli elementi della crisi che attraversa il mondo dell’educazione.
Ma è esattamente a questa altezza che Didattica minima vuole intervenire, ricontestualizzando criticamente, cioè riproponendo le domande radicali sulla scuola e mostrando quindi come essa sia stata oggetto di un preciso progetto di normalizzazione nella camicia di forza del mercato. Conte, proponendo di ancorare l’analisi di questo contesto generale ai fondamenti della Teoria critica primo francofortese, individua una precisa fonte di questo progetto normalizzante. Si tratta di “una razionalità che la scuola riproduce nelle sue pratiche e nei suoi discorsi (potrebbe non essere così?), intrisi di economicismo e di strumentalismo, spesso saldamente ancorata agli articoli di fede del più vieto pragmatismo”. [11] Insomma un atteggiamento di pensiero che Conte, con Horkheimer, stigmatizza nella espressione “ancilla administrationis”. [12] L’inquadramento generale richiede qui, sulla scia della recente letteratura che ha cercato di definire il contorno del fenomeno, di stabilire che una ulteriore accelerazione si è avuta con l’avvento del cosiddetto neoliberismo che ha esteso i principi della concorrenza, dell’utilità e quindi della ragione strumentale, “oltre il suo alveo naturale”.[13] Perciò, come sostiene l’Autore, si è ricondotto alla concorrenza, sussunto nella concorrenza, ciò che in precedenza era faticosamente riuscito a rimanere fuori da questo ambito, si è governata questa nuova condizione nei termini descritti dalla ricerca di Foucault. Ed è quindi alla tradizione della Scuola di Francoforte, ma anche ad alcune significative pagine gramsciane sulla indifferenza, che Conte ci richiama. In esse vi è una chiave per comprendere il modello antropologico atteso alla fine e durante il processo educativo. È questa capacità di prendere le distanze da quanto proposto, che l’Autore vuole suggerire al lettore, sempre interrogato direttamente lungo lo scorrere delle pagine.
A mano a mano che il testo si sviluppa, si possono reperire le coordinate teoriche, pedagogiche, politiche ed etiche, proposte da Conte: uso radicale della critica come elemento di smascheramento dell’ “ordine delle cose”, [14] imperativo etico della non-indifferenza, la decostruzione, quindi, di ogni irenica proposta del pragmatismo. Quest’ultimo è infatti quel modello di sapere che Ludovico Geymonat,[15] citato nel testo, aveva definito come “volgare”. [16] Vi è infine il positivismo che, attraverso l’esaltazione del ruolo dei fatti, semplifica oltremisura la complessità del reale. Per Conte il riferimento continuo ai fatti contiene conseguenze etiche devastanti. Per renderlo evidente l’Autore ha bisogno di compiere un gesto teorico che ricorda quello compiuto da Marx nel Libro I del Capitale: abbandonare la dimensione chiassosa e pacificata delle apparenze, dello scambio delle merci, per scendere nei laboratori della produzione, dove quanto sembrava in superficie come ovvio, scontato, ora appare nella sua drammatica complessità e asprezza. Per questo, Conte sceglie di affrontare il “retrobottega” [17], il laboratorio segreto della produzione didattica, dove regnano positivismo e operazionismo. Da questa azione egli può ricavare una considerazione tanto essenziale quanto radicale. Richiamando il pensiero di Barthes, per Conte il ricorso alla “pura fattualità, che esonera il soggetto dal giudizio e dalla ricerca della verità è, […] un mito perché come ogni mito è una forma vuota e parassitaria che designa e notifica, fa capire e impone, una parola congelata, un furto di linguaggio, che istituisce col senso un rapporto di deformazione”. [18]
La conclusione dell’Autore è cristallina e polemica con alcuni esiti del pensiero deweyano: “L’invito a stare ai fatti è un invito, ancora una volta, alla limitazione del pensiero”. [19] Didatticamente questo si esprime nell’insegnante che rinuncia alla sua funzione e diviene “l’uomo del come”. [20] Questo pragmatismo, è bene ricordarlo, anche se “semplificato, […] ancora vivissimo e vegeto, è divenuto una sorta di pedagogia perennis per le istituzioni scolastiche contemporanee”.[21]
Giunti a questo punto, l’Autore ripropone, attraverso una formula di chiara ispirazione hegeliana, una dimensione fondamentale per dare senso all’attività didattico-educativa: il tema della fatica. Infatti, se si lascia da parte la visione “cieca” [22] della fatticità priva di contraddizioni, ecco che può riemergere quello che Hegel aveva così magistralmente sintetizzato nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito: “Nello studio della scienza tutto sta quindi nel prendere su di sé la fatica del concetto”.[23] Il sapere a cui rimanda Hegel, visti i tempi è bene ribadirlo, non è la scienza dei professoroni, è un sapere teorico che, in quanto tale, esprime la realtà. Se si ritiene ancora fondamentale che tra le capacità dei giovani cittadini vi sia anche quella di pensare è evidente come occorra prendere in seria considerazione questa decostruzione in quanto “la capacità di pensare […] è tale nel mantenimento della differenza e del distanziamento tra il pensiero e la realtà”. [24] Solo con questa consapevolezza può essere invertita la condizione in cui “nel regno dell’utilità assoluta l’insegnante diviene una figura inutile”. [25]
L’esito drammatico di questo processo è quello che viene definito nel testo come ragione didattica neoliberista. [26] Essa si costituisce come forma ideologica del modello sociale ed economico dominante e si esprime attraverso modalità didattiche, tra cui quelle che Conte analizza parlando di lingue, impossibilitate alla messa in discussione dei presupposti teorici della loro esistenza. Perciò quella che viene esibita è una gattopardesca smania del cambiamento dell’apparenza e non dei fondamenti. In questa, riformistica,[27] spettacolare trasformazione dell’immobile l’insegnante/facilitatore ha come tacito traguardo di “lasciarti come sei credendo di aver appreso qualcosa”, [28] mentre la spinta del modello dominante è quella degli “alfieri del ‘change!’” ossia di un “subdolo conservatorismo camuffato”.[29]
Contro tutto questo, Conte oppone delle figure interpretative eccedenti, pezzi mal riusciti dalla fabbrica dell’individuo neoliberale e per questo privilegiate: straniero, antipode e anacronistico. Si tratta in tutti i casi di assumere la radicalità di uno sguardo altro che si faccia carico della dimensione etica e politica del rapporto con la complessità del reale di cui l’Autore trova esempi significativi nei tentativi di resistenza e opposizione allo stato di cose presente nei lavori di Mastrocola e Brighelli.
Descritta la crisi e descritte le sue cause occorrerebbe porre, a mio avviso, almeno un altro interrogativo provocatorio. Perché dovrebbe essere considerato problematico il perfetto adattamento della scuola alle esigenze del mercato? Qui si aprirebbe lo spazio per un dibattito amplissimo che non si intende affrontare. Personalmente mi vengono in mente due brevi obiezioni: la prima logica (più debole), la seconda politica.
Quella logica: cercare di adattarsi inseguendo l’oggetto “mercato”, che è una entità per sua natura in continuo movimento, è una operazione incompatibile con i tempi dell’insegnamento. Su questo non basta sostituire, come si è fatto, i contenuti con le competenze nei programmi di studio. Il rischio del ritardo perenne non viene scongiurato e questo potrebbe essere un argomento condivisibile anche da chi ha sposato la linea della sovrapposizione tra scuola e mercato. Inseguire il mercato è una operazione tendenzialmente destinata alla frustrazione continua. Infine l’obiezione di natura politica. Se la scuola è anche un luogo di socializzazione, di cittadinanza e di democrazia (per stessa ammissione delle istituzioni nazionali e sovranazionali competenti) allora la tendenza della scuola a costruire soggetti acritici e incapaci di sostenere la sfida delle società pluraliste che si stanno configurando, comporta un pericolo davvero allarmante per la democrazia, e anche, per usare un linguaggio compatibile con il sentire dei nostri tempi, con lo “stile di vita” dell’Occidente e dei suoi valori.
In particolare sulla insufficienza della sola dimensione etica, o – anzi – della politicità della scelta etica, insiste l’Autore nelle ultime pagine con le quali è difficile non concordare. [30] È infatti sottoscrivibile l’affermazione secondo cui la figura del docente è quella “dell’insegnante ‘etico’ perché ‘politico’”[31] il quale è in grado di compiere uno scarto fondamentale: essere consapevole che “la scuola non è necessariamente questa, le modalità di insegnamento, i mezzi gli strumenti, gli obiettivi proposti, non sono necessariamente questi”. [32] Si tratta di quello che potrebbe essere descritto come un atteggiamento in grado di mostrare nella sua artificialità quello che ormai è assunto come naturale.
C’è infine un altro snodo fondamentale che il libro mette in risalto. Si tratta di una vera e propria messa alla prova delle categorie concettuali affinate nelle pagine precedenti. È un esercizio che Conte compie in una duplice direzione creando un cortocircuito temporale o, come si potrebbe dire in chiave storica, mettendo in risalto gli andamenti di lungo periodo. Mi riferisco alle due parti del testo che analizzano da un lato il famoso documento nato dall’esperienza della Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa e dall’altro un documento recentissimo, il testo sulla cosiddetta “Buona scuola” ormai divenuto a tutti gli effetti il documento che norma l’attività della scuola italiana. Tra le due analisi vorrei concentrarmi sulla prima, anche se sinteticamente. In quel capitolo Conte compie una operazione non comune e di grande intensità, producendo una sua possibile risposta alla lettera. Senza retorica, occorre dire che quelle pagine meritano di essere lette con grande attenzione in quanto vi si consuma un esercizio teorico e politico in cui le sorprendenti criticità che l’Autore riesce a far emergere, non sono giocate contro lo spirito della lettera ma mettendo in rilievo come “il discorso del ribelle [sia] stato sussunto da quello del potere”. [33]
Infine quindi, si può tornare alla domanda iniziale: “Che cosa significa insegnare?”. Si tratta della domanda a cui varrebbe la pena rispondere pensando e non agendo. “Si tratta – nonostante la stravaganza della cosa, perché non si può rispondere a questa domanda facendo ma pensando (è pertanto una domanda oziosa secondo la Nuovissima Pedagogia e Didattica) – d’una fatica che riteniamo salutare, da praticarsi sia prima d’accingerci a questo mestiere di vivere, nel corso della formazione dunque, sia durante, una volta gettati in cattedra, sia dopo, a cose ormai fatte, col capo già un pò ingrigito” (p. 5-6).
Per riprendere le considerazioni espresse inizialmente, occorre ribadire che questo testo ha il merito pionieristico di dissotterrare strumenti di analisi considerati dai più inservibili, in un momento in cui la vittoria incontrastata della ragione strumentale sembra poter estendere il suo dominio in ogni anfratto dove si consumano le vicende umane. L’augurio che si può fare a questo testo e con esso, indirettamente ai suoi lettori, è che risulti quanto più destabilizzante possibile. Vorrà dire allora che il piano inclinato su cui corre la società del dominio del mercato avrà trovato, ancora una volta, un pò di attrito a guastarle i piani, riaprendo così spazi per il pensiero e per l’esercizio della libertà dentro e fuori la scuola.
[1] Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2013
[2] Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, 2017
[3] Miguel Benasayag, Gérard Schmit, Eleonora Missana, L’ epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004
[4] Si veda https://it.wikipedia.org/wiki/Svolta_della_Bolognina oppure questo materiale video: http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/lultimo-congresso/1038/default.aspx
[5]http://www.corriere.it/foto-gallery/scuola/medie/15_maggio_13/renzi-buona-scuola-ecco-mia-riforma-cinque-punti-5df95394-f990-11e4-997b-246d7229677f.shtml
[6] https://www.tecnicadellascuola.it/berlusconi-ripropone-le-tre-i-inglese-impresa-informatica
[7] M. De Carolis, op.cit.
[8] Mino Conte, Didattica Minima. Anacronismi della scuola rinnovata, Padova, Libreriauniversitaria, 2017, p. 15.
[9] Ivi
[10] Ibidem, p. 126.
[11] Ibidem, p. 16.
[12] Ivi
[13] Ibidem, p. 58.
[14] Ibidem, p. 35.
[15] Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza, Milano, Feltrinelli, 1975
[16] M. Conte, op.cit., p. 16n.
[17] Ibidem, p. 39.
[18] Ibidem, p. 41.
[19] Ibidem, p. 40.
[20] Ibidem, p. 72.
[21] Ibidem, p. 117.
[22] Ibidem, p. 42.
[23] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. i, Firenze, La nuova Italia, 1973, p. 48.
[24] M. Conte, op.cit., p. 47.
[25] Ibidem, p. 33.
[26] Ibidem, p. 61.
[27] Ibidem, p. 62.
[28] Ibidem, p. 11.
[29] Ibidem, p. 62.
[30] Ibidem, p. 147.
[31] M. Conte, op.cit., p. 133.
[32] Ibidem, p. 130.
[33] Ibidem, p. 94.