Il dottor B.: una storia messinese prima che prevalga il male

GIANFRANCO FERRARO

[19.01.2017_ITA]

Il dottor B. mi è sempre venuto a trovare. Ogni volta che sono stato male, nella stanzetta in cui sono diventato adulto. Con la valigetta di pelle marrone. Da bambino, a casa, quando mia nonna, malata di tumore, confidava nelle preghiere all’Immacolata e nelle medicine. Del dottor B. Per guarire. Anche mio padre, se non avesse incontrato il dottor B. nella sua vita, non avrebbe scoperto, un bel giorno, di essere diabetico. Solo da uno sguardo. Il dottor B. era un “medico di una volta”, come si dice. Quello che ti guardava, e ti diceva: hai questo e quest’altro, oppure fatti questi controlli, perché non mi convinci. Il dottor B. era medico che ti guardava in faccia e ti diceva cosa non andava. E ti riceveva, nel suo suo studio pieno di medicine e di presepi, per chiederti come stava la famiglia. Perché il medico di famiglia è una cosa seria. Era una cosa seria. Chi nasce in questi tempi di smantellamento dello stato sociale non lo può capire. Lo stato sociale non è stata una cosa astratta. Era fatto di relazioni, di saperi: lo stato non era altrove. Era dentro la famiglia. Ti accompagnava. Come il medico, che sapeva chi nasceva e chi moriva: chi poteva nascere, e chi stava per morire. Ti accompagnava: dalla nascita alla morte. Come un prete. Il dottor B. era un medico cattolico. Di quei medici figli unici che si dedicano alla medicina perché sperano di salvare la vita ai genitori, come tutti i figli unici, che in fondo, finché possono, vorrebbero salvare la vita ai genitori. Lui si era dedicato a questo: geriatra, perché a occhio e croce i tuoi genitori saranno più vecchi e quindi devi salvare quello che è salvabile, un giorno. Il dottor B. Mi raccontano che la prima volta che mi vide, una palla tonda dentro la pancia di mia madre, il dottor B. le fece i complimenti, a mia madre, perché era “interessante”. Poi mi ritrovò in braccio a mio padre, ancora infante, che farneticavo cercando di articolare du parole in croce, come si dice in Toscana, come tutti i bambini che hanno più cose da dire di quante parole sappiano. Come sempre è stato dopo, purtroppo, mi verrebbe da dire, che ho sempre avuto meno parole di quante cose avessi da dire, agli altri, e al dottor B. Con cui ho sempre avuto meno parole di quante ne avrei dovute. Ritornai più e più volte, dal dottor B., da solo e com la famiglia, nel suo studio con i libri riversi sui divani, le medicine ammonticchiate sulla scrivania. E il cilindro di vetro con le palline arancioni. Di quei cilindri che i rappresentanti delle ditte farmaceutiche davano ai propri medici, per invogliarli a indicare questo o quel prodotto ai propri pazienti. A me facevano impazzire, sarei stato a guardarli per ore, nello studio del dottor B., i cilindri di vetro pieni d’acqua com le palline di mercurio arancioni che scendevano e si accumulavano in basso dentro un pieno denso e continuo, come i ricordi, ho pensato qualche volta, e che se li rigiravi tornavano ad accumularsi dall’altra parte. Come i ricordi. Ce n’erano. Come c’erano presepi di ogni tipo, e icone, delle zone impervie del Caucaso. Fatte a mano. Aveva viaggiato il dottor B., come pochi messinesi hanno viaggiato, facendosi accompagnare per pochi soldi da un tassista del luogo per tutta la giornata. Città per città. Era il medico di tutte le suore della mia città, il dottor B. Uno dei pochi ancora a stendere il tappeto ricamato al passaggio della Vara, il 15 agosto, nel suo balcone che si affacciava davanti alla Vergine Assunta, come facevano una volta le vecchie nonne messinesi, quando ancora si premiavano i più bei tappeti della città, stesi davanti alla Madonna nel giorno più importante di Messina. Quello in cui scendevano dai torrenti gli ergastolani latitanti da Giustra e da Santa Lucia, per tirare le corde, mentre la borghesia messinese stava a guardare, come sempre è stata a guardare, la buona borghesia messinese, la buona piccola borghesia messinese, mentre gli altri tiravano, e tirano. Incapace di qualunque sussulto, di qualunque fremito, di qualunque scatto, di qualunque pensiero che non fosse quello solito, dell’aprire bottega la mattina e di chiuderla la sera, o di fare andare su e giù per lo Stretto due barchette chiamate navi e di arricchirsi sui pedaggi e i pedoni, la buona piccola o grande borghesia messinese, questo ho sempre saputo, come sapeva il dottor B., guardando dal suo balcone ogni 15 agosto la fiumana di gente dietro la Madonna dell’Assunta, insieme alla borghesia e al popolo, riuniti per una volta, una volta sola, dentro il sole più cocente dell’estate siciliana. Che nulla sospettava dei meravigliosi presepi in vetro e pietra dura nascosti nelle teche di cristallo, fatti apposta per lui dagli artigiani più meticolosi dell’Estremadura, fatti per il dottor B., e lui solo, nulla sospettava, la piccola borghesia messinese, mentre veniva accudita in fasce o nelle piaghe terribili degli ultimi giorni dal dottor B., che solo lui conosceva le piaghe più terribili delle vecchie suore, e che si era riservato il suo amore, il dottor B., ormai solo, malato, quando diceva a mio padre che tutti gli erano lontani, e che si muore soli, questo diceva il dottor B. a mio padre dopo aver visto tutte le piaghe di Messina, che si muore soli, e gli nascondeva solo che anche mentre si muore si può amare, per un momento appena, e ci si può pensare non da soli, questo deve aver pensato il dottor B. a mio padre mentre lo salutava l’ultima volta, senza poterglielo dire, che comunque le piaghe di Messina, così come tutti i suoi guaiti, valevano un affetto, uno solo, indicibile, e che il buio di una vita può anche riscattarsi nella luce di un amore, questo deve aver pensato, il dottor B., salutando mio padre col collo fasciato, che forse ne valeva la pena, che forse Cristo lo avrebbe perdonato se era riuscito a farsi amare anche dal suo pastore, come non si sarebbe dovuto, ma come è, come sempre è, come sempre accade, perché tutto è aperto, come la vita e la morte, questo deve aver pensato il dottor B. di fronte a mio padre, e persino di fronte a me adolescente, quando lo andavo a trovare, perché tutto accade come all’improvviso, perché le piaghe buie della borghesia non possono vedere la luce di un amore, “omosessuale”, questo deve aver pensato il dottor B., salutando mio padre, scrivendo e riscrivendo il suo testamento davanti ai presepi, come si faceva una volta, prima di morire da solo.