[La redazione di Thomas Project riprende la recensione uscita su “il manifesto” di Adelino Zanini al volume «Il lavoro e le macchine» di Raniero Panzieri, curato da Andrea Cengia per la casa editrice ombre corte]
ADELINO ZANINI [ITA_10.06.2020]
Scaffale. «Il lavoro e le macchine» di Raniero Panzieri, per ombre corte. Molti i temi in esame. Tra questi, la critica allo stalinismo e la peculiare analisi del rapporto fra il testo marxiano e le lotte, i «Quaderni rossi», le differenze teoriche con Mario Tronti e il lancio di nuove riviste
Sarebbe persino difficile riuscire a sottovalutare l’importanza di Raniero Panzieri, di cui l’editore ombre corte ripropone alcuni dei testi più significativi, introdotti e curati da Andrea Cengia. Difficile, anzitutto, per la storia del militante socialista morandiano, tra condizione bracciantile del sud e nuova classe operaia torinese: militante e intellettuale con un ruolo di spicco nel dibattito della cosiddetta stagione delle riviste, tra anni ’50 e ’60 del Novecento.
DIFFICILE, POI, per l’influente riflessione teorica espressa da Panzieri, tramite, soprattutto, quella fucina che furono i Quaderni rossi. Grazie a essi prese forma, non a caso, un’interpretazione più che peculiare del rapporto fra testo marxiano e lotte operaie. «Sapere operaio», si sarebbe detto. Dunque, operaismo, ma anche molto altro, basti ricordare studiosi e studiose che in quella fucina si formarono, senz’essere né allora, né poi, operaisti/e. Di qui il tanto discusso tema dell’eredità teorica di Panzieri, prima e dopo la frattura seguita agli eventi torinesi del luglio 1962, quando il tema della «autonomia operaia» esplose e s’impose, rompendo ogni criterio di mediazione politica e sindacale.
Di tutto ciò rende conto Cengia nell’introduzione che precede i testi raccolti in Il lavoro e le macchine. Critica dell’uso capitalistico della tecnologia (pp. 106, euro 10) sostenendo essere il gesto teorico-politico di Raniero Panzieri un punto di riferimento valorizzabile anche nella contemporaneità. Egli sceglie perciò di premettere ai testi canonici sulla macchine l’articolo dedicato al P.c.u.s.s. e la via italiana, perché dalla presa di distanza seguita ai fatti del 1956 si ricaverebbe non solo «l’alto valore democratico dell’impostazione politica e teorica di Panzieri», conseguente a un’uscita da sinistra dallo stalinismo, ma anche lo «straordinario tentativo di riproporre una prospettiva marxiana all’indomani degli eventi del XX Congresso».
DI UN’INTERPRETAZIONE di Marx al di là dei marxismi si trattava. Ciò che, dentro i Quaderni rossi, Panzieri non sarà il solo a proporre, però. Dunque, la differenza teorica con Mario Tronti, lo sfaldarsi del gruppo redazionale, la fondazione di nuove riviste, tanto effimere, quanto influenti, la ridefinizione di nuove «linee» di ricerca, etc. Insomma, la vicenda narrata mille volte nel tentativo di definire il punto di fusione effettivo a seguito del quale vi fu la prima diaspora operaista – fermo restando «un legame genetico difficilmente cancellabile» nei confronti di Panzieri, sottolinea Cengia.
Un legame che deriva, di certo, dall’aver Panzieri attentamente indagato il rapporto osmotico tra processo lavorativo e processo di valorizzazione, quindi dall’aver posto la sussunzione reale in relazione non tanto alla forza lavoro, ma alla forza lavoro come classe operaia. Il primato che a essa attribuiva Tronti, indubbiamente, si spingeva molto oltre, sino a farne un «concetto» politico – da cui derivò la nota differenza/rottura. Ma a dispetto di ciò, come ricorda lo stesso Cengia, rimanevano affinità significative. La classe operaia era comunque il punto di partenza, anche per Panzieri; diversamente, il ragionamento sulle macchine e sul neocapitalismo non avrebbe rappresentato l’intera sua potenza innovativa.
QUANDO in Plusvalore e pianificazione Panzieri afferma che «solo limite allo sviluppo del capitale non è il capitale stesso, ma la resistenza della classe operaia», non è molto lontano dal sostenere, al pari di Tronti, che «la classe operaia dentro il capitalismo è l’unica contraddizione insolubile del capitalismo stesso». E questo vuole dire non solo rileggere Marx, ma farlo alla luce del significato politico del salario relativo, «perché la forza eversiva della classe operaia – scrive Panzieri – si presenta più forte precisamente nei ‘punti in sviluppo’ del capitalismo», ove la scienza s’incarna in capitale fisso: macchinario. In breve, se «legame genetico» vi fu, fu questo; non per nulla lì s’espresse la differenza/rottura: sui tempi della politica e sulla forme dell’organizzazione.
Detto ciò, ricavare da qui, da questa differenza, l’attualizzazione della «ipotesi politica, organizzativa e teorica» di Panzieri (con implicita «soluzione» della querelle circa il rapporto tra Grundrisse e Das Kapital), come suggerito da Cengia, mi pare essere molto problematico. Non solo perché è del tutto fuori luogo dire che dopo Panzieri la riflessione critica sulle macchine e la non neutralità della scienza è stata accantonata, ma anche perché il «discorso» di Panzieri presupponeva un’indiscutibile centralità operaia oggi impensabile. E allora è giusto considerare Panzieri ben lungi dalle sirene del general intellect, dell’individuo sociale, eccetera, purché non si pretenda di reinventare, fuori tempo massimo, un «altro» concetto di classe operaia, da brandire nell’odierno agone teorico.
Nella foto: Joyce Lussu con Pietro Nenni e Raniero Panzieri (Palermo, 1951, autore sconosciuto)