ADDII. Scompare all’eta di 78 anni un acuto e tagliente filosofo della politica. Interprete raffinato e lettore esigente, ha fornito una nuova prospettiva dell’idea di utopia. Da Marx a Benjamin, passando per Arendt, Buber e Levinas, ha interloquito con il grande Novecento
di Mario Pezzella
Il Manifesto – 26 aprile 2017
Miguel Abensour ha proposto in tutta la sua opera una nozione positiva di utopia, fermento di un socialismo libertario, consiliarista, antiautoritario. Il termine stesso di utopia era caduto in discredito al termine del secolo passato, come ha ricordato Abensour in uno dei suoi ultimi libri (L’homme est un animal utopique): rifiutato da filosofie che proponevano fine della storia, decostruzionismo e citazionismo post-moderno, il pensiero utopico era considerato uno sconveniente residuo di tempi violenti, privo di senso per «l’individuo consumatore» del secondo Novecento.
Oltre che desueta, l’utopia era considerata complice dei totalitarismi del secolo breve. Abensour restituisce invece valore all’immaginazione utopica, unita a un pensiero critico radicale. Particolarmente illuminante è in questo senso la sua interpretazione dell’immagine di sogno nel pensiero di Benjamin, in cui l’utopia si presenta nella sua complessa ambivalenza, all’interno del mondo del capitale: il sogno non è «un portatore alato e aereo» di felicità originarie, ma un aggregato di residui in cui si uniscono «immagini di desiderio infrante a immagini mitico-arcaiche», da cui il soggetto deve distaccarsi criticamente.
Le immagini del desiderio, che nel capitale si presentano come valore fantasmatico delle merci e seduzione simbolica della moda, non possono essere né respinte né accettate in quanto tali. Esse devono essere interpretate. Il desiderio è sfruttato dal capitale non meno del corpo e della mente, trasferito nell’immaginario e nel mito, neutralizzando le sue richieste sovversive. La fantasmagoria delle merci lo rende spettrale e distruttivo, deviandolo verso l’incremento inesauribile del denaro.
Per Abensour l’immagine di sogno non va accolta in quanto tale, ma nemmeno semplicemente negata, distruggendo insieme a essa il desiderio di felicità che pure la abita. Essa deve essere trasformata – seguendo l’insegnamento di Benjamin – in immagine dialettica: questa libera il sogno dalla sua illusoria pienezza immaginaria e forza il suo statuto di merce, fino a porre il desiderio sul terreno reale del conflitto sociale e della liberazione dal dominio del capitale sui corpi e sulle menti.
Ogni spazio sociale è attraversato dal conflitto tra il feticismo incantatorio delle merci e l’insorgenza di un desiderio liberato, fra la fantasmagoria e la lotta contro l’astrazione del capitale: «quando costruisce un’immagine dialettica Benjamin non presenta affatto un’immagine che sia copia o doppio del sogno, ma al contrario elabora un’immagine distanziata che tende a decostruire il sogno, a sciogliere se non a spezzare il nesso dell’onirico e del mitico, favorendo così il risveglio storico (…) invece di congedare o dissolvere l’utopia, si tratta piuttosto della sua impegnativa separazione dalle immagini mitico-arcaiche, di liberarne infine le virtualità emancipatrici, di assicurarne la salvezza (…) Il sogno preso tra due impulsi contrari, il sonno o il risveglio, si trasforma in momento, in scena antagonista».
Questa tensione utopica anima la democrazia insorgente, che Abensour –reinterpetando La critica del diritto statuale hegeliano di Marx- oppone alla democrazia parlamentare in dissoluzione. Miguel Abensour interroga Marx a partire dalla crisi del comunismo del Novecento. In tale disfacimento di speranze, è possibile chiedersi cosa sia una «vera democrazia»? La «vera democrazia» aspira al governo condiviso dei «molti»; lo Stato, invece, nel suo stesso principio, tende a sottoporre i molti al dominio di un Uno, forma unificante e organizzatrice.
La democrazia opera dunque contro le unificazioni formali e astratte proposte dallo Stato, che suppongono un rapporto gerarchico di servitù; e sostiene invece forme di consenso politico, in cui venga lasciato spazio al riconoscimento paritario dell’altro: «ripoliticizzare la società civile – precisa Abensour – significa riscoprire la possibilità di una comunità politica al di fuori dello Stato e contro di esso». Per una «vera democrazia» non ci può essere soluzione definitiva del conflitto sociale: che non è necessariamente un male, ma invece un presupposto di libertà.
Il «momento machiavelliano», secondo Abensour, è l’essenza stessa della democrazia e della decisione politica. Esso non è – o non è solo – un periodo storico, ma una possibilità permanente dell’agire politico, una sua forma a priori, un suo imperativo regolativo. Bisogna portare alla luce il conflitto della realtà sociale, reso invisibile dalla fantasmagoria delle merci; le forme, in cui esso di volta in volta si risolve, non possono essere imposte dallo Stato o rimesse al puro arbitrio dei rapporti di forza: né affidate a un atto di governance o agli automatismi ciechi del mercato.
È necessario immaginare «istituzioni della democrazia diverse da quelle dello Stato», in cui sia possibile prendere decisioni che riguardano l’essere-in-comune. A questo decentramento della decisione corrispondono le istituzioni consiliari descritte da Arendt e di cui Marx ha dato un’anticipazione nei suoi scritti sulla Comune.
La democrazia insorgente è affine alla «democrazia selvaggia» di Lefort: non esiste Stato finale della storia, né mai una trasparenza sociale assoluta, in cui il conflitto e l’antagonismo possano aver fine. Sempre, in circostanze ogni volta diverse, l’azione politica deve riprendere il suo compito e «insorgere» contro l’irrigidimento della servitù volontaria, che tende a ripetersi; questa prospettiva, più che a un’idea organica della rivoluzione come fine della storia, è più vicina a quella di una rivolta permanente, che riproponga, in ogni situazione o «sito» del tempo, l’essere-in-comune contro l’essere-in-Uno.
L’azione politica è sempre «situata» e rigorosamente tempestiva: occorre cogliere la contraddizione specifica e irripetibile, che si segnala come una crepa nel muro maestro; e l’apertura che lo trascende, verso un riconoscimento paritario dell’altro. Il «sito» è il luogo dove gli umani possono con-venire insieme, rovesciando i rapporti concreti di potere; l’azione politica si radica nella sua specificità e solo in esso può avvenire il riconoscimento dell’altro (un tema che Abensour riprende da Levinas, trasferendolo dal piano etico a quello politico).
Questo situazionismo politico riceve conferma dall’opera di Hannah Arendt, su cui Abensour ha scritto un libro importante. L’azione politica inserisce nell’esserci opaco e insensato (l’il-y-a di Levinas) un essere-per-l’inizio, che si oppone – come modalità esistenziale – all’essere-per-la morte: discontinuità salvatrice, balenio di un possibile che prima non era. Ma l’azione inaugurale, la vitalità della cesura, il potere istituente dei cittadini possono durare e non ricadere nella «servitù volontaria» descritta da La Boétie? (testo decisivo per Abensour, che ne ha curato l’edizione).
Le istituzioni consiliari descritte da Arendt nel suo libro Sulla rivoluzione, in opposizione a quelle parlamentari, dovrebbero garantire una continua tensione, una riattivazione incessante del conflitto tra i diritti e le leggi, tra la realizzazione del principio di eguaglianza e la sua riduzione a una rappresentanza parziale, che ne confisca l’universalità. Il politico – come lo intende Abensour- «lungi dall’aspettare un compimento del tempo storico, è una vedetta che fa la posta alle occasioni storiche capaci di introdurre brecce, faglie nel continuum e nella ripetitività del tempo, capaci di far nascere una nuova esperienza della libertà».