“Creatività utopistica”: oltre un secolo di teorie e pratiche per un governo dei produttori

FRANCESCA GABRIELLINI

[09.06.17_ITA]

L’utopia da salvare è una rivoluzione di giorni inventati1

Pourquoi s’intéresser aujourd’hui aux discours des utopistes? Peut-être parce que, ce dont nous manquons le plus, c’est précisément d’utopie, sans même avoir conscience de ce manque. Plus fondamentalement, l’utopie ne correspond-elle pas au sentiment diffus que quelque chose ne va pas dans la société, à quoi il faudrait de toute urgence remédier, ce qui fait d’elle l’expression d’un manque?2

Sin da quest’esergo, è importante precisare che, viste le numerose accezioni assunte dai vocaboli utopia e utopico3 al variare della contingenza storica, l’attenzione si concentrerà sul loro divenire «corpose correnti di pensiero sociale»4, non vagheggiamenti, ma idee operative, che si esprimono nella forma dell’utopia come momento del progetto complessivo di ridefinizione della società: recuperando un passo tratto dalla pentalogia del filosofo francese Miguel Abensour, interamente dedicata al tema dell’utopia, «invece di congedare o dissolvere l’utopia, si tratta piuttosto di liberarne le virtualità emancipatrici, di assicurarne la salvezza».5

Dall’Ottocento ci arrivano voci e vagiti di un’utopia autogestionale, strutture embrionali di organizzazione mutualista e corporativa. Nello svilupparsi di processi di autorganizzazione anti-padronale qualitativamente sempre più raffinati e conflittuali, fino all’assestamento di un vero e proprio movimento operaio, assistiamo al delinearsi di progetti di gestione economica e societaria che vedono nei produttori diretti, nei lavoratori organizzati, i detentori del controllo della produzione. A fronte dell’incapacità iniziale di esprimere diffusamente e in forme organizzate la consapevolezza di vivere una stessa condizione lavorativa (di classe?), lasciamo che la dissertazione muova dal riconoscimento dei più prolifici laboratori del passaggio dall’insubordinazione estemporanea alla resistenza collettiva, fino alla progettualità di più largo respiro che poggia sul concetto di autorganizzazione produttiva. Nella prefazione all’edizione del 1870 de La guerra dei contadini in Germania, Friedrich Engels rammenta che «il socialismo tedesco non dimenticherà mai che esso poggia sulle spalle di Saint-Simon, Fourier e Owen, tre uomini che, con tutta la loro fantasticheria e tutto il loro utopismo, sono le teste più fini di tutti i tempi e hanno anticipate infinite cose che noi oggi dimostriamo scientificamente, così il movimento operaio pratico tedesco non può mai dimenticare che esso si è sviluppato sulle spalle del movimento inglese e francese […]».6

A partire da questa illustre considerazione, non vi è dubbio che saranno la Francia delle «nebulose protoindustriali» (e degli ateliers di produzione) e la Gran Bretagna «officina del mondo» (e della prima cooperazione legata al consumo) i luoghi per noi più interessanti dell’elaborazione teorica e pratica di comunità produttive associate sempre più complesse dai quali partire.

Le ragioni della nascita di un movimento di autorganizzazione cooperativa, di produzione e consumo, sono di ordine economico e sociale, riconducibili agli effetti dell’inurbamento di ingenti masse lavoratrici e del loro inserimento in un processo produttivo che ha scompaginato il rapporto tra capitale e lavoro e ha messo in luce le contraddizioni della nuova divisione del lavoro e della meccanizzazione. Si trattava infatti di un modo di produzione che ridefinisce non solo le possibilità di lavoro e di accesso ai beni, ma anche la natura e la diffusione della povertà «nella sua forma più terribile»7, intrinseca alla nuova classe sociale emergente, quella proletaria. Nel caso francese, l’urgenza di una risposta all’aumento del pauperismo interroga il ruolo dello stato e di «quella regione media delle esistenze dove spesso tutto è volgare senza che niente sia semplice», della borghesia sulla quale si reggeva il precario assetto sociale orleanista, incalzata dalla nuova divisione di classe generata dall’industrializzazione.8 Nell’Inghilterra assistenziale e paternalista delle poor laws, il rinvio totale alle leggi di mercato per tutto ciò che attiene alla sopravvivenza, produce il rinvigorimento di tutte quelle reti associative capaci di mettere in campo efficaci esperimenti di solidarietà interclassista. A partire dalla creazione di società operaie e società di mutuo soccorso, si infoltisce la costellazione di associazioni di artigiani o contadini – minacciati dalla pressione concorrenziale delle imprese capitalistiche e vessati dai costi sociali del processo di industrializzazione, che ambivano a affermarsi sul mercato attraverso una riorganizzazione collettiva di tecniche, saperi, capitali liquidi e lavoro – e si andava delineando l’idea di un’economia cooperativa. Tutti i soci avevano gli stessi diritti e ognuno disponeva di un voto. Nelle piccole cooperative l’assemblea dei soci sceglieva un direttore d’azienda per la gestione operativa, ma conservava una funzione deliberativa. Nelle grandi cooperative veniva eletto generalmente, per un certo periodo, un gruppo di gestione e un direttore, i quali una o più volte l’anno dovevano rendere conto della propria attività all’assemblea dei soci, ricevendo eventualmente da essa indicazioni sui nuovi scopi da perseguire.9 Accanto alle migliorie in campo economico, alla base del nascente movimento cooperativo vi erano anche principi egualitari che caratterizzavano il pensiero di un ampio ventaglio di pensatori, intenti a promuovere, durante tutto l’Ottocento, quell’idea di cambiamento dell’ordine sociale, in senso non capitalista o quanto meno umanitarista, che Engels annovera tra le fondamentali eredità del tardivo movimento operaio tedesco.

Charles Fourier immagina una via d’uscita comunitaria, dove il lavoro rappresenta un’opera di auto-realizzazione personale. L’individuo, come un palafreno finalmente liberato dal morso del «monde à rebours»10 e dalla frustrante divisione del lavoro, viene inserito in un processo produttivo armonioso e tarato sull’indole e le naturali aspirazioni. Si immagina un sistema di falangi (strutture produttive) e falansteri (strutture abitative) dove la dignità delle passioni e la reciproca accettazione delle stesse diventa motore di benessere sociale diffuso.11 A fronte dell’ampia diffusione del progetto babuvista di «stato di comunità»12 ad opera dei membri della Società degli Eguali, nella comunità fourierista si vive una condizione differente, di associati, non riconducibile a una comunità egualitaria, bensì a un’associazione di comproprietari in solido di mezzi di produzione e terreni. Si assiste infatti a una sorta di «estensione» della proprietà tra i soci che, secondo Fourier, dovrebbe contribuire alla pacificazione sociale. In breve, in un clima di soddisfazione personale, generata dalla rinnovata organizzazione del lavoro, in assenza di grandi sperequazioni e con la certezza che un accrescimento dei beni prodotti porterà a un aumento dell’utile personale, la generalizzazione della proprietà genererà convivenza ordinata piuttosto che malcontento e sommosse.13 Le retribuzioni di ciascun individuo, erogate dalla falange, sono oggetto di calcoli che prevedono non soltanto un compenso per il lavoro svolto, ma anche una percentuale in relazione al capitale personale, e una in relazione al singolo talento, abilità tecnica e professionale, capacità di presiedere alla qualità della produzione.14 Aldilà dei tentativi poco riusciti di realizzare l’utopia fuorierista del falansterio15, essa ha conosciuto una grande fortuna per la sua capacità di sistematizzare l’interiorità umana e di pensarne la collocazione in un ambiente fisico capace di metterne a valore, piuttosto che sublimare o reprimere, i movimenti. Una simile micro-proposta di vita alternativa si rivela fin da subito insufficiente rispetto alla pretesa di rispondere alle grandi disuguaglianze sociali denunciate da Fourier, ma capace di influenzare altri soggetti organizzati coevi.16

Per Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), la centralità nel processo di rigenerazione sociale non poggia sul singolo, inteso come soggetto che si realizza esplicitando la propria indole, bensì sull’individuo in quanto ingranaggio dell’intero meccanismo di creazione di benessere, al passo col progresso scientifico.17 Un interesse di natura sociologica quello del pensatore francese, sempre abbinato a una visione organica di economia, società e politica; un disegno orientato verso il risanamento della frattura rivoluzionaria18 e verso una riorganizzazione scientifica della società, guidata dall’industria e dall’applicazione del progresso tecnico come punti di condensazione dei nuovi valori-guida.19 Il suo socialismo «non esplicito», come lo definisce Halévy20, assume i tratti di una società in cui le gerarchie sociali sono ripensate nell’ottica della cooperazione, di una sempre maggiore integrazione delle attività degli uomini basata sulla messa a valore delle competenze: «un utilitarismo socialista, organizzatore, gerarchico».21 Assistiamo all’affermazione del potere politico degli “industriali” che, in una visione interclassista della riorganizzazione della società, costituiscono un blocco comprendente capitalisti e operai, si prendono responsabilità di direzione e di creazione effettiva del benessere comune, agendo in un clima di pari dignità di attività e mansioni. Un nuovo cristianesimo22, comunitario e corporativo, in cui il conflitto sociale viene dato per risolto grazie alla capacità di realizzazione economica dei nuovi attori sociali al timone: «La tranquillità pubblica non può essere stabile finché gl’industriali più importanti non saranno incaricati di dirigere l’amministrazione delle finanze».23 Attorno ai due assi portanti della banca centrale come istituzione economica pianificatrice e della funzione della creazione artistica come edificatrice di un nuovo io moderno24, Saint-Simon progetta una società pienamente funzionale alla produzione. Il nuovo assetto sansimoniano sarà capace di scardinare l’economia della rendita – il dominio dei fainéants, ossia della nobiltà e dei militari25 – e di accordare la sfera della politica con l’ amministrazione delle cose e degli uomini: «I governi non guideranno più gli uomini, le loro funzioni si limiteranno ad impedire che i lavori utili siano disturbati».26 Nelle sue pubblicazioni sarà sempre ricorrente il tema della fondazione di una politica positiva, ricalcando la filosofia che si sarebbe imposta a partire dal predominio della scienza – «l’investitura spirituale degli scienziati a spese dei teologi».27 Alla sua morte, i seguaci di Saint-Simon continuarono a combattere il principio del laissez-faire, chiedendo a gran voce un ordine pacifico dell’organizzazione scientifica dell’industria e dell’economia che peraltro, una volta istituito, non avrebbe richiesto alcun potere militare.28

Per introdurre la dottrina sociale utopica di Robert Owen, imprenditore, intellettuale e filantropo inglese, principale esponente di un socialismo a base cooperativa, occorre precisare che una simile teoria sorge e si sviluppa sul terreno di un’esperienza manageriale concreta. Direttore del cotonificio scozzese di New Lanark dal 1800 al 1824, Owen tocca con mano le ricadute sociali dello sviluppo industriale e prende coscienza della necessità di un percorso educativo collettivo, affidato in un primo momento allo stato che, in attesa che si porti a compimento la professionalizzazione della massa lavoratrice, assume il ruolo di razionalizzatore della vita sociale in ogni suo aspetto. Del «nuovo sistema»29 sociale armonico e integrato immaginato da Owen si sono potute indagare le isolate esperienze del “villaggio di cooperazione” di New Lanark e le testimonianze americane di New Harmony in Indiana e di Harmony Hall nello Hampshire, tentativi dislocati oltreoceano a seguito della recrudescenza delle ondate repressive contri i lavoratori in Inghilterra.30

A dispetto della progettualità di indirizzo comunitario e del «nuovo mondo morale» basato sul ruolo dei lavoratori nella direzione sociale, nessuna di queste esperienze ha mai oltrepassato l’aspetto di razionalizzazione produttiva e di formazione delle individualità per renderle perfettamente inseribili nel processo produttivo. Ciononostante, sono state applicate alcune misure che, secondo Owen, avrebbero permesso ai lavoratori di partecipare al percorso di emancipazione verso il quale occorreva orientare la produzione e l’insieme delle attività sociali: nessun licenziamento o diminuzione di salario durante i quattro mesi di embargo statunitense nei confronti della Gran Bretagna (1806), che privarono il paese della possibilità di approvvigionarsi di cotone grezzo per tutta l’industria tessile; assunzione di bambini-apprendisti solo sopra i dieci anni e con il consenso dei genitori; canoni d’affitto calmierati e creazione di un ambiente sociale atto ad estirpare le “cattive abitudini” del furto e dell’abuso di alcool tra i lavoratori.31 In questo concerto di educazione e razionalizzazione, ravvisiamo una traccia importante del sansimonismo ottimista, quello del progresso scientifico e tecnico come mediatore dei conflitti sociali e riorganizzatore delle forze produttive, per «eliminare rapidamente il malessere dei poveri laboriosi e portare gradualmente la prosperità del paese a un livello molto superiore a quelli finora mai raggiunti».32

Gli ambiziosi, ma poco produttivi, tentativi dirigenziali di Owen lasciarono ben presto il passo all’opera divulgativa; ci pare di particolare importanza menzionare l’idea del lavoro come unica misura di valore, contrariamente alla dottrina fourierista nella quale permanevano salario e profitto. Di fronte della necessità di trovare un nuovo parametro in base al quale misurare il valore dei beni immessi sul mercato33, Owen si rende conto che l’oro e l’argento non si prestano a tale scopo poiché fanno «sì che il valore intrinseco di tutte le cose si trasformi in valore artificiale». Al contrario, calcolando una media del «lavoro umano, o le forze umane manuali e mentali congiunte che vengono chiamate in azione», si poteva stabilire il valore intrinseco di qualsiasi bene. Così facendo, «la domanda di lavoro non sarebbe [stata] più legata al capriccio» dei datori di lavoro e l’inadeguatezza delle retribuzioni rispetto alla mansione sarebbe diminuita, strappando così «le classi lavoratrici […] al sistema artificiale dei salari, più crudele nei suoi effetti di qualunque schiavitù mai praticata da una società, barbara o civile».34 Come sottolineava Karl Polanyi, il pensiero di Owen è stato acuto nel ravvisare il potere disgregante della rivoluzione industriale e dell’etica individualistica del capitalismo, non solo sul lavoratore, ma anche sul suo «ambiente sociale, il suo vicinato, la sua posizione nella comunità, la sua arte, in breve, quei rapporti verso l’uomo e la natura nei quali si collocava prima la sua esistenza economica».35 In effetti, vale la pena non sottovalutare l’influenza del suo pensiero nello sviluppo delle linee libertarie e autogestionali del movimento socialista europeo, vista la sua capacità di tracciare l’evoluzione della condizione del proletariato inglese dal disagio portato dalla crescente industrializzazione a una coscienza orientata alla gestione in prima persona del processo di produzione.

Contestualmente, dal punto di vista dell’utopia letteraria e degli esperimenti autogestionali, sia quelli nell’ottica della trasformazione sociale, sia quelli orientati alla democrazia economica, i passi avanti non sono pochi, molti dei quali, per diverse ragioni, nel solco dei pensatori finora presi in considerazione. Il giorno di ferragosto del 1844, ventotto tessitori di Rochdale, nel Lancashire, codificano per la prima volta i principi della cooperazione con l’apertura del primo spaccio cooperativo, la Rochdale Equitable Pioneers’ Society, fondata su sette capisaldi: adesione volontaria dei soci; libera elezione, da parte di tutti i soci, degli organi direttivi ed amministrativi della società cooperativa; pratica del ristorno, o distribuzione degli utili ai soci in proporzione alle transazioni con la cooperativa (acquisti, conferimenti, prestazioni lavorative) effettuate da ciascuno di essi; interesse limitato alle quote sociali; vendita in contanti; neutralità politica e religiosa; sviluppo della educazione cooperativa.

In Inghilterra, dunque, si pongono le basi per la nascita e l’espansione della cooperazione di consumo a quattro anni dall’appello al Voyage en Icarie del “comunista” Etienne Cabet e un anno dopo La création de l’ordre dans l’humanité ou Principes d’organisation politique del pensatore francese Pierre-Joseph Proudhon. In quest’opera, emerge la natura del progetto di riappropriazione collettiva dei mezzi di produzione, volta alla realizzazione dell’integrazione sociale delle forze produttive, future fautrici di un nuovo sistema egualitario e razionale. «Il coordinamento delle funzioni», che Proudhon considera le unità di base della forza collettiva, ossia la capacità di svolgere il lavoro assegnato, «è l’essenza della democrazia, il fine al quale tendono imperiosamente le società moderne, l’ideale che perseguono le sette comuniste».36 Appare chiaramente che per Proudhon la trasformazione dei rapporti politici risulta subordinata all’emancipazione economica ed è attorno a questo orientamento dell’azione politica che egli propone un’autorganizzazione operaia di stampo partecipativo e con indirizzo federativo. Un’autogestione “federativa”, antiautoritaria, basata sull’associazione dei produttori e dei consumatori in “compagnie operaie”: «Ciò che mettiamo al posto del governo, l’abbiamo già detto: è l’organizzazione industriale. […] Ciò che mettiamo al posto della polizia è l’identità degli interessi. Ciò che mettiamo al posto della centralizzazione politica è la centralizzazione economica».37 Un’autogestione “partecipativa” poiché non si prevede alcuno scontro decisivo tra le classi e neanche una cogestione paritetica di padroni e operai, bensì l’associazione degli operai attorno alla gestione delle aziende, fino alla piena socializzazione delle stesse.38 In una lettera del 18 ottobre 1852 Proudhon scrive «Poiché la causa è comune fra i lavoratori delle città e quelli delle campagne, diventa ugualmente tale tra la democrazia operaia e la classe media, la classe media che dappertutto va ricadendo in plebe. Possano l’una e l’altra comprendere che la loro salvezza è nell’alleanza».39

Karl Marx Proprio incentrerà la sua critica proprio su questo auspicato sodalizio, nel quale si salda l’idea che la creazione del plusvalore risieda nell’ambito della circolazione e dello scambio delle merci, piuttosto che nella «necessaria sproporzione tra lavoro pagato e lavoro erogato»40, arrivando a declassare l’opera di Proudhon all’universo concettuale della «pasquinata».41 Colui che fino a diciotto anni prima veniva considerato da Marx l’ideatore del «manifesto scientifico del proletariato», assurge adesso a simbolo del socialismo «conservatore, ovverosia borghese».42

Tale divergenza teorica è rintracciabile sin dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, dove Marx mette in luce come il progetto di generalizzazione della proprietà privata collida con la natura stessa della proprietà, come «conseguenza necessaria del lavoro alienato».43 E ancora, la si rinviene nel ventaglio di posizioni evocate da Marx e Engels nel terzo capitolo del Manifesto del partito comunista, dove si concentra la loro critica dei socialismi utopistici e dove ritornano i “creditori del socialismo tedesco”, distinti dai loro epigoni, ma non per questo risparmiati dall’incasellamento nei socialismi «conservatori» (Proudhon) e «critico-utopistici». La loro colpa? Quella di assommare in sé da un lato progetti di nuovi assetti societari ben congegnati e radicali, dall’altro pratiche ancorate a un’idea di realizzazione pacifica e razionale del cambiamento, lontana dalla comprensione del ruolo del proletariato come composizione di soggetti sociali capace di superare la divisione del lavoro lontana, complessivamente, dall’afflato rivoluzionario che caratterizza l’intero Manifesto.44

Per quanto riguarda il ruolo dell’autogestione nell’articolazione della società rivoluzionaria, Marx prende parola a più riprese. Nell’Indirizzo del Comitato Centrale alla Lega dei Comunisti del marzo 1850, egli ricorda che «per potersi opporre validamente ai piccoli borghesi democratici, è innanzitutto necessario che gli operai siano organizzati e centralizzati indipendentemente, in circoli».45 Nella relazione introduttiva al Congresso di Ginevra del 1866, si delinea chiaramente la centralità dell’antagonismo di classe nel superamento del sistema capitalista verso «l’associazione di produttori liberi e eguali» e viene, in questa direzione, incoraggiata la costituzione di cooperative di produzione piuttosto che di consumo.46 Non ultimo, l’Indirizzo per il mancato Congresso di Parigi del 1871 in cui, all’indomani della sconfitta della Comune, Marx parla esplicitamente della prospettiva neo-governativa in cui il governo centrale lascia il passo all’«autogoverno dei produttori».47

L’esperienza della Comune e il giudizio di Marx, si legano fortemente all’attacco contro quelle idee “anti-moderne” di socialismi, incapaci di cogliere la contraddizione tra la necessità dello sviluppo del sistema capitalista e il fatto che proprio in seno ad esso si annidino le condizioni strutturali del suo superamento – la divisione in classi, la divisione del lavoro, l’alienazione dal lavoro, «l’accumulazione di miseria corrispondente» che procede di pari passo «all’accumulazione di capitale».48 La Comune, secondo Marx, non rappresenta un attacco unicamente indirizzato all’unità nazionale, non si configura come una «riproduzione di vecchie e anche defunte forme di vita sociale» o come un ritorno a un presunto passato edenico di ricomposizione sociale, assunto come contro-altare del sistema economico e sociale vigente. Al contrario, l’esperienza della Comune è governo della classe operaia, è «la forma politica, finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro. […] la leva per svellere le basi economiche su cui riposa l’esistenza delle classi, e quindi il dominio di classe».49

Marx interviene in merito alla gestione dell’economia da parte dei produttori anche nella Critica al programma di Gotha, puntualizzando che «per ciò che riguarda le odierne società cooperative, esse hanno un valore soltanto in quanto sono creazioni operaie indipendenti, non protette né dai governi né dai borghesi».50 Più in generale, la clausola inserita nel programma del partito operaio tedesco viene interpretata come una regressione rispetto alla dimensione di classe del movimento operaio: questa forma di lavoro associato, a causa del pericolo crescente di assorbimento nel quadro generale delle esigenze di sviluppo del capitale, con grande facilità cessa di assolvere la sua funzione educativa e di abitudine alla collaborazione cosciente, fondamentale per la costruzione della società socialista.

In questo elaborato, si è tentato di ripercorrere alcune manifestazioni dell’intensificarsi e del darsi concretamente della «creatività utopistica»51 nell’Ottocento, un secolo di progressivo avanzamento del fronte dell’utopia egualitaria, che dai consueti motivi letterari e immaginifici, diventa innanzitutto un’opzione comunitaria praticabile nel nascente capitalismo europeo, e infine approda alla scienza, proposta dall’opzione comunista. Tra continuità valoriali e rotture legate alla prassi politica, l’utopia, nell’ambito della teoria marxista, diventa a un tempo “la molteplicità alla quale opporsi” – poiché solo il proletariato, e non l’intero corpo sociale pacificato, sarà soggetto rivoluzionario – e a un tempo «visione complessiva della comunità a venire»52, per rigore scientifico rifiutata, ma onnipresente nel discorso politico di Marx e Engels.

1L. Canali, Un’allegra disperazione, in Anticlimax, Roma, Biblioteca dei Leoni, 2014, stanza II.

2P. Macherey, De l’utopie!, De l’incidence Editeur, 2011.

3Su precisazioni e estensioni del concetto di utopia si possono segnalare, tra i tanti, L. Febvre, Pour une histoire à part entière, Parigi, Gallimard, 1962, pp. 736-42; H. Desroches, Petite bibliothèque de l’utopie, in «Esprit», aprile 1974 (http://www.esprit.presse.fr/archive/review/detail.php?code=1974_4); A. Colombo, La società del futuro. Saggio utopico sulle società post-industriali, Bari, Dedalo Editore, 1978.

4L. Febvre, Op. Cit., p. 740.

5M. Abensour, Utopiques II. L’homme est una animal utopique, Sens&Tonka, 2013.

6F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Roma, Edizioni Rinascita, 1949, pp. 24-25.

7E. J. Hobsbawm, L’età della rivoluzione 1789-1848, trad. it., Rizzoli, Milano, 1999, p. 472.

8La celebre espressione di François Guizot è ricordata anche in A. M. Banti, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Bari, Laterza, 2009, p. 143.

9 http://www.treccani.it/enciclopedia/autogestione-e-cogestione_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/

10 C. Fourier, Théorie des quatre mouvements et des destinées générales, Parigi, Pauvet, 1967.

11 C. Fourier, Le nouveau monde amoureux, in Oeuvres complètes, Paris, Anthropos, 1966-1969, vol. VII.

12Per una disamina più puntuale di quanto progettato dalla Società degli Eguali in merito allo «stato di comunità» come ritorno allo «stato di natura» e sulla «comune amministrazione» della proprietà, si segnala A. Colombo, L’utopia: rifondazione di un’idea e di una storia, Bari, Dedalo Editore, 1997, pp. 294-295, in cui si ricordano anche le pubblicazioni del Tribun du peuple, giornale pubblicato dal 1794 al 1796 per un totale di 43 numeri.

13L. Tundo, L’utopia di Fourier. In cammino verso Armonia, Bari, Dedalo Editore, 1991, p. 191.

14La partecipazione differenziata dei soci in base al capitale versato in partenza contribuisce ulteriormente al superamento di un’idea di comunità dei beni, inadatta alle tante «graduazioni» tra gli individui, e all’ idea di rapporto salariale. L. Tundo, Op. Cit., pp. 188-190 «L’incomparabile diversità del lavoro del proprietario da quello del servo o del salariato si sarebbe toccata con mano»

15F. E. Manuel, I profeti di Parigi, Bologna, Il mulino, 1979, p. 245; G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Bari, Laterza, 1979, p. 7.

16Doveroso ricordare i tre saggi dedicati a Fourier da Italo Calvino. I. Calvino, L’ordinatore di desideri, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 228. «Vi fu, negli anni tra il 1830 e il 1848, un’espansione fuorierista internazionale: per l’influenza che ebbe sull’intellighenzia rivoluzionaria russa basti ricordare il circolo Petrasevskij di Mosca i cui membri (tra i quali Dostoevskij) finirono nel 1849 davanti al plotone d’esecuzione e (graziati in extremis) in Siberia; negli Stati Uniti, l’esperienza della collettività di Brook Farm, fondata nel New England dal reverendo George Ripley come applicazione della filosofia trascendentalista di Emerson, e cui partecipò anche Hawthorne, si trasformò, in seguito alla propaganda fourierista di Albert Brisbane, nella North American Phalanx; esperimenti e influenze si propagarono fino in Romania e in Spagna.»

17 G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Bari, Laterza, 1977, p. 55.

18É. Halévy, L’ère des tyrannies. Études sur le socialisme et la guerre, Paris, Gallimard, pp. 91-92.

19V. Martino, Saint-Simon tra scienza e utopia, Edizioni Dedalo, 1978, p. 29. «Ma a parte la presenza e l’incisività della ricerca sociologica, permane dell’opera di Saint-Simon una chiara dimensione politica che, prescindendo da ogni altra considerazione, non può essere essere espunta da una visione compiuta e organica della società, da una visione che deve perciò bandire “le incoerenti distinzioni tra realtà politica, economia e sociale, per guardare queste categorie come tre momenti di un’unica e globale situazione teorica e pratica”»

20É. Halévy, Op. Cit., p. 30.

21Ivi, p. 135.

22C. H. Saint-Simon, Opere, Torino, UTET, 1975, vol. 4, p. 193.

23Ivi, pp. 3-4.

24M. Battini, Utopia e tirannide. Scavi nell’archivio Halévy, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 95.

25 Frank E. Manuel, I profeti di Parigi, il Mulino, Bologna, 1979, pp. 159-160.

26C. H. Saint-Simon, Oeuvres, Parigi, Antrophos, 1966, vol. I, p. 168.

27P. Bénichou, Il tempo dei profeti. Dottrine dell’età romantica, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 283.

28 Frank E. Manuel, Op. Cit., p. 65.

29R. Owen, A New View od Society and other writings, London, Everyman’s Library, 1966.

30Da ricordare in particolar modo la rivolta di Spa Fields e la sua repressione (dicembre 1816), la marcia dei Blanketeers (marzo 1817), l’insurrezione del Derbyshire (giugno 1817), il massacro di «Peterloo» (16 agosto 1819), la cospirazione di Cato street (febbraio 1829). Una buona sintesi la si trova in M. Bloy, Riots, Disaffection, and Repression, 1811-19, 2004, in http://www.victorianweb.org/

31J. F. C. Harrison, Robert Owen and the Owenites in Britain and America. The Quest for the New Moral World, Routledge & Kegan Paul, London, 1969, p. 154.

32J. F. C. Harrison, Op. Cit., p. 175.

33 Owen ravvisa con lucidità che l’ampiezza dei mercati mondiali, e la loro conseguente capacità di assorbimento della produzione, dipendeva dal salario che veniva corrisposto ai lavoratori, i quali, in virtù de loro numero, costituivano anche «i maggiori consumatori di tutte le merci» R. Owen, Per una nuova concezione della società e altri scritti, (1927). Trad. it., Bari, Laterza, 1971, p. 187.

34Ivi, pp. 188-191.

35K. Polanyi, La grande trasformazione, (1944). Trad. it., Torino, Einaudi, 2010, pp. 163-164.

36P. J. Proudhon, La création de l’ordre dans l’humanité ou Principes d’organisation politique, in Oevres, p. 433.

37P. J. Proudhon, Idée générale de la révolution au XIXème siècle (1851), in Oevres, p. 161.

38R. Massari, Le teorie dell’autogestione, Milano, Jaca Book, 1974, p. 56; R. Massari, Il principio di autogestione nell’800, Bari, Dedalo Edizioni, p. 162.

39Frammento di lettera contenuto nel taccuino n°5 del maggio 1847, riportato in È. Dolléans, Storia del movimento operaio 1830-1871, Firenze, Sansoni, 1957, p. 187.

40A. Burgio, Modernità del conflitto, Roma, DeriveApprodi, 1999, p. 63.

41K. Marx, Miseria della filosofia: risposta alla Filosofia della Miseria di Proudhon, Roma, Editori Riuniti, 1986.

42F. Engels, K. Marx, La Sacra Famiglia ovvero Critica della critica critica, contro Bruno Bauer e consorti, Roma, Editori Riuniti, 1972. K. Marx, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1983, p. 199.

43K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1949, pp. 81-83.

44 K. Marx, Manifesto del partito comunista. «Per mutamento delle condizioni materiali di esistenza questo tipo di socialismo non intende però in alcun modo l’abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo con la rivoluzione, ma miglioramenti amministrativi che restino sul terreno di questi rapporti di produzione; che dunque non tocchino affatto il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma che semmai nel migliore dei casi alleggeriscano alla borghesia i costi del suo dominio e semplifichino il bilancio del suo Stato»

45K. Marx, Indirizzo del Comitato Centrale alla Lega dei Comunisti,in J. Freymond, La première internationale: recueil de documents, Ginevra, Droz, 1962.

46K. Marx, Relazione introduttiva al Congresso di Ginevra 1866, in J. Freymond, La première internationale: recueil de documents, Ginevra, Droz, 1962.

47K. Marx, La guerra civile in Francia, Milano, edizioni Lotta Comunista, 2007, p. 72.

48K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII, Roma, Editori Riuniti, 2006.

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