Francesco Valacchi [ITA_22/01/2021]
Nella storia della politica contemporanea un posto di rilievo è di certo occupato dagli eventi che occorsero nella Repubblica Popolare Cinese a partire dal 1964/65 anche se la storiografia delle date ufficiali ne fa risalire l’istante iniziale al maggio del 1966. Il fenomeno, conosciuto in cinese come 文化大革命 (Wenhua Dageming), ovvero Grande rivoluzione della cultura, fu un sommovimento sociale, culturale e istituzionale che ebbe una vasta serie di obiettivi volti all’estremo cambiamento di una società (struttura sociale) a partire dalla visione culturale: una serie di obiettivi che brillò per eterogeneità. Si volle anche, molto probabilmente e in alcuni momenti, scuotere la struttura del Partito per rafforzare il potere di certi leader e affossarne altri ma, comunque, nell’alveo dell’intenzione di rivoluzionare la cultura di un paese/continente, partendo dal peso che la cultura aveva presso la classe dirigente del Partito nel compito di gestire le sorti cinesi.
La miccia fu accesa con l’intento del sovvertimento e del ritorno ai valori primari della rivoluzione comunista, con l’obiettivo di colpire l’establishment prima di una sua definitiva sclerotizzazione nell’assumere derive totalitarie che probabilmente Mao ed il gruppo della Rivoluzione culturale temevano, in quanto lo avevano visto verificarsi in Unione Sovietica.[1] Il progetto era quello di evitare il processo di involuzione sociale che sembrava condannare la rivoluzione cinese (attraverso la burocratizzazione) alla nascita di una futura borghesia dedita alla stabilità capitalistica e quindi con l’intenzione di fermare la controrivoluzione o di mantenere vivo il progresso rivoluzionario. Non bisogna dimenticare la visione di Mao Zedong e del suo fedelissimo Chen Boda nel considerare le contraddizioni interne alle classi e gli scontri fra classi sociali e fazioni di esse come il motore dello sviluppo e dell’evoluzione e, pertanto, come l’ingrediente necessario ad ottenere quello sviluppo economico che il Partito perseguiva quantomeno dal 1 ottobre 1949. Proprio Chen nel 1966 arrivò a paragonare le intenzioni e la realizzazione delle istanze delle Guardie Rosse (le milizie della Rivoluzione culturale) all’esperimento della Comune di Parigi, ma con un impatto ancora più profondo sulle coscienze del proletariato internazionale.[2] Forse proprio sulla profondità con la quale venne percepito il movimento delle Guardie rosse internazionalmente e non solo in Cina è opportuno far luce per comprendere il senso del fenomeno e la sua attuale opportunità. Rossana Rossanda nel 1968 sosteneva che nelle occupazioni e esperienze di contestazione studentesca si trovava sempre più spesso:
qualche cosa della rivoluzione culturale, piuttosto “sentita” immediatamente – il suo peso è, certo, determinante – che studiata; […]. Ma, come vedremo, il rapporto con i testi, anche quelli rivoluzionari, è bruciante e allusivo, ha poco a che fare con lo studio e la discussione e la citazione (di qui la scarsa fortuna dei gruppi “marxisti-leninisti”, nonostante la straordinaria fortuna della rivoluzione culturale), ma piuttosto con una adesione immediata all’essere e al fare, modi di riconoscersi e indicazione per la lotta, a costo – anzi, in grazia – di certe semplificazioni altrettanto manichee quanto mobilitatrici.[3]
La tesi di Rossanda era così motivata in nome degli stimoli che la prassi rivoluzionaria riusciva a dare a centinaia di migliaia di giovani cinesi ormai d’esempio anche in Europa e in America. Con il suo appello a <<sparare sul quartier generale>> il Grande Timoniere (Mao) scosse, certo anche con l’intento tattico di ottenere vantaggi di posizione politica all’interno del Partito, le coscienze di tanti che si pensavano ormai assorbiti da un “senso comune” sempre più filo-capitalista. Venne scalfita la razionalità della struttura sociale capitalista se una “innocua” nave cinese approdata a Genova ad agosto del 1967 ( la “Li Ming”) venne messa in quartantena dall’autorità portuale non per una infezione virale a bordo, ma semplicemente perché esponeva striscioni con proclami del tipo:
Sollevare una pietra per poi lasciarsela ricadere sui piedi, dice un proverbio cinese per definire il modo di agire di certi stupidi. I reazionari di ogni paese appartengono a questa categoria di stupidi.[4]
Si voleva assolutamente impedire il contatto con i portatori delle idee del Libretto rosso. Michelangelo Antonioni nel breve narrato del suo documentario Chung Kuo (trascrizione superata dall’attuale forma pinyin di 中国, Cina), girato pochi anni dopo il termine della Rivoluzione culturale, affermava che:
La Rivoluzione culturale aveva sconvolto i sistemi di produzione, aveva dato la precedenza alla fedeltà politica più che alla competenza. Ora l’efficienza appare di nuovo come una meta da raggiungere pur senza rendere disumano il lavoro.[5]
Forse Antonioni raccoglie in questi pochi secondi l’immagine che l’evento storico poteva aver impresso nell’opinione pubblica comune non fuorviata dalla pur forte propaganda politica legata ai “valori” del mondo occidentale. Un’enorme sommossa che aveva ribaltato l’obiettivo dell’organizzazione del lavoro: non più l’efficientamento ai fini di accumulazione del profitto, quanto al contrario l’accordo ai valori politici, intransigente sino all’irrazionalità. A ben vedere si tratta di una contraddizione in sé, almeno per la cultura moderna occidentale: “disumanizzare il lavoro” (così dice Antonioni) non per il sacro e razionale profitto quanto per il supremo fine ideologico (politico). Una contraddizione impossibile da sanare se si voleva mantenere la centralità del pensiero occidentale e incomprensibile se si rinunciava a percepire il primo obiettivo dell’attacco rivoluzionario (pur ben chiarito nella definizione del fenomeno): la cultura nella sua accezione più generale.
Una delle stestimonianze più dirette giunte in occidente è quella di John Collier dalle colonne di “New Left Review”. L’autore già nel 1968 tracciava la cronaca del fenomeno della Rivoluzione culturale dalle campagne della Cina comunista proprio dove si compivano le estreme conseguenze come le deportazioni per la rieducazione di quadri e dirigenti.[6] Si trattava di un racconto eccezionale, di una visione embedded di quando e come avveniva l’attacco alla sovrastruttura culturale deviata, al sistema che diveniva sclerotizzato e al solo sospetto della corsa al capitale, come in una utopia assoluta.
Certo molti in occidente (per esorcizzare il fantasma dei rossi smagriti e ossessionati dalla Rivoluzione del modo di pensare) si affrettarono alla condanna su basi morali della disfatta dei valori di riferimento europei e americani (occidentali insomma): la crescita del PIL, l’acquisto dei beni di consumo e le politiche del benessere occidentale contrapposte alla terribile e disumana politica di controllo sociale di Pechino (barbara peraltro, è vero). E quindi il fenomeno è rappresentato da molta stampa ancora come un barbaro decadimento ma non da diversi sinologi e storici che quantomeno la considerano essenzialmente con sguardo ancora interrogativo, come ben rappresentato dall’intervista a Jean-Luc Domenach su “FigaroVox” dell’attenta Eléonore de Vulpillieres,[7] ma soprattutto come un qualcosa di inedito e forse ancora ineguagliato nei numeri e nella portata nel panorama politico: un sommovimento dal fine culturale, filosofico e politico che volle far leva principalmente sulla cultura delle masse e giunse a far interrogare il mondo intero quantomeno sulla possibilità delle direzioni da prendere.
Resta da contestualizzare e da vedere quale sia stato l’impatto della Rivoluzione culturale sul panorama politico sociale cinese di allora e da compiere l’inverso, eretico e per molti utopico processo: quale sarebbe il senso dell’attualizzazione della Rivoluzione culturale.
La Cina con le sue istituzioni, il Partito Cominista Cinese (PCC), i decisori politici e anche la stragrande maggioranza del popolo cinese ne uscirono stravolti. Coloro che seppero fare ammenda della loro reale o anche solo pretesa deriva capitalista fuorono riabilitati e molti, fortificati dall’esperienza, costituirono la spina dorsale del PCC che ha portato la Cina a subentrare al ciclo statunitense e la porterà molto presto ad assurgere prima potenza (almeno economica) mondiale. Deng Xiaoping e Jiang Zemin sono fra gli esempi più famosi di dirigenti del PCC colpiti, rieducati e riammessi ai vertici, vittime e beneficiari di una violenta pedagogia delle masse. Al contempo l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) assunse un ruolo perno che conserva senza dubbio ancora ai giorni nostri: la garanzia di legittimità e fedeltà alla dirigenza politica del PCC, assunta in cambio di un tacito contratto, pur accennato nel Preambolo della Costituzione del 1982,[8] che vede affiancati popolo e Forze armate nel compito della difesa della nazione e della salvaguardia della sua sovranità. Si tratta essenzialmente di un sacro contratto inficiato solo dai tremendi fatti del 1989 a Pechino e corroborato dalla Costituzione del PCC. La figura di garante dell’ordine, al di là degli eccessi, venne declinata e dipinta proprio grazie al ruolo che ebbe l’esercito di milizia nel ristabilire l’ordine al termine del sommovimento.
Nonostante però il suo peso in Cina e all’estero la pagina della Rivoluzione culturale è stata rimossa per lungo periodo dalla narrativa del PCC e dall’immaginario cinese (e lo è anche oggi),[9] forse proprio perché la dirigenza teme un’improvvida evocazione della Rivoluzione a spese del Partito odierno. L’attualità della narrativa ufficiale del Partito in Cina ha quasi completamente cancellato (ad eccezione di rarissimi addetti ai lavori) gli eventi della Rivoluzione. Pur sostenendo la figura di Mao e del grande lavoro di contestualizzazione ancora necessario dal punto di vista storico, rimane forse un solo dato certo: l’incommensurabilità della scienza politica cinese ai nostri occhi di occidentali.
Giunti al punto di considerare l’esaminata utopia e le sue categorie incommensurabili per il “senso comune” occidentale non resta altro che portarne il paradigma al qui e ora per comprenderne ulteriormente l’aspetto completamente rivoluzionario e attuale. La contingenza dell’emergenza sanitaria ha chiaramente messo in luce l’infima importanza concessa alla dimensione culturale sociale: in tutta Europa comitati di volenterosi legislatori o sedicenti esperti (tecnici medici e biologi) prima di ogni altro provvedimento si sono preoccupati di azzerare le funzioni educative e culturali, pur mantenendo alta la produttività industriale e commerciale. E’ paradossale ma indicativo ad esempio che non sia stato mosso un singolo passo nella direzione di una comune ripresa dell’istruzione a livello europeo e che i prodotti di condivisione culturale (cinema e teatri ad esempio) siano stati azzerati senza troppi ragionamenti. L’ortodossia dei Trattati è, di nuovo, lo spaventapasseri che blocca ogni visionarietà e chiude ogni finestra sul futuro, dando voce ai populismi di vario genere mentre sarebbe opportuno, proprio adesso, in una condizione di emergenza, concedere più spazio alle politiche dell’Unione Europea al fine di ottenere una pronta comune risposta anche all’emergenza sanitaria.
Intanto il palcoscenico post-globale aveva già dimostrato, in maniera incontrovertibile, con le emergenze climatica, dell’immigrazione, economica e sanitaria verso il basso che la forma/stato ha quasi raggiunto il capolinea della sua vita tecnica e che, di conseguenza, molte organizzazioni internazionali basate sul consesso delle rappresentanze statali (verso l’alto) sono solo paradossali e risibili rappresentazioni di quello che potevano essere sino ai primi anni Duemila. La penosa prova data dalle Nazioni Unite e dalle sue subalterne agenzie nell’ultimo decennio sulle tematiche sopra citate è purtroppo eloquente (in particolre nell’amorfa gestione dell’emergenza climatica e dell’emergenza terroristica internazionale scaturita anche nel sedicente Stato islamico). Nel contempo le organizzazioni governative regionali o intermedie (Unione Europea, ASEAN, Partito Comunista Cinese, OCS e OPEC ad esempio) sembrano davvero aver fatto il salto di qualità, globalizzando i loro mezzi e i loro fini, dimostrando di essere fra le autorità politiche in grado di affrontare la situazione contingente. Da tutto ciò la cultura e la percezione di massa sono spesso esenti, cristallizzate nell’eterno presente della realtà nazionale o internazionale.
Davanti a tanto è necessario, prima di qualsiasi cambiamento politico e di ordinamento sociale, il passo di una Rivoluzione di percezione delle scienze sociali che dia più vita allo studio di realtà ibride e inconsuete del panorama post-globale, come già avviene in ambiente accademico e ne diffonda la percezione (critica) verso la cultura di massa e dentro il “senso comune”. Una vera e propria Rivoluzione culturale per attaccare la sclerotizzazione della cultura di massa nella forma “statale versus internazionale” e per cercare di imporre quantomeno una competenza politica e sociale di questi temi nel “senso comune”, nella cultura di massa riguardo tutto ciò che è nuovo.
La cultura della competenza e dell’approccio critico infatti altro non sono che l’antidoto al populismo, radicato nella pseudo-cultura del <<non so, non capisco, ci stanno prendendo in giro e non m’interessa>> tanto attaccato ad un’arida disciplina scientifica occidentale e la creazione di cultura che passa attraverso le scienze sociali.
Proprio questa è la Rivoluzione culturale che forse oggi andrebbe riproposta: l’elemento di rottura ed evoluzione rispetto alla stagnazione del presente, la rivoluzione della comprensione della realtà a partire dalla cultura dello spazio sociale e regionale che travalica il concetto di stato/nazione ma si ritrova nell’identà di essere biologico in relazione con altri esseri biologici come agenti sociali, come ha definito Pierre Bourdieu.[10]
Si tratta di una vera Rivoluzione che sarebbe opportuna in tutto l’occidente e che mira al riposizionamento al centro della cultura e della politica delle scienze sociali attuali e soprattutto quelle ancora da inventare.
Note:
[1] Cfr. A. Saich, La ricerca di una forma idonea: lo stato socialista dopo il 1949, in (a cura di) M. Scarpari e G. Samarani, La Cina III. Verso la modernità, Torino, Einaudi, 2009, p.150.
[2] Cfr. P. M. Thornton, The Cultural Revolution as a Crisis of Representation, in « The China Quarterly » n. 227 settembre 2016, pp. 697-717.
[3] Cit. R Rossanda, L’anno degli studenti, De Donato, Bari, 1968, p.28.
[4] Cit. Riccardo Degl’Innocenti, A bordo della storia, in “Il Sexolo XIX” 6 giugno 2008, consultato on-line a: https://www.ilsecoloxix.it/cultura-e-spettacoli/2008/06/06/news/a-bordo-della-storia-1.33416976 il 2 gennaio 2021.
[5] Cit. M. Antonioni, Chung Kuo, Cina, puntata 1, Roma, RAI, 1973 miuti 6:07-6:21.
[6] Cfr. J. Collier, The Cultural Revolution in Canton (part I), in “New Left Review” vol. 1 n. 48 marzo-aprile 1968, pp. 87-104.
[7] Cfr. Eléonore de Vulpillieres, Jean-Luc Domenach: «La Révolution culturelle reste encore un tabou en Chine», in « FigaroVox » 20 maggio 2016, consultato on-line al link: https://www.lefigaro.fr/vox/histoire/2016/05/20/31005-20160520ARTFIG00045-jean-luc-domenach-la-revolution-culturelle-reste-encore-un-tabou-en-chine.php il 2 gennaio 2021.
[8] Per una sintetica consultazione on-line del testo è sufficiente vedere la traduzione inglese condivisa on-line https://china.usc.edu/constitution-peoples-republic-china-1982
[9] Cfr. Sofia Graziani, La Cina e la perdita della memoria storica, in “Unitrento Mag” 24 settembre 2018, consultato on-line al link: https://webmagazine.unitn.it/internazionale/45960/la-cina-e-la-perdita-della-memoria-storica il 2 gennaio 2021; per un colpo d’occhio completo si può anche effettuare una ricerca fra le pubblicazioni del sito principale dell’Istituto di studi del governo cinese “Chinese Academy pf Social Sciences”: http://casseng.cssn.cn/research/research_publications/research_journals/index_5.shtml .
[10] Cfr. D. Reed-Danahay, Bourdieu, Social Space, and the Nation-State. Implications for Migration Studies, in “Sociologica” vol. 2 maggio-agosto 2017, pp. 1-22.