di Gianfranco Ferraro (ITA_20_09_2021)
A tutti i bambini messinesi è capitato di ascoltare a bocca aperta, almeno una volta, la storia per cui, alla fine di ogni giorno, sarebbero in realtà i dirimpettai “calabrisi” a tirare la luna con i paranchi fuori dalle montagne. “Sunnu i calabrisi ‘ca tirunu”, avranno detto migliaia di zii ai loro nipoti. È una storia di cui, in effetti, si capisce il senso solo da questa parte parte dello Stretto (e, quindi, del mondo). Ricordo perfettamente come, da bambino, mi immaginavo queste ombre perdute lassù nell’Aspromonte – i “calabrisi” appunto – che, mentre io guardavo in silenzio la luna spuntare, si affaccendavano a tirarla fuori dalla montagna, trasformandola, da sfera pesantissima, in una specie di bolla di sapone che iniziava poi a lievitare senza sostegno alcuno. Ripensandoci da adulto, mi ha sempre colpito come il quotidiano miracolo con cui l’apparizione della debole luce lunare riesce a soppiantare l’angoscia ancestrale in cui gli uomini precipitano alla fine del giorno venisse ricondotta, da questa storia, alla fatica e al lavoro degli uomini. Per quanto sempre di un lavoro magico si tratti. Per quel brevissimo tempo d’infanzia in cui il credito verso la fantasia è maggiore di qualunque altro, i “calabresi” hanno assunto infatti agli occhi di generazioni di piccoli messinesi le sembianze misteriose e notturne di un “popolo della luna”, il cui unico scopo sulla terra è quello di appostarsi, ad ora convenuta, per tirare su dall’oscurità la debole palla lunare. Una storia simile, dal lato calabrese dello Stretto, prevede che il compito dei siciliani sia, dopo il tramonto – la Sicilia è, vista da Oriente, la terra del tramonto – quella di “quaddiari u suli” (tenere in caldo il Sole) in attesa del nuovo giorno. La divisione del lavoro magico dei popoli dello Stretto implica insomma uno scambio perfetto di fatica e lavoro, e una fiducia reciproca nel fatto che l’altro popolo compirà il suo dovere con gli astri esattamente quando deve. Non escludo che la storia di questo “patto” magico racconti anche dello strenuo tentativo compiuto per generazioni attraverso il mito per stemperare un poco di quella sottesa ostilità data dalla lotta quotidiana per il pescato, e forse, più semplicemente, da quell’insondabile timore provocato dallo stesso paesaggio – due linee di montagne sospese su un abisso di mare inquietante, lo Scill’e Cariddi, appunto, da cui viene tanto la vita quanto, casualmente, la sistematica distruzione – o dalla storia, se si ripensa alla quantità di eserciti e navigli invasori che, in un senso o nell’altro, hanno attraversato lo Stretto. Contraddicendo quotidianamente l’ostilità della natura e della storia, entrambe troppo spesso maligne, da queste parti, il “patto astrale” tra le due sponde dello Stretto racconta insomma di questa permanenza e persistenza del lavoro magico e del valore sociale, in grado di far comunicare a distanza gli uomini persino dov’è quasi impossibile attraverso la loro opera e la fatica che essa comporta. Una fatica comune, condivisa, in grado di muovere e di prendersi cura degli astri, che sarebbero destinati a rimanere sottoterra, se non fossero proprio gli uomini, sulle rive dello Stretto, a lavorarci intorno.