Neil Brenner, Stato, spazio, urbanizzazione. Una recensione

CHIARA STENGHEL

[09.06.17_ITA]

 

Che senso ha oggi parlare di urbanizzazione? Quali sono gli strumenti concettuali che consentono di comprendere tale processo e la varietà di geografie che ne scaturiscono? Cosa comporta, sotto le spinte dell’urbanizzazione planetaria, la radicale ristrutturazione di ciò che comunemente chiamiamo città?

Queste, alcune delle domande alle quali l’acuta raccolta di saggi di Neil Brenner proposta da Teresa Pullano per la collana Il Futuro della città, tenta di dare risposta. Per i lettori poco avvezzi ai testi di Brenner – in Italia, a dispetto della diffusione internazionale delle sue teorie, ancora largamente inesplorato – l’introduzione della studiosa offre un’efficace ricostruzione del posizionamento teorico-politico dell’autore aprendo ai saggi successivi. Nel primo, in particolare, significativamente intitolato Che cos’è la teoria critica urbana? Brenner traccia le coordinate di riferimento della propria riflessione, evocando la tradizione marxista (con un focus particolare sulla critica dell’economia politica nella sua duplice funzione di analisi delle forme di potere e di svelamento delle lotte socio-politiche emergenti) e la scuola francofortese. Con quest’ultima condivide: il rifiuto per il positivismo dilagante tra le scienze sociali; l’ostinata resistenza alla riduzione dell’uomo a “una dimensione” auspicata dal capitalismo e la rivendicazione astratta di un lavoro che, concentrandosi sullo iato tra l’attuale e il possibile, prelude analiticamente all’urgenza di quel famoso «Che fare?». Nell’alveo dei marxisti richiamati non può mancare il nome di Henri Lefebvre, vero e proprio fil rouge di tutti i saggi proposti che, con le sue analisi pionieristiche degli anni Sessanta sull’esplosione degli spazi, ha preannunciato la radicale trasformazione delle geografie urbane consolidate alla luce dei crescenti processi di urbanizzazione planetaria. «Nel tumultuoso indomani del post-fordismo» (p.43) in cui continuità e cambiamento vanno definendosi secondo precise specificazioni geografiche e scalari, la ristrutturazione capitalistica in corso pone un’ampia gamma di questioni di stampo teorico-politico che i contribuiti proposti tentano di approcciare.

Per quanto riguarda i fenomeni di rescaling urbano, nucleo tematico del secondo saggio, Brenner da un lato concorda su tre linee tendenziali comuni alle ricerche in merito – la destabilizzazione del quadro scalare nazionale e la conseguente dispersione delle sue funzioni istituzionali; la proliferazione di strategie politico-sociali riorganizzative e la moltiplicazione di una varietà di flussi in cui vecchio e nuovo, interagendo, rendono porosa la distinzione scalare stessa -, e dall’altro segnala i limiti della scala come categoria analitica sulla base di una staticità anacronistica che impedirebbe di cogliere i giochi di interconnessione, interdipendenza e mobilità che coinvolgono i diversi livelli. L’insistenza su un piano locale piuttosto che regionale, demarcherebbe infatti delle «presunte isole», (p.60) rischiando di occultare la profonda compenetrazione di questi piani. L’autore, dunque, propende per un’analisi plurale delle scale che tenga conto delle «geografie polimorfiche» (p.67) in cui sono inserite (territorializzazione, place-making e formazioni di reti) e delle mediazioni sociali altamente conflittuali che le attraversano. Tuttavia, se «le scale in quanto tali non esistono» (p.70), le nozioni di scaling e rescaling, puntando l’attenzione sui processi di differenziazione (e ridifferenziazione) istituzionale e sociale del capitalismo contemporaneo, riuscirebbero a ovviarne la fissità. Non a caso, il secondo saggio, affronta la questione della glocalizzazione come strategia statale atta alla riorganizzazione dei propri assetti su scale spaziali multiple e diversificate. Nell’interazione dialettica tra comparti politici consolidati e nuove progettualità emerge una spazialità fortemente conflittuale in cui disegni differenti concorrono a ricollocare realtà subnazionali (città, regioni, distretti industriali) all’interno di circuiti economici globali. Tali proposte, a parere dell’autore, lungi dal seguire le “linee guida” delle agende che le introducono, diventano il luogo privilegiato di una sperimentazione continua in cui i tentativi nazionali di risposta alla crisi della spazialità fordista-keynesiana intersecano un imprevedibile gioco di forze a più livelli. La capacità dello Stato di mettere in campo nuove «geografie di accumulazione del capitale» (p. 94) per Brenner non è mai data. Proprio perché l’urbano diventa il terreno di contesa di diversi protagonismi, queste strategie sono destinate a un’instabilità strutturale che, per ora, sembra rispondere agli imperativi miopi della gestione della crisi vanificando qualsiasi discorso democratico e redistributivo. Pur aprendo nuovi canali di agency sovranazionale, le politiche messe in campo sembrano andare nella direzione di un rafforzamento progressivo del neoliberismo. Poste queste premesse, la seconda parte del volume entra nel vivo delle questioni presentando due saggi in cui Brenner spiega il senso del proprio lavoro di ricerca. In particolare, in Tesi sull’urbanizzazione, egli segnala come, a fronte della scoperta dell’urbano come terreno cruciale di contestazione economico-politica, culturale e socio-ambientale, si sia assistito a una confusione generalizzata circa la sua portata analitica che rischia di farne un significante vuoto privo di riferimenti. Se ciò è in parte dovuto alla difficoltà di orientamento legata al progressivo sgretolarsi delle coppie binarie città/campagna, urbano/rurale, Brenner ribadisce l’importanza di una riconduzione critica dell’analisi annoverando, tra le cause dell’indeterminatezza teoretica che l’avvolge, il diffondersi del metodo contestualista. Quest’ultimo, infatti, concentrandosi sulla dimensione microsociale, contribuirebbe alla riduzione dell’urbano a «una categoria della pratica» (p. 119) incapace di vedere quella “distruzione creativa” teorizzata da Lefebvre per cui alla planetarizzazione della morsa inegualitaria capitalistica corrisponde il moltiplicarsi delle lotte e delle progettualità che le si oppongono. Per uscire dall’impasse intellettuale della sociologia urbana, Brenner propone dunque un ripensamento categoriale dell’urbano che sia in grado di mappare le resistenze emergenti e, contemporaneamente, di riflettere criticamente sui propri presupposti analitici. Per dirla con Lefebvre, suggerisce una sorta di metafilosofia dell’urbanizzazione capace di fornire una direzione al groviglio teorico ed empirico in cui versiamo. Da questa prospettiva, i saggi conclusivi delineano le coordinate fondamentali di un lavoro che, pur partendo dal concetto di urbano, ne muta profondamente i connotati. Se tradizionalmente si è proceduto alla sua definizione a partire da “un altrove”, da un esterno strutturale che lo rinchiude entro confini certi e relativamente autonomi (la non-città), Brenner propende per un’analisi variegata, territorialmente differenziata e multi-scalare capace di andare oltre la centralità epistemologica dell’agglomerazione che a lungo ha monopolizzato la teoria urbana. Tale approccio, spostando lo sguardo al di là della divisione urbano/non urbano e rifiutando un concetto astorico e circoscritto di “città”, ha il merito di illuminare i paesaggi funzionali alla sopravvivenza del capitalismo globale: zone di estrazione delle risorse, agro-industriali, di logistica/comunicazione o di smaltimento dei rifiuti, non vengono più relegate a una dimensione periferica, marginale o naturale, ma pienamente integrate nell’analisi. In fondo, come ha messo in luce Marx nelle sue pagine sull’accumulazione primitiva nel primo libro del Capitale, lo sfruttamento e la continua trasformazione di questi paesaggi ha svolto un ruolo cruciale in termini di proletarizzazione e ghettizzazione delle “nuove” popolazioni urbane. Alla luce dell’apporto fondamentale di questi contesti operazionali alla crescita su larga scala promossa dal capitalismo globale che, spesso e volentieri, si traduce in un continuo deterioramento socio-ecologico, la loro esclusione analitica non è più giustificabile. Pena, il saccheggio estrattivo del pianeta.