di Gianfranco Ferraro (ITA_20.05.2020)
C’è una idea della ricerca che viene da lontano e che ha nell’illuminismo e nel metodo sperimentale della scienza moderna le sue origini. Una idea che, a conti fatti, sembra essere del tutto minoritaria: quella per cui la “comunità scientifica” è e deve continuare a essere, per statuto, e ancor più in una situazione nuova e sconosciuta, una messa in comune – pubblica e aperta – di dubbi e di ricerche.
La spettacolarizzazione della ricerca, la trasformazione di virologi ed epidemiologi in “vedettes”, ha di fondo offerto della “comunità scientifica” l’apparenza di un blocco monolitico, a cui si chiede ciò che la scienza moderna, a meno di non rinunciare al suo fondamento critico, non può dare: ovvero una forma di “salvezza”. Una cura per i corpi e per l'”anima”, ridotta ormai – attraverso la paura – a semplice accessorio del corpo. La società è stata ridotta a “società pandemica”: da qui la necessità di un nuovo sovrano in grado di governarla. Alla “comunità scientifica” si è così chiesto di occupare quel posto che i teologi occupavano nella società quando i dogmi della teologia erano fonte di diritto e di politica. Nel mezzo della pandemia, la politica, locale, nazionale e mondiale, ha chiesto agli scienziati di “supplire” al proprio vuoto di legittimazione, e molti, per la verità gran parte, di scienziati, virologi ed epidemiologi sono stati accondiscendenti, per non dire di più, ad aderire a questo nuovo ruolo di “supplenti politici”. Perché? Vanità personali o sincero senso del dovere si sono accavallati senza di fondo mettere in questione questo “ruolo” improprio: un ruolo che ha determinato scelte giuridiche e politiche, da cui molti esponenti della “comunità scientifica” adesso si ritraggono spaventati. Temo, in ritardo. La richiesta tutta politica fatta alla “comunità scientifica” di “mettersi d’accordo” avrebbe dovuto rivelare per tempo il tratto inconscio di questa richiesta: che è appunto richiesta di sovranità, di modello di azione, protocollo, e non di comprensione critica. A tale richiesta, qualunque esponente di questa comunità avrebbe dovuto dire molto chiaramente che di fronte a ciò che non si conosceva si sarebbero fatti dei “tentativi”, degli “esperimenti”, il cui risultato sarebbe stato prevedibile solo in parte, e solo per ciò che riguardava l’aspetto sanitario relativo all’epidemia. Si sarebbe dovuto separare, dire che il governo della società non poteva ridursi al governo della “società pandemica”. Perché, anche nel mezzo di una pandemia, o di una guerra, una società non si può ridurre solo a un evento, o ad una sua parte: è e rimane qualcosa di molto più complesso e articolato che dev’essere, appunto, difeso in modo complesso e articolato. Invece, la “società pandemica” è diventata lo strumento di mediazione fondamentale di lettura e di governo dei fenomeni sociali: è questo che rischia oggi di diventare normale, ed è di fronte ai rischi di questa proiezione impropria della ricerca scientifica nel campo del governo politico, che assistiamo a prese di distanza, a ritrazioni, a dei veri e propri conflitti che sfociano oggi in tribunale.
Probabilmente, ciò che sarà più interessante indagare da qui in avanti è proprio questa necessità di fede, che ha accomunato istituzioni politiche in crisi e la relazione culturale di una società nel suo complesso con la morte. Si è chiesto di avere “fede” in qualcosa che per statuto rinnega, o mette in questione, i presupposti fideistici, e soprattutto quando conosce, dei propri oggetti, ancora molto poco. Perché, questa è una delle domande che vengono dalla filosofia, questo bisogno di fede che sovrasta ogni critica o dubbio, e che addirittura conduce a una moralizzazione e a un giudizio sui comportamenti individuali? Perché la ricerca e il bisogno di immunità si è identificata in una fede nell’immunizzazione come modello di salvezza individuale e collettivo? Quello che accade ora è che questa “fede”, la necessità di un’adesione in foro cordis, rischia, per usare un eufemismo, di essere frustrata: frustrata proprio perché i bisogni della società sono molti di più e molto più complessi di quelli a cui può rispondere un “governo della società pandemica”. Quando la società si rivela per quello che è, con tutti i suoi conflitti e le sue contraddizioni, il tentativo di riduzione inevitabilmente salta: a meno di non prorogare e imporre quel modello – l’identificazione di una società con una società pandemica – appunto come unico modello di rappresentazione della società. Un modello fragile, se osserviamo le frustrazioni e i conflitti che, all’alba di una pesantissima crisi economica, stanno già emergendo. Una frustrazione, questa, che si ripercuoterà non solo sui decisori politici, come anche, appunto, su quella “comunità scientifica” che non ha, per tempo, definito e delimitato criticamente il proprio campo d’azione.
Al tempo stesso, sarà utile indagare la disponibilità di una parte consistente della “comunità scientifica” a diventare, nelle sabbie mobili di una situazione del tutto nuova, il rifugio stabile di una fede politica. Occorre, per spiegarlo, aggiungere ancora qualcosa: per esperienza diretta, posso dire che la forma competitiva e iperspecialistica con cui si struttura ormai la ricerca scientifica in ambito accademico ha condotto, e troppo spesso conduce, non ad un dialogo vero tra i ricercatori, ad un mutuo riconoscimento del lavoro altrui e dei propri errori, ma ad una semplice tutela del proprio giardino. Si delimita un territorio di caccia, e su quel territorio si pretende di governare da sovrani assoluti. Che l’oggetto della ricerca sia un autore, o un virus, fa poca differenza: ciò che importa è legittimarsi attraverso il governo di un “settore”. In questo senso, non stupisce la facilità con cui in molti casi la richiesta di “supplenza politica” è stata accettata da parti consistenti della “comunità scientifica”, a cui non è parso vero di poter estendere la propria “sovranità” a tutta la società. Le antiche scuole in cui la “comunità scientifica” si è sempre divisa sono state ridotte sempre più spesso dall’attuale conformazione del mondo accademico – in tutti gli ambiti – a semplici scolastiche. E non può stupire che l’attitudine di uno scolastico sia più simile a quella di un teologo, che a quella di un filosofo o di uno scienziato sperimentale. Più agile quando si tratta di dare risposte che quando si tratta di farsi domande: salvo poi, in molti casi, ritrarsi di fronte alle conseguenze di una hybris non più protetta dal potere secolare.
C’è da immaginare che lo svuotamento di legittimazione delle istituzioni politiche ha prodotto e produrrà, con sempre maggiore frequenza, nuove fedi e nuovi sovrani in grado di promettere nuove immunità. Di identificare salvezza e immunità. In pochi anni siamo passati dalle immunizzazioni tecnocratiche degli economisti neo-liberali, alle fedi populistiche, a quelle sovraniste, a quelle securitarie, infine a quelle sanitarie. Ad ognuna di queste immunizzazioni è corrisposta una rappresentazione della società, sempre riduttiva rispetto alla complessità effettiva dei bisogni. Negli anni precedenti la Rivoluzione francese, le ricette economiche si sono susseguite a un ritmo proporzionale a quello degli insuccessi: eppure, ogni ricetta veniva presentata con la presunzione di essere la via d’uscita “giusta” alla crisi sociale e politica. Da questo gioco si uscì solo quando la crescita ormai spaventosa del debito pubblico, e l’insolvenza dello Stato obbligò il sovrano alla convocazione degli Stati generali, a riportare cioè nel cuore della società il problema di come la società può e deve essere governata. La resistenza dell’assolutismo a limitare il proprio potere, a riconoscere il proprio vuoto di legittimazione di fronte alla crisi sociale ed economica, innescò gli eventi del 14 luglio, e ciò che ne seguì. Il punto in cui ci troviamo ora è quello di una società che avanza nel buio di una promessa di salvezza. Una promessa destinata ad essere sistematicamente mancata – per le forme con cui questa società si è strutturata – ma che produrrà, fino al momento in cui le contraddizioni prodotte dalle promesse frustrate saranno troppo grandi per essere governate, sempre nuove supplenze e nuove richieste di immunizzazioni. C’è da attendersi la prossima, e ancora avanti di questo passo, con una società ancora più profondamente divisa tra nuovi privilegi e nuove frustrazioni che, ognuno per proprio conto e con motivazioni differenti – mantenere un privilegio o sopravvivere – accetteranno la protezione e le richieste del prossimo sovrano in grado di garantire, se non altro, la finzione di una promessa.
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