CRONACHE DELL’ALTRO MONDO (3)

[Gianfranco Ferraro, ITA, 13.10.16]

Non farti distrarre, Visitatore. Rimarrà pochissimo di questi passi, così è stato deciso, e così è: lo so io ed è meglio che tu lo sappia subito, Visitatore. Che rimarrà poco o nulla.

Arrivi nel Convento di São Bento il secondo giorno. Si sale al Convento con un moderno ascensore d’acciaio prodotto da Schindler o da qualche azienda tedesca rinomata nel settore. Ti accoglie in basso, all’entrata, dentro una stanza tutta bianca illuminata da un neon anch’esso bianco la figura in completo nero di un Guardiano del Convento. Il Guardiano ti guarda appena e risponde solo se lo saluti. Il Guardiano è seduto alla sua scrivania, perfettamente vestito con il vestito buono di tutti i guardiani. Il Guardiano vi indica l’ultimo ascensore, e ricomincia ad armeggiare col cellulare. Non c’è nient’altro, nella grande stanza bianca da cui si sale al Convento: se non il cellulare, la scrivania, il Guardiano. All’uscita dell’ascensore, la chiesa del Convento di São Bento è aperta al Visitatore. C’è la Santa Messa. Gli ori con cui sono interamente ricoperti gli interni stonano con la vocina del prete e con la chitarra che canta la quotidiana gloria a Dio. A ogni epoca, le sue glorie, questo pensa il Visitatore venuto da lontano, e che sa di poter restare sul suolo brasiliano al massimo altri due mesi, esattamente come qualunque visitatore brasiliano può rimanere al massimo tre mesi dalle sue parti, pena diventare “clandestino”. Il Visitatore non diventerà clandestino. Non stavolta, per lo meno. Pensa guardando gli ori che ricoprono la chiesa dei Benedettini e ascoltando la vocina del Prete. Ma pensa anche che i Monaci benedettini scelgono bene i loro avamposti. Lontano da tutto, ancora oggi, con il Guardiano seduto alla scrivania a vigilare, e l’ascensore in acciaio, e le macchine di lusso nel cortile interno, il Convento di São Bento domina la Baia di Rio – la Bahía come dicono da queste parti – dal lontano 1590. I portoghesi erano arrivati da queste parti da appena novant’anni, e ingannati dall’ampio bacino marittimo che si insinua dentro la terra, allora piena di foreste, lo avevano preso per la foce di un fiume. Un fiume come quelli che ci sono più a Nord, sopra Recife, Salvador, dove i venti avevano spinto Cabral e chissà quanti altri prima, forse prima ancora di Colombo.

Si arriva a Rio nel pomeriggio, ma è ormai quasi buio. In autobus da São Paulo sono sei ore, sulla rodovia Presidente Dutra, attraversando paesaggi verdi, fazendas, mucche al pascolo. Rio la vediamo sorgere, al contrario dei primi portoghesi, dall’interno. Non è la terra che abbiamo sperato, ma è il mare. È il mare che il Visitatore spera. Non vede mare da settimane. A San Paolo gli mancava questo, lo sbocco a mare. Dove finisce la città, appunto. Nella megalopoli non finisce mai. È la stessa sensazione che hai a Madrid, Milano, Berlino: queste immense distese di cemento senza sbocco, senza fine. Come se gli uomini potessero vivere senza limite, questo ci fanno credere gli urbanisti delle megalopoli di questa epoca infelice. Andare da San Paolo a Rio è cercare il mare. E il mare infatti lo vedi, il secondo giorno, dietro la curva di palazzi disegnata intorno a Copacabana. Lo cerchi, il mare,a ogni punto di quell’autostrada che non è neanche un’autostrada: due città di venti e di sette milioni di abitanti collegate appena da una striscia di asfalto a due corsie che si allunga nell’interno, scendendo dal grande altopiano paulista. Ai lati gruppetti di pellegrini diretti al Santuario di Nossa Senhora da Aparecida, la Vergine nera patrona del Brasile, che si festeggia proprio oggi, quando si festeggiano anche i Bambini. I bambini, il Brasile, la Vergine nera Aparecida, il 12 ottobre. Giorno della “scoperta” delle Americhe, come si dice dall’altro lato del mare, giorno in cui un gruppo di barconi di legno guidati da un invasato genovese tocca finalmente un’isoletta dei Caraibi secoli e secoli fa. Poi i barconi hanno cominciato a scendere, ed eccoci qui. Ecco i Visitatori a centinaia, a migliaia, a milioni. Eccoti, Visitatore.

Nell’ultimo centinaio di chilometri la strada si restringe ancora di più e comincia a curvare, il pulmann rallenta, l’altopiano dirada verso il mare. Rio appare con le case sgarrupate di qualunque città del sud, file di muri incompiuti, mattoni forati a vista, fili di ferro che spuntano dal cemento, macchine in ogni direzione, traffico, il tizio che vende caldo de cana, lo sciroppo di zucchero che all’Amico del Visitatore fa venire il voltastomaco, i lenzuoli stesi, si affitta una casa, il pulmann si ferma, poi riparte, si riferma, il tizio che vende pannocchie lesse, con il sale e i burro, la tizia in bikini che vende acqua, i bambini, la madre dei bambini, la sorella che grida, le case senza senso, senza compimento, la strada, la periferia, il posto dei giornali. Caldo, vento umido. Arrivi a Rio dalla periferia. Ma già hai scoperto, Visitatore, che non esiste nient’altro che periferia da queste parti, tutto si perde nelle periferie e spostarsi significa attraversare la debola sfumatura tra una periferia e un’altra, tra una periferia ricca e una povera. Ognuno pensa di vivere al centro, e viviamo invece alla periferia di qualcosa, in quest’epoca. Le periferie sono collegate da bus che vanno chissà dove. Non ci sono treni in Brasile: ci sono autobus che vanno dovunque. E tassisti.

Il Tassista Pazzo accompagna i Visitatori dalla Rodoviaria fino alla Casa dove i Visitatori abiteranno, a Copacabana. Nessuno aveva detto che il Tassista Pazzo, accreditato presso il bancone della Stazione degli autobus, esattamente come il Tassista Pazzo di Uber, o come qualunque altro Tassista Pazzo della città di Rio, non sapeva esattamente dov’era Copacabana, e non sapeva come arrivare alla Casa dei Visitatori, dopo aver sfrecciato a 90 all’ora nel traffico. Nessuno lo aveva detto, ed è già buio fondo quando il Tassista Pazzo lascia i Visitatori ad attendere davanti al portone in ferro, sperando che si materializzi Fatima. Sulla strada semideserta il supermercato sta per chiudere, il bar invece è ancora aperto, il ragazzo corre con lo skate, l’autobus passa, è buio fondo, il tempo passa e Fatima non arriva, come invece arriva la ragazza che sorride, il vecchio imbronciato, l’uomo con la ventiquattrore. Il tempo passa e i Visitatori non sanno dov’è il mare, in mezzo alla fila di palazzi che nascono, il mare della Baia di Copacabana. I Visitatori non sanno chi aspettare, e quando proprio se lo chiedono, che non sanno chi sia, in fondo, Fatima, è allora che compare la Vecchina che parla tra sé e sé, e che mentre parla tra sé e sé prova le chiavi una ad una del portone, e parla della pubblicità e di come finalmente stia arrivando la Festa dell’Aparecida e ci sarà la Grande Messa e il Coro in cui lei canta nella Chiesa della Resurrecção. Proprio lì vicino, e che i Visitatori sono invitati, se sono cattolici, ma anche se sono cattolici, perché il Coro è bello veramente, e ne vale la pena, e lascia in mano al Visitatore un depliant del supermercato, giusto per provare le chiavi una ad una, la Vecchina che parla tra sé e sé. Sarà il Visitatore a chiederle se è la irmã di Fatima, la sorella di Fatima, e solo allora la Vecchina risponderà che sì, chi altri dovrebbe essere, nella via semideserta, una Vecchina, in uno dei Bairros più tranquilli dell’Antica Capitale imperiale, mentre tenta di aprire il portone a due sconosciuti?

Dal Convento di São Bento il Visitatore si immagina come doveva apparire il mare, da lassù, ai primi portoghesi che da lì a poco avrebbero costruito la città, lasciando anche la Chiesa di São Francisco di Paula, Santo degli attraversamenti, arrivato miracolosamente proprio in quell’epoca, a bordo del suo mantello, dall’altra parte dello Stretto di Messina. Cosa che nulla ha a che vedere con la folta comunità calabrese che oggi popola Rio, pensa il Visitatore, guardando la Baia, anzi la Bahia, come la chiamano loro, anche se il destino delle città riserva strane sorprese. Il Monaco con la Barba, uno di quei Monaci che possono avere ottanta come quattrocento anni, pensa il Visitatore, si nasconde subito alla vista, quando occhi indiscreti insistono oltre le mura del grande convento di São Bento. Da cui finalmente si vede l’acqua. Il Visitatore la sente incombere, non c’è nulla da fare, Sulla città. Come la sentiva incombere la sera prima, e all’arrivo. Qualcosa di più grande della città stessa. Il vero confine della città, il limite, lo sbocco che il Visitatore ha sperato, dopo aver attraversato la rodovia Presidente Dutra. Vede dall’altra parte Niterói, la città dall’altra parte dello Stretto, della Baia cioè, che il Visitatore ha cercato per un impulso antico, automatico. Dall’altra parte dev’esserci qualcosa. Niterói, come gli indigeni chiamavano questi posti, Rio, come lo chiamavano i colonizzatori, come racconta Hans Standen, il tedesco finito tra i cannibali che popolavano queste zone.

Il limite. Questo hanno i posti di mare. Deve averlo pensato, il Visitatore, quando i tedeschi hanno voluto ammutolire la nazionale brasiliana 7-1, al Mundial di qualche hanno prima. “Qualcosa che almeno due generazioni di brasiliani ricorderanno” ha detto un’amica ai due Visitatori, tanto da inventarsi tutta una serie di barzellette per rimuovere, scongiurare, l’impatto di quella catastrofe. “Anche se si sono limitati anche i tedeschi, come invece non avrebbero fatto i brasiliani al loro posto” questo aggiungono i brasiliani avvertiti. Perché dimentica, il Visitatore, forse, che il Brasile non è il mare, che non è per nulla mare, che il mare è una linea di costa di un continente immane. Che è solo il confine, che è solo ciò che apre, o ciò che chiude, è solo l’incrocio di punti di vista che all’Europeo danno vertigine, perché ciò che si chiude alle spalle, alle spalle dei primi Bandeirantes che risalivano i fiumi verso l’interno, fondando avamposti, cercando oro, seminando terrore, è ben maggiore. È la linea della speranza perduta per sempre, per milioni di schiavi, portati anche loro dall’altra parte del mare, e dove tutto andava ricostruito dal nulla. Dove solo si è potuto resistere, per secoli, col nulla che si aveva: la vita, solo la vita. La linea di costa è il confine tra la vita che abbandoni e la vita che trovi, la disperazione più cieca o la speranza: così è stato per milioni di uomini e donne, quando hanno visto questa Baia, Visitatore. E quando hanno guardato il mare, come lo guardi tu, Visitatore, hanno visto i mesi di navigazione: gli schiavi gli affetti e le terre perdute, gli emigranti la miseria delle province calabresi, o venete, o alentejane.

Visitatore, non farti distrarre. È stato anche il punto in cui i nativi hanno visto arrivare le mercanzie, le armi, i barconi di legni, sempre di più. La stessa baia, immaginátela, Visitatore. Sembra la foce del Tago. E sembra Lisboa, Rio, ecco cosa sembra. E Niterói dall’altra parte, Cacilhas. Ecco Visitatore, non ti distrarre, come sempre hai fatto, e guardati intorno, guarda la Baia, la cosa, per una volta. Sembra mare, il Tago, a Lisboa. E sembra fiume, la Baia di Rio. Rio è mare, ed è stata capitale. Lo è forse ancora. Capitale di un altro tempo, quando la Corona portoghese si è spostata qui per sfuggire alle armate di Napoleone. Ecco cosa doveva essere, Rio, per dom João e la sua Corte. Retrovia del grande Impero Portoghese: muoia Lisbona, devono aver pensato, come ha pensò lo zar di Russia appena un decennio dopo, lasciando Mosca. Ma la retrovia del Portogallo era dall’altra parte dell’Oceano, e le cose andarono diversamente. Troppo grande per quella Madrepatria che poteva al più essere ormai una sua provincia. Troppo ricchi i suoi possidenti, troppo eterogenei, per essere ancora portoghesi. Il Brasile diventa un impero, il primo impero americano venuto da fuori.

Ma sei sciocco, Visitatore, se non capisci cosa sia la nostalgia.
Perché se vedi Rio, capisci quanto dev’essere mancata Lisbona, ai primi Visitatori. E Genova, Barcelona, Napoli, Instambul. Le coste francesi. E le coste africane. Dev’essere stata questa, la mancanza, la condizione di quella vita. Non la madre, non gli affetti, direttamente, ma l’accesso al Tago, il vecchio faro, la costa che dopo Caparica si addolcisce e scende. Oppure le Azzorre, Capo Verde e poi l’Algarve, risalendo. In quanti avranno gridato “terra”, al contrario, tornando. Ci immaginiamo quel grido solo come spinto in avanti, come spinto verso la terra da cui il Visitatore ora guarda, come urlo perduto del progresso dell’umanità: e non, ora che il progresso ha dato quello che aveva, una distesa incontaminata di cemento e asfalto, un momento all’indietro. “Terra”. La nostalgia come sentimento umano, necessario. Come ritrovare altrove ciò che si è perduto, e nuovo, e completamente nuovo. Che scompagina l’anima. L’anima del contadino di Marcellinara, nel racconto di De Martino, che una volta riportato al paese natio, finalmente, scende dall’auto e corre avanti senza più voltarsi.

La conquista rischia di diventare agli occhi del Visitatore il prodotto di una immane, omicida nostalgia. Il dolore per quello che si è perso e ritrovato, la fatica di ritrovare, di inventare daccapo e di nuovo. Le case di Minas Gerais costruite come i piccoli paesi del Minho, l’aldeia del Parà dove si celebra la più grande Oktoberfest dopo Monaco,la Pizzaria, dove il Visitatore ha ritrovato il Vesuvio e Pullecenella, i Padres Santos, che ogni buon brasiliano consulta, ad ora segreta, credendoci, come ha creduto un padre africano anonimo e insieme indimenticato. Ognuno ha portato qui la sua nostalgia. Sono queste nostalgie che scorrono nelle strade, dentro le metropolitane, nelle sfumature di pelle. Corrono, queste nostalgie, cercando un ritorno che non c’è, volti che a un certo punto diventa impossibile ricordare, melodie, voci. È la nostalgia che ti áncora qui, dove sei, che è dove sei tu, alla fine, sia che tu abiti sotto il viadotto accanto al vecchio palazzo delle poste, sia che tu abiti qui, nel palazzo di fronte al mio. Puoi ritornare dove ancora non sei stato: come fa la classe media brasiliana chiedendosi reciprocamente il pedigree. Come ha fatto più semplicemente il Vecchio Commerciante che ha venduto al Visitatore il regalino che il Visitatore ha comprato per nostalgia d’amore: dicendogli di essere italiano per quattro quarti. Calabrese e romano, il Vecchio Commerciante di Praça da Republica. È la violenza di questa nostalgia, la violenza che ogni nostalgia ha con sé, che fa il Brasile. Se gratti sotto il falso, l’acquisto, le compere, forse le trovi. La disperazione che questo tempo non riesce a redimere. Tutto è inganno, è marchingegno per rendere innocua la separazione, meno dolorosa l’assenza irrimediabile. Solo il Dio sciocco che veneriamo oggi non lo capisce, pensa il Visitatore. Eppure, hai scoperto la deriva dei continenti da bambino, Visitatore. Dev’essere stato piuttosto intuitivo, come giocare con le costruzioni, in fondo: la punta di Recife e Fortaleza s’incastra perfettamente dentro il Golfo di Guinea. Il gioco è fatto. Milioni di anni di nostalgia, ecco il trauma della terra, il trauma che qui si gioca, in questa baia, visitatore. Anche questa nostalgia della terra, questa nostalgia delle placche tettoniche che si spostano infischiandosene del destino degli uomini e della storia, anche questa nostalgia senza storia, questa nostalgia dei vulcani e dei mari, si dev’essere giocata qui. E si gioca nella tua di nostalgia, Visitatore, mentre guardi la Baia di Rio dal monastero di São Bento. O mentre ti siedi a guardare il mare a Ipanema.