Una vita che basta a se stessa: la rivincita dei “valori del sud”

“Governare consiste oggi precisamente nell’erodere questo “tra”, questa trama densa di lacci, affetti, mutuo sostegno…”

AMADOR FERNANDEZ-SAVATER

[ITA_10.07.17]

La politica è una disputa tra differenti forme di vita, sensibilità, idee di felicità. Prendere il potere non serve a nulla se non si propongono mondi alternativi.

Negli anni ’70, il cineasta italiano Pier Paolo Pasolini propose di pensare il conflitto politico come una disputa fondamentalmente antropologica: tra differenti modi di essere, sensibilità, idee di felicità.. Una forza politica non è nulla (non ha nessuna forza) se non si radica in un “mondo” che possa rivaleggiare con quello dominante in termini di forme di vita desiderabili.

Mentre gli “uomini politici” del suo tempo (dirigenti di partito, militanti d’avanguardia, teorici critici) puntavano al potere statale come al luogo privilegiato per la trasformazione sociale (si prende il potere e si cambia dall’alto la società), Pasolini avvertiva – con sensibilità poetica, e quindi sismografica – che il capitalismo stava avanzando attraverso un processo di “omologazione culturale” che produceva la rovina dei “mondi altri” (contadini, proletari, subproletari) con il contagio “orizzontale” dei valori e dei modelli del consumo: attraverso la moda, la pubblicità, l’informazione, la televisione, la cultura di massa, etc. Il nuovo potere non emana, e tantomeno si irradia o discende da un luogo centrale, ma si propaga semmai “indirettamente, nell’esperienza, l’esistenziale, il concreto”, diceva Pasolini.

Nel vestire, e nei modi di camminare, nella serietà e nei sorrisi, nel modo di gesticolare e nei comportamenti, il poeta decifrava i segni di una “mutazione antropologica” in cammino: la rivoluzione del consumo. Frenarla a partire dal potere politico sarebbe stato come tentare di contenere una inondazione con un tubicino. Non è possibile imporre altri contenuti e finalità a uno stesso contesto di accumulazione e di crescita. Ancor di più al contrario: il modo di produzione-consumo sarà ciò che determina i margini del potere politico. Una civiltà si ferma solo con un’altra. Sono necessari altri abiti e altre posture, altra serietà e altri sorrisi, un altro modo di gesticolare e altri comportamenti.

La disputa politica (che non è un semplice gioco di troni) esprime un “disaccordo etico” tra differenti idee della vita, o meglio, della buona vita. Non idee che galleggiano o si enunciano retoricamente, ma idee pratiche incarnate, materializzate, inscritte nei gesti e nei dispositivi più quotidiani (Facebook, Uber o Airbnb sono figure del desiderio, e da qui la loro forza). Cosa potrebbe dirci uno sguardo antropologico sulla politica? Quali mondi oggi entrano in collisione? In quali disaccordi etici sulla buona vita potrebbero affiorare azioni politiche trasformatrici?

Il vecchio spirito del capitalismo

Facciamo un passo indietro. Dove nacque l’idea di organizzare la vita intera intorno al lavoro, l’efficacia e la produttività? Secondo Max Weber, la cultura borghese trovò la sua origine, il suo motore e il suo combustibile nell’etica protestante (soprattutto del protestantesimo ascetico). Attraverso la riconcettualizzazione del lavoro come “professione” e della teoria della predestinazione (solo nel risultato terreno possiamo trovare segni della nostra salvezza), si genera una soggettività che pone al centro della vita il denaro e l’arricchimento, che aspira alla “razionalizzazione” dell’esistenza intera (la relazione com il tempo, il corpo, l’onore, l’educazione dei figli), che condanna la povertà come il peggiore dei mali (“scegliere la povertà è come scegliere la malattia”), etc.

Questa soggettività non è un “riflesso automatico” della oggettività economica, quanto un elemento decisivo della “cultura capitalistica” senza la quale semplicemente non vi è capitalismo. Solo un nuovo tipo di immaginario e soggettività (una nuova organizzazione del desiderio) poteva avere la forza sufficiente per rompere la “mentalità tradizionalitsta” (ancora imperante) senza cui non si vive per lavorare (il che sarebbe assurdo), ma piuttosto si lavora per vivere e se si dispone di ricchezza (per lavoro proprio, altrui o buona fortuna) ci si dedica alla contemplazione o alla guerra, al gioco o alla caccia, a dormire tranquilli o alla gioia sensuale della vita, né passa per la testa di invertirla per continuare ad accumulare.

La cultura borghese nasce pertanto dalla potenza di un immaginario religioso che in seguito abbandona, laicizzando i suoi valori: il senso della responsabilità individuale, il self made man la meritocrazia, il credito, il progresso, la sensibilità puritana e severa, etc. La modernità è stata in modo predominante una “cultura del Nord”: anglosassone, maschile, bianca e protestante. Ma il dominio di questo immaginario (vivere per lavorare, invertire i benefici per ottenere più benefici, sottoporre tutti gli aspetti della vita a un controllo regolamentato e sistematico, etc.) non è mai stato completo.

La socialità del sud

Secondo il sociologo (della vita quotidiana) Michel Maffesoli, è sempre esistita, ha sempre insistito, e resistito, una “socialità del sud”. Una socialità diffusa, sommersa e occulta, difficile da vedere e però presente, capace di ribellarsi e attivarsi quando minacciata. Una dinamica informale (forme di vincolo, di appartenenza soggettiva, di fare pratico) determinante nella vita quotidiana, come substrato o “mantello freatico” dell’esistenza collettiva.

In cosa consiste questa socialità del sud? In primo luogo, è un impulso vitale, a-razionale. Una volontà di vivere, un voler vivere. Non però un vivere in qualunque modo, ma affermando un tipo di vincolo, un tipo di esistenza, una certa idea di felicità: uno stare-insieme antropologico. È anche un insieme di saperi e strategie per riprodurre questi vincoli, queste forme di vita.

Questo “sud” si riferisce originalmente e storicamente ai paesi meditarranei e latinoamericani, ma si converte in seguito nell’opera dell’autore in una nozione più in movimento che punta a “valori” e “climi affettivi” più che ad una localizzazione geografica. In questo senso, vi è un “sud nel nord”, così come vi è un “nord nel sud”. Colonia (piena di vita, allegra, chiacchierona, proletaria) sarebbe il “sud” della Germania, mentre la Francoforte della finanza il “Nord”:

Possiamo trarre adesso cinque “valori” (quello che vale) per questa socialità del sud:

  • in primo luogo, il presente: la vita non si proietta “in avanti” (un futuro di salvezza, di perfezione), ma si afferma “ora”. Questa certa spensieratezza verso il domani non esclude (paradossalmente) una ostinazione nel riprodursi e durare. La temporalità della socialità del sud è intensa e non estensa, tuttavia essa è impegnata nel “persevererare nel proprio essere”.

  • In secondo luogo, il vincolo: la vita si dà in continuità con altri, tessuta con altri, invischiata con altri. Non solo per necessità, ma anche per il piacere di condividere. Il legame più apprezzato è il legame vicino, prossimo, a portata di mano (il tattile come valore). Questo “qui” non ci separa da ciò che sta “lì” (il lontano), ma al contrario: a partire da ciò che viviamo “qui” ci può risuonare qualcosa di “là”.

  • In terzo luogo, il tragico: l’assunzione dell’anarchia di quello che c’è, di quello che è. Non si tratta di “risolvere” o di “superare” il dato (incerto, oscuro, molteplice) ma di sapersi “comporre” con esso. Altra relazione dunque con il male, il rischio o la morte, che non sono qualcosa da sradicare (secondo le logiche imperanti del controllo, della securizzazione della previsibilità totale), se non un lato della vita (possono esser anche forza, protezione, se noi sappiamo comporle).

  • In quarto luogo, il dionisiaco: non la vita chiusa in se stessa (lavoro, risultato, progresso), ma la vita “estatica” che cerca di uscire da se stessa attraverso il piacere del corpo, il gusto per la maschera e il travestimento (le apparenze), la fusione con l’altro nelle celebrazioni collettive (musicali, sportive, religiose), etc. Eccesso, spreco, vertigine, abbandono, distruzione: il “dionisiaco” sono prove con l’alterità.

  • In ultimo, il doppio gioco: non la passione per il retto, il frontale e l’esplicito, ma per la deviazione, l’astuzia, la furbizia, l’arrangiarsi, la duplicità, la dissimulazione, il giocare con la legge e la norma, le strategie informali di conservazione e sopravvivenza (mia e dei miei). Non la passione per la correzione e l’indirizzare, ma per il sorteggio, il mercanteggiare, il dribblare e la burla.

La crisi come occasione

Gli economisti neoliberali fanno la loro propria lettura “antropologica” del mondo e concludono che la crisi economica del 2008 há a che vedere com la “insufficiente mobilità geografica”, il “limitato spirito imprenditoriale”, il “cuscino familiare”, il “lavoro informale” o la “indifferenza (o addirittura la ripugnanza) per l’arricchimento” fin troppo presenti nei paesi del sud (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, nessuno di essi, certamente, un paese protestante). Nella controluce di queste analisi, vediamo in azione la socialità del sud.

Possiamo leggere la gestione neoliberale della crisi come il tentativo di sopprimere tutte queste “inadeguatezze culturali” e accelerare così “il divenire mondo del capitale” (Laval e Dardot)? La crisi del debito sarebbe in questo senso l’occasione perfetta per scatenare la “distruzione creativa” di tutto quello che, dentro e fuori di noi stessi, ci rende incapaci di pensarci e agire come semplici atomi sociali, particelle egocentriche svincolate, macchine del calcolo egoista. Costumi e legami, attaccamenti e solidarietà.

Eliminando le protezioni sociali, rendendo fragili i diritti associati al lavoro, favorendo l’indebitamento generale degli studenti e delle famiglie, precarizzando, riducendo i salari e la spesa sociale, si tratta di fomentare il “si salvi chi può” e di distruggere tutto ciò che permetta alla gente un qualsiasi margine di libertà rispetto al mercato. Tutto quello che c’è “tra” gli esseri fa di loro qualcosa in più di “particelle elementari” in competizione: lacci di mille classi, diritti conquistati, luoghi vivi, ricorsi pubblici e comuni, reti di solidarietà e appoggio, circuiti non mercantili di beni e servizi, etc. La base materiale di qualunque autonomia. Governare consiste oggi precisamente nell’erodere questo “tra”, questa trama densa di lacci, affetti, mutuo sostegno…

Ma proprio quando si vorrebbe “estirpare”, la socialità del sud si tende e si attiva. Nella Spagna della crisi hanno proliferato ad esempio i micro-gruppi informali di solidarietà e mutuo sostegno (familiari, vicinali, amicali) che hanno temperato gli effetti devastatori della gestione neoliberale della crisi: paura, solitudine e abbandono. Una proliferazione che contesta in se stessa il paradigma liberal-individualista: “ognuno ha la sua vita”.

Proprio quando ci viene detto che “avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e ci toccava espiare e pagare, i valori del sud si prendono la loro rinvincita, affermando e diffondendo altre idee di ricchezza e felicità: più fondate nel presente che nel futuro, più nei vincoli, che nella soluitudine, nel tempo libero e non nella vita per il lavoro, nell’empatia e non nella competenza, nello sfruttamento della grazia più che nella colpa per il debito.

Il nuovo spirito del capitalismo

Ancora più difficile. Secondo alcuni autori, staremmo attraversando oggi il passaggio verso il superamento (intensificazione, radicalizzazione) dell’antico “spirito” del capitalismo le cui origini ha studiato Weber.

Secondo Franco Berardi (Bifo), per esempio, la borghesia ancora “viveva nei legami” (con una comunità, dei luoghi, dei beni fisici, una classe lavoratrice che non poteva sopprimere, la relazione tra valore e tempo di lavoro). Il capitalismo finanziario è tuttavia molto più astratto: non si identifica com nessun luogo, con nessuna popolazione concreta, com nessuna classe del lavoro, con nessuna regola per quanto le sue decisioni abbiano conseguenze (devastanti) su luoghi, popolazioni, lavoratori, etc.

D’altro lato, secondo Christian Laval e Pierre Dardot, questa logica di accumulazione infinita del capitale è diventata oggi una “modalità soggettiva”. Cosa vuol dire questo? Che all’“uomo economico” (così definito per la prudenza, la ponderatezza, l’equilibrio negli scambi, la felicità senza eccessi, la bilancia degli sforzi e dei piaceri) si sostituisce l’“imprenditore di se stesso” (definito dalla competenza e dall’autosuperamento costante: vivere nel pericolo, andare più in là di se stesso, assumere un disequilibrio permanente, non riposare o fermarsi mai, riporre tutto il piacere nell’autosuperamento). Una espressione riassume secondo gli autori francesi il tipo soggettivo del capitalismo attuale: “sempre di più”. Il piacere dell’illimitatezza.

In questa trasformazione ci sarebbe da rivalutare sicuramente la resistenza che presenta la “socialità del sud”, quando ad esempio la cultura capitalistica oggi non esige più la repressione dell’affettivo/passionale, ma al contrario la sua completa strumentalizzazione al servizio della logica del beneficio: la strumentalizzazione dell’intimo. Senza dubbio però, l’affermazione di una “vista che basta a se stessa” continua ad essere assolutamente sovversiva (più che mai?). Una vita che non persegue l’estrarre e l’accumulare “sempre di più”, ma che si vive nel piacere di avere cura e condividere, il più da vicino possibile, ciò che ci è stato dato, qui e ora.

L’insurrezione della socialità del sud consisterebbe nell’affermare politicamente questa altra idea di felicità, questa potenza sotterranea, questo mare di fondo.

[traduzione italiana di G. Ferraro]

[pubbl. or. http://www.eldiario.es/interferencias/capitalismo-crisis-revolucion_cultural_6_660094029.html 30_06_2017]