Gianfranco Ferraro (ITA 25.04.2024)
Il 25 aprile 1974, cinquant’anni fa, i militari del Movimento dei Capitani, guidato dal comandante operativo Otelo Saraiva de Carvalho, rovesciavano la più lunga dittatura della storia, lo Estado Novo portoghese. Il Portogallo era un Paese stremato da dodici anni di guerra coloniale. Non si comprende a fondo il significato di quello che sarebbe stato un semplice colpo di Stato, se non si guarda al programma politico che era stato formulato a fatica nei mesi immediatamente precedenti, nelle inusitate petizioni inviate dai fronti di guerra, durante le riunioni segrete nelle case, nei Club navali, nei ristoranti, nelle occasioni di incontro che i giovani militari riuscivano a strappare all’ossessivo controllo della PIDE: mettere fine alla guerra coloniale, ridare libertà di espressione, rimettere il governo nelle mani del popolo.
Strano programma per dei militari, soprattutto pensando ai golpe che negli stessi anni venivano portati a compimento in Brasile, in Cile, in Argentina, in Grecia. O persino ai tentativi di golpe, che venivano compiuti in Italia, come dirà Pasolini. E invece no, il golpe portoghese non va a destra, e non è una rivoluzione comunista. È, innanzitutto, antifascista: di un antifascismo nato nelle giungle della Guinea, del Mozambico, dell’Angola, nato nelle prigioni di Salazar e di Marcelo Caetano.
Ma ancora non si capisce, cosa è stato il 25 aprile portoghese se non si pensa alla serie di insubordinazioni che lo hanno caratterizzato. Al Terreiro do Paço, dove durante la mattinata si confronteranno le truppe della Escola Prática de Cavalaria di Santarém, comandata dal capitano Salgueiro Maia, e le truppe di regime. È lì che, una dopo l’altra, le unità che vengono mandate a riconquistare le posizioni controllate dai “rivoltosi” cedono. E non cedono alla forza delle armi. Quando il generale Junqueira dos Reis schiaffeggerà il tenente Alfredo Assunção, ordinando ai suoi uomini di fucilarlo, e poi, ancora, quando quando ordinerà a Fernando Sottomayor o a José Alves Costa di sparare una cannonata, nessuno risponderà ai suoi ordini. Nessuno sparerà su Salgueiro Maia, quando con una bomba a mano in tasca, si incamminerà verso le truppe corazzate del regime deciso a farla finita, in un modo o nell’altro. Nessun militare sparerà sui militari, perché magari quegli stessi militari si erano salvati la vita, chissà dove e chissà quando, combattendo una guerra che avevano capito non essere la loro. Non sparerà neanche la fregata Gago Coutinho, mandata proprio davanti al Terreiro do Paço: chissà, forse neanche il comandante avrebbe voluto sparare, di certo è che i suoi sottoposti lo fermano. Non sparerà neanche Salgueiro Maia, sulla caserma del Carmo, dove si era rifugiato l’ultimo dittatore, il professor Marcelo Caetano: disobbedendo anche lui a un ordine dato dai comandi della rivolta. Troppa gente c’è al Largo do Carmo, ormai, nel pomeriggio: è lì che il golpe diventa rivoluzione, con la gente di Lisbona e dei sobborghi che ha sentito i comunicati del Movimento delle Forze Armate diffuse dalla voce del giornalista Joaquim Furtado, o che ha saputo per passaparola. Si sa qualcosa, ma non tutto, e nonostante i militari chiedano alla popolazione di rimanere in casa, le persone scendono nella Baixa di Lisbona: ancora una insubordinazione. Tra loro Celeste Caeiro, la signora dei Garofani, come verrà conosciuta, dipendente di un ristorante che proprio quel giorno festeggia il suo primo anniversario e che per l’occasione aveva preparato dei garofani da donare ai clienti. A causa dell’inaspettata chiusura, quel giorno, il proprietario darà ai garofani ai dipendenti. Celeste, rientrando verso casa, si ritrova davanti ai militari che le chiederanno una sigaretta, ma lei non avrà che i suoi garofani, da regalare. Nasce così il simbolo e il mito di una rivoluzione pacifica, l’ultima rivoluzione del Novecento, in fondo. E saranno loro a farla, la rivoluzione, i civili che non restano a casa e che circondano con i militari l’ultimo rifugio di Caetano, che presto capirà di non governare più nulla, e che farà di tutto perché “il potere non cada nelle strade”, consegnandolo al generalissimo che solo pochi mesi prima aveva firmato il suo manifesto contro il regime, “Portugal e o futuro”, António de Spínola. Il futuro si deciderà proprio in quei momenti, con le varie anime della rivoluzione magicamente riunite: il movimento dei capitani, il popolo nelle piazze, il generale che vorrebbe rovesciare il regime, per far sì che la democrazia arrivi lentamente. Caetano si arrenderà, e nulla poi sarà del tutto veramente controllabile.
Anche perché nessuno davvero controlla tutto il 25 aprile. Né il regime, né i militari rivoltosi inquadrati nel piano di operazioni del maggiore Otelo: la rivoluzione è anche la storia di unità operative che non partono, che non si trovano dove dovrebbero stare, o di cui si perdono i contatti. È la storia di colonne di mezzi che si fermano a un semaforo rosso. È anche la storia di un militare che da solo fa credere agli operativi della Torre di controllo dell’Aeroporto di Lisbona che ci sono centinaia di uomini pronti ad entrare in azione, mentre invece è solo, ed è così che viene fermato, quel giorno, tutto il traffico aereo. È anche la storia di un uomo nel suo bunker del Centro di comunicazioni della Marina, il capitano Almada Contreiras, che proprio stando al suo posto di lavoro farà in modo di agevolare le comunicazioni con le unità navali e, alla fine, manderà proprio dei fucilieri della Marina ad occupare la sede della famigerata PIDE, da dove verranno sparati gli unici colpi mortali di quella giornata.
Nessuno controlla tutto nella storia, che sembra a tratti muoversi da sé, quasi per inerzia, per moto proprio, come del resto aveva detto anche Tolstoj, quando in Guerra e pace ci immerge nelle battaglie napoleoniche. Eppure nella storia di ogni battaglia ci si ritrova e anche si sceglie sempre di stare da una parte o dall’altra: il 25 aprile portoghese è stata la storia anche di queste scelte, personali, singolarissime, che dimostrano come la democrazia sia anche e soprattutto un modo di vivere, e di stare al mondo. A distanza di cinquant’anni tante sono ancora le voci presenti, che possono parlare, raccontare, mentre tante, e d’importanti, come quella di Otelo Saraiva de Carvalho o di Salgueiro Maia, sono scomparse. Raccogliere le loro testimonianze, ascoltarle, è quello che ancora ci rende, in qualche modo, figli di quell’aprile, in Portogallo, e forse in qualunque luogo del mondo in cui si difenda una libertà dall’oppressione. Ma è nei tanti no di quel giorno e, anche dei mesi precedenti e successivi, che si costruisce la libertà in Portogallo: ed è questo che rende forse universale, umanissima, tangibile, anche cinquant’anni dopo, la Rivoluzione dei Garofani.