Lucia Arcuri (ITA_13.12.2024)
“Ducunt fata volentem, nolentem trahunt” non è solo una celebre massima che, secondo Seneca, avrebbe pronunciato lo stoico Cleante, ma è anche l’esergo di uno dei libri che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della filosofia: Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler.
Primo nel suo genere, il Napoleone di Ridley Scott potrebbe essere considerato a pieno titolo un “nolentem”. Solitamente, la filmografia su questo personaggio, si coagula attorno ad una figura esemplare che è mente, forza, agente in grado di plasmare le sorti dell’Europa insieme al suo personale destino. In questo film, invece, il personaggio sembra essere trascinato, dall’inizio alla fine, da tutto fuorché da sé stesso: il caso, la sua amata Josephine —soprattutto —, il fratello Lucien, Taillerand, turbe, traumi e paturnie che però non avverte. In balìa di cose, persone ed eventi che sembrano insistere su di lui e che Napoleone tiene a freno impegnandosi in un ordine di campagne militari o rispondendo con lettere destinate ai suoi cari in cui ricapitola le sue attività, quasi a voler dire: «non vi deluderò purché continuiate a credere in me». La battaglia di Waterloo rappresenta l’apice di questo uomo quasi senza qualità a parte il saper fare la guerra. La fretta, il capriccio di sbrigarsi, la messa in campo di uno schema che si aspetta faccia il suo solito lavoro sono elementi che disegnano una caduta dal rigore quasi matematicamente perfetto.
La geometria militare di cui sembrava essere padrone indiscusso, però, stavolta non funziona e la scena che taglia in due l’attesa della battaglia tra i due schieramenti, mostra uno stormo di uccelli che si muove a forma di punta di freccia. Nessun augure, se non il pubblico in sala, a interpretare questo passaggio come il presagio della futura sconfitta. Lo stormo segue un verso, indica una direzione rettilinea che la cavalleria francese sembrava in grado di prendere per sfondare le linee nemiche ma finirà col dover seguire l’andatura circolare dettata dal compatto schieramento di fanteria inglese, disegnando gorghi. Senza riuscire a fare breccia, l’esercito finirà a girare attorno ai solidi schieramenti, in una giostra vorticosa di morte. La coazione a ripetere, l’ossessione e l’impossibilità di sfuggirvi rappresentano probabilmente la trama nascosta del film. Napoleone e il suo esercito girano in tondo, ripropongono lo stesso schema ed è forse il piacere stabile di questa reiterazione, nel bel mezzo di un avvenimento drammatico come la guerra, a costituire una fonte di godimento, a dare a Napoleone l’impressione incoraggiante di essere portato per qualcosa che è ben più dell’essere un uomo e un generale qualunque. L’ossessione più grande, più impellente della stessa battaglia, ancor maggiore del bisogno di dare al suo popolo un erede, è però Josephine. Il rapporto tra i due è precipitoso, irregolare, burrascoso, segnato da repentini allontanamenti e altrettanto rocamboleschi ritorni ma, soprattutto, rasenta il patologico quando non mima la trasposizione esatta del gioco che il bambino fa col suo rocchetto in Al di là del principio di piacere di Freud. Il Napoleone di Scott pare essere preso in questo gioco; arriva ad essere imperatore pur essendo a metà strada tra il bambino immaturo e quel rocchetto tirato in ballo da fili invisibili. La divisione tra l’essere un soggetto quasi infantile e un soggetto-oggetto degli altri trova una stabilizzazione per pochi attimi nella relazione tra Napoleone e Josephine, almeno fino a quando il personaggio non sente di doversi sottrarre. Parafrasando una vecchia canzone di Venditti si potrebbe affermare: «i grandi amori non finiscono, fanno delle imponenti campagne militari e poi ritornano». Egitto, Russia, Sant’Elena, non esiste posto troppo lontano da cui Napoleone non possa far ritorno per l’amore/ossessione che lo accompagna. Ogni battaglia sembra essere un corollario, un imprevisto sul tragitto che lo condurrà dritto tra le braccia dell’amata e inizialmente infedele Josephine. Persino il ritorno dall’Elba non sembra essere stato tanto impegnativo. Napoleone si rivolge al reggimento che incrocia sulla via del ritorno parlando come ad una vecchia amante. I soldati inizialmente lo irridono, solo quando rievoca le vittorie e fa appello alla sua personale narrazione studiata ad arte, edulcorante, imbevuta di pathos, il plotone gli presta ascolto, lo riconosce e si unisce a lui. Ma la capacità da musicante di Brema di irretire i soldati come topi, fa appello all’immaginario sedimentato nel personaggio più che nell’essere umano in carne ed ossa che i soldati si erano trovati di fronte. Il rientro in patria non conosce ostilità nel film. D’altronde è facile accaparrarsi il potere quando ad occuparlo è l’ennesimo sovrano fantoccio, l’ aristocratico molliccio che non ha mai visto un campo di battaglia se non la propria mensa perennemente imbandita. Tutt’altro discorso è, invece, trovarsi davanti il duca di Wellington che la mattina della battaglia, affidandosi alla psicologia inversa, pensa qualcosa del tipo: «è risaputo che io odio uscire sotto la pioggia, ma proprio per questo uscirò». La banale rottura degli schemi, della prassi, di una routine militaresca segna la fine di Napoleone, il fallimento di un’arte che credeva essere geometrica e che, stavolta, trovandosi per lui ad essere frutto di improvvisazione, decreta un triste epilogo della storia, la fine di un’era. Così Napoleone si trova a colazione in un vascello inglese, a dare spiegazioni ad un equipaggio imberbe sul fatto che il suo unico talento era di saper piazzare i cannoni al millimetro — di nuovo il riferimento alla guerra “more geometrico” combattuta— quasi a giustificare a sé stesso, prima che al mondo, il suo errore.
Se al cospetto del re Francesco I Napoleone aveva trionfalmente affermato di aver commesso un solo errore in campo, l’aver risparmiato gli eserciti, non aver fatto prigionieri i nemici, proprio per esaltare trionfalmente la sua magnanimità, ci si ritrova, infine, a dover constatare che le ragioni del fallimento di questo Napoleone sul campo di battaglia sono da rintracciarsi nell’attaccamento alla routine, in un atteggiamento stolido, abitudinario, burocratico.
Dopo la sconfitta di Waterloo, Scott pare porre il dilemma se Napoleone abbia o meno accettato di buon grado la sua sconfitta mostrando un personaggio che finge, tutto sommato, di averla presa bene. Nella scena finale, addirittura, Napoleone scherza con delle bambine sulla campagna di Russia e afferma— quasi come un redivivo Nerone senza cetra— di esser stato il responsabile dell’incendio di Mosca per essere però smentito prontamente da una delle due ragazzine. Quest’ultima scena, più che alla perdita di credibilità del personaggio, fa da epilogo tragicomico della storia di un personaggio storico immaginato perlopiù come granitico, come punto fisso ma che in realtà Scott pare— cosciente o meno— voler situare a metà strada tra uno snodo funzionale alla transizione storica e un caso psicanalitico.
«Dalle Alpi alle piramidi» Napoleone rincorre un Io-imago; si trova ad essere erede simbolico di un desiderio che non è situato ma che finisce per credere suo. Troppo dinamico per essere aristocratico, troppo amante dell’ordine per essere un rivoluzionario, troppo aduso all’automatismo di vecchi e gloriosi schemi per volerli cambiare, troppo devoto al suo personaggio, all’Imperatore, alla visione che altri avevano costruito per lui per poter vivere con Josephine, come qualsiasi altro essere mortale. Ecco allora che la celebre espressione che Hegel scrive all’amico Niethammer in una lettera del 13 ottobre 1806 a proposito dell’entrata dell’imperatore a Jena «ho visto lo Spirito del mondo a cavallo» acquista, alla luce di questo film, un senso del tutto nuovo.
Lo spirito del mondo a cavallo, che il filosofo intravide nel condottiero, non è individuabile, personificato, raggrumato attorno a questo bizzarro uomo corso. Lo Spirito è inafferrabile dinamicità, snodo necessario perché la storia evolva, perché l’ingorgo del terrore giacobino defluisca, non continui a ritorcersi su sé stesso. Non si tratta quindi di una giustificazione della guerra o dell’evoluzione storica, si è ben oltre la tentazione di ricondurre il tutto alla dialettica dei volentes e dei nolentes nella realtà. Ma quello stesso spirito, non può restare a cavallo, troverà altre forme, manifestazioni sempre nuove. Al di là delle inesattezze storiche e probabilmente anche al di sopra della volontà e dell’intento del regista, questo film mostra un Napoleone inedito, un individuo al bivio tra una sorte che lo spinge oltre, come il cavallo raffigurato dal quadro For the road di Jack Butler Jeats e quei moti pulsionali che, uniti ai vincoli e alle relazioni sociali, insistono su di lui e ne fanno ciò che diviene, visto che lui, in mancanza di lucida analisi e volontà, non è in grado di divenire quello che è.
In copertina, Jack Butler Yeats Rha, For The Road (1951), National Gallery, Dublin.