di Davide Viero* (ITA_03.05.2020)
Abstract: Lo scritto si propone di analizzare la didattica a distanza (DaD) attraverso la mediazione utopico/ideale, che in educazione consiste nel compimento di ognuno.
Ne vengono tratteggiate sinteticamente le condizioni di esistenza che la generano e la rendono quasi unanimemente accettata; soprattutto vengono portate alla luce le conseguenze materiali che essa comporta.
La DaD non è perciò solo un tipo di didattica, ma un modo diverso di concepire il discorso educativo, che si allinea alla razionalità dominante.
L’educazione si caratterizza per il suo particolare dislocamento tra piani diversi: tra presente e futuro, tra visibile ed invisibile, tra ancora e non ancora. Proprio in virtù di questo fatto l’agire educativo non può procedere in modo automatico, bensì deve essere la risultante di un soggetto che tiene presente una molteplicità di fattori. In particolar modo, deve tenerli tutti presenti nella mediazione col fine di ogni insegnamento, ovvero con l’infinito compimento dell’allievo. Di ogni allievo.
Se già Marx aveva intuito che le trasformazioni avvengono sempre su base materiale, si tratta oggi di dover decidere se subire le trasformazioni che la realtà ci mette di fronte, oppure se creare nuove condizioni materiali rispondenti al fine coincidente con questo compimento dell’uomo. Insegnare, in questo caso, non vuol dire dare risposte immediate alle domande, ma capire le condizioni che hanno fatto sorgere queste domande e rispondere a quelle. L’insegnante è quindi colui che attiva una mediazione utopico/ideale.
Parimenti, se risulta importante considerare le condizioni materiali che generano la realtà presente, altrettanto rilevante è la considerazione delle conseguenze che questa realtà produce.
L’oggetto che sottoporrò attraverso questo prisma è la didattica a distanza (DaD) o teledidattica in assenza. Essa non è che l’epitome delle trasformazioni che hanno inondato la scuola nelle ultime decadi. Mi soffermerò in modo sommario sulle condizioni di esistenza che l’hanno resa possibile e fatta accettare senza riserve dalla maggior parte dei docenti, ovvero un adeguamento della scuola e degli studenti al contesto epocale, tanto che esso è affermato spudoratamente quasi fosse naturalmente coincidente col bene di ogni soggetto, che così viene individuato attraverso canoni stabiliti a priori dalla razionalità dominante. La sua sempre maggiore astrazione/oggettivazione generale accresce l’importanza del raggiungimento di obiettivi demarcati ed esterni al soggetto, con l’inversione mezzi-fini già individuata da oltre un secolo dai più illuminati pensatori. Mezzi divenuti centrali perché permettono il raggiungimento degli obiettivi così posti. Questi diventano un criterio di selezione anche se, per lavarsi la coscienza in un’epoca dove l’inclusione è il velo di Maya, si nasconde l’incuranza verso gli unfitness con sigle quali DSA, BES, ADHD con le quali vengono dispensati o compensati con ulteriori strumenti oggettivati e pratiche standardizzate nell’indifferenza verso il ragazzo. Quando l’adeguamento all’esterno assume sempre più valore, la scuola passa da istituzione collettiva ad istituzione elitaria, con una somministrazione dell’educazione dispensata per coorti.
In questo scenario la mediazione informatica epocale diventa quella che Baudrillard chiama matrice (con conseguenze performative e preformatrici), nuovo sacro Graal che attira orde di feticisti, tali perché invece dell’uomo essi mettono al centro l’oggetto, il mezzo, ovvero la sinestesia.
Per quanto concerne le condizioni di esistenza, ci bastino queste molto sommarie riflessioni. Diventa ora centrale analizzare le conseguenze della DaD attraverso la mediazione utopico/ideale. Che scuola ne esce? Chi è privilegiato? Chi sono gli oppressi? Vengono prodotti degli scarti?
Importante rilevare preliminarmente che, nella DaD, la scuola pubblica non è più tale, dato che è la risultante di una commistione pubblico-privato. Infatti in tale didattica si fa affidamento su dispositivi privati, quali computer, tablet, telefoni, reti di connessione che, per quanto la scuola si sforzi di dotare le famiglie con il comodato d’uso di tali strumenti, essi non saranno mai sufficienti per tutti.
Inoltre è importante rilevare come il Ministero dell’Istruzione non sia sia dotato di una piattaforma su cui attivare la DaD, per cui è costretto a fare affidamento a servizi offerti dai grandi della Silicon Valley, con Google a fare la parte del leone; con la conseguente raccolta dati quali la velocità di esecuzione, gli interessi, gli argomenti trattati, il livello di bravura etc. Tutti dati che, nonostante l’informativa privacy, vengono raccolti e, anche se non ceduti a terzi o solo aggregati in forma anonima, vengono utilizzati (è esplicitamente affermato) per scopi di implementazione della piattaforma. Che cosa sia questa implementazione nessuno lo sa, anche se è facile intuirlo vista qual è stata la strategia vincente di Google sul mercato della pubblicità.
Fare affidamento sul privato è oltretutto fonte di enormi differenze tra chi vive in città e chi in frazione. Questo perché, data la diversa redditività dei servizi, gli investimenti si concentrano dove c’è addensamento di popolazione, tralasciando le periferie. Qui le reti di connessione sono perciò molto più scadenti che nei centri urbani, con conseguenze didattiche rilevanti.
Inoltre, delegando gran parte dell’azione didattica alle famiglie, gli effetti di questa sui ragazzi non possono che essere la conseguenza delle caratteristiche delle stesse famiglie, in un movimento confermativo e non emancipante. I figli di genitori con titoli di studio più elevati avranno maggiori vantaggi, al pari di chi avrà genitori a casa dal lavoro; diversamente svantaggiati saranno quei ragazzi senza colpa figli di genitori che lavorano o che sono affidati a nonni poco tecnologici o chi per essi.
Inoltre ogni famiglia deve disporre di tanti strumenti quanti sono i figli e, in caso di connessione, essa va divisa tra coloro che la usano, penalizzando le famiglie con più figli e meno abbienti.
Altro punto critico è dovuto all’annullamento dei confini nell’era telematica dove tutto si equivale sullo stesso piano, e ciò è riscontrabile a diversi livelli. Il primo è la perdita del controllo da parte della scuola rispetto alle condizioni di fruizione e ricezione della lezione a distanza, che come abbiamo visto varia enormemente in relazione ai fattori contestuali. Inoltre la lezione, una volta mandata nell’etere, può essere fruita dal mondo intero, registrata, modificata e ripetuta ad libitum per qualsiasi scopo, con quello che Baudrillard chiama “il delitto perfetto”, ovvero la perdita della referenza ad un qualcosa di reale, con il conseguente svanimento della verità.
Tale perdita di controllo la si ha anche nella valutazione, dal momento che la misura stessa non è più controllabile, perché infinite sono le variabili che la condizionano: dal genitore che suggerisce fino a tutti gli altri escamotage verso cui il docente rimane cieco. Inoltre, grazie all’enorme influenza della famiglia nella didattica, la valutazione cade sotto i colpi della misura stessa, inverando l’acuta riflessione di don Milani secondo la quale “non c’è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra disuguali”.
La perdita di confini con il conseguente appiattimento su di una monodimensione la si riscontra anche nel rapporto col tempo. A tutte le ore ci sono comunicazioni da parte dei docenti, con la conseguenza che salta la distinzione tra le temporalità diverse che caratterizzano la giornata.
L’appiattimento su di un’unica dimensione si verifica anche grazie all’uso di dispositivi connessi e potentissimi nelle mani di ragazzi/bambini che non posseggono ancora una struttura propria attraverso la quale attribuire senso a ciò in cui si imbattono. Col pericolo di una formazione immediata o diversamente mediata, senza più filtri di educatori consapevoli che possiedono cultura e sapere. Inutile rimarcare come l’opera della scuola dovrebbe essere soprattutto un’opera di mediazione, attraverso il passaggio tra più dimensioni, proprio per superare l’immediatezza dello stato di natura.
Un altro aspetto che la DaD chiama in causa, contrariamente alla vulgata riferita al suo carattere inclusivo verso quegli alunni con particolari problematiche, è proprio l’elevato tasso di oggettivazione e standardizzazione con cui essa si presenta. Infatti la lezione è uguale per tutti, tanto più se essa è registrata così da non permettere la modulazione e le interazioni maestro-allievo sul contenuto. Essa non rende giustizia all’allievo, di cui non coglie i disagi, gli entusiasmi, le difficoltà e le passioni, ovvero ciò che Simmel chiama la base di ogni lezione. Ma questa ingiustizia si propaga anche dall’altra parte del filo, ovvero il versante dell’insegnante che non può suscitare aspettative e curiosità anche solo con un’inflessione della voce o con la sola presenza, controllate con la maestria dell’esperienza; tutte possibilità significative di risveglio negate per ogni singolo in quel preciso istante.
Se queste sono solo alcune riflessioni quasi immediate, se ne possono fare anche di relative alla sfera epistemologica. Infatti la DaD non è solo una didattica diversa: è un diverso modo di intendere l’educazione e l’insegnamento, frutto di una razionalità strumentale dove, all’accresciuto peso dell’esterno in forma di obiettivo da raggiungere, primeggiano i concetti di efficacia ed efficienza, al di là o ben prima di ogni demarcazione frutto del senso centrato sull’uomo. Questa didattica non fa che assumere, senza più remore e diventandone anzi un vettore, la razionalità che produce il modello liberista ormai tralignante in tutti gli ambiti della vita. Un modello incurante nel rimuovere gli ostacoli al compimento di sé, perché incentrato su obiettivi specifici esterni e sull’individualismo con cui ci si relaziona ad essi. Il liberismo non si interroga mai sull’uomo e sulla sua situazione di partenza, ma volge il suo sguardo solo sui punti di arrivo e, in questa corsa iper competitiva e selettiva, nessuna attenzione è rivolta verso chi è rimasto indietro per molteplici cause; al contrario la soluzione proposta da parte di tale razionalità alle difficoltà, sembra essere quella di un’ulteriore liberizzazione e competitività al di fuori di lacci e lacciuoli che non fa altro che accrescere la malattia con un’ulteriore inoculazione di virus.
Nella DaD, quindi, il discorso educativo ratifica ed accentua le disparità già presenti, allargando il fossato tra i sommersi e i salvati. Ciò preclude il compito dell’educazione nel sovvertire l’ordine della natura, fondato sulla selezione del più adatto, a favore di un ordine umano in cui ci sia il compimento di tutti. Nelle parole di un dirigente scolastico (o forse solo un venditore sotto mentite spoglie) ascoltate a distanza, tutto si esaurisce con: “L’importante è che noi offriamo un servizio”; ovvero la DaD, indipendentemente dal fatto se essa sarà fruibile da tutti (e perciò selettiva) e in che modo verrà recepita, evidenziando un’autoreferenzialità che annulla ogni spirito di servizio, in una colpevole dimenticanza dell’uomo che nella scuola assume il volto di ogni studente.
La DaD è perciò un debole surrogato di un servizio verso tutti, perché è relativamente semplice celebrare il rito della video lezione, altro discorso è quello relativo alla fruizione di tale lezione nelle sue condizioni contestuali nelle quali viene recepita.
A livello epistemologico non si può non rilevare lo slittamento dell’educativo da ambito umano a paradigma comunicativo: freddo, indifferente e ratificante il dato; con le parole di Eliot a ricordaci tutto quel che si perde nel passaggio dalla conoscenza all’informazione. Questa, infatti, può esser arricchita solo da chi ne ha la possibilità. E non tutte le famiglie hanno questa possibilità. Benjamin scrisse che “il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti)”[1]; ora questo avviene attraverso il livello individuale e la DaD “permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà”[2].
Concludo con alcune riflessioni propositive: su dieci anni di scolarizzazione, perdere 2-3 mesi non lascia strascichi che non siano recuperabili. Se la scuola non è possibile attivarla, bisogna prenderne atto ed agire considerando la mediazione dell’ideale, come discrimine tra ciò che che va fatto e ciò che non va fatto. Continuare imperterriti con attività ad altro tasso di oggettivazione è delirante. Piuttosto sono infinite le possibilità altre per procedere sulla via del compimento di sé negli allievi, proprio al di fuori dei limiti della scuola fin qui attivata. La lettura, la scrittura libera, l’ascolto di buona musica; tutte attività che accrescono la capacità di osservazione, di riflessione, di immaginazione e sensibilità. E tutto questo al di fuori di quello che Simmel chiama lo spirito del denaro, ovvero la quantificazione del valore e la misurabilità di tutto in vista dello scambio e della proprietà.
Una scuola che propone senza chiedere un ritorno in termini valutazione, può essere una possibilità di risveglio per un altro ordine del discorso. In fondo, le esperienze più significative, sono con quello che Agamben chiama l’inappropriabile.
Bibliografia.
Agamben G., Arte e anarchia, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
Baudrillard J., Il delitto perfetto, Cortina Raffaello, Milano, 1996.
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966
Eliot T. S., Cori da La rocca, Rizzoli, Milano, 1994.
Foucault M., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1972.
Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.
Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995.
L’educazione in quanto vita, Il Segnalibro, Torino, 1995.
Denaro e vita, Mimesis, Milano, 2010.
*Davide Viero, nato ad Arzignano (Vi), il 03/11/1980. Insegnante di sostegno in quella che è stata denominata “primaria”, insofferente verso la scuola vissuta da studente prima e da insegnante poi, ho faticato a concettualizzare come avrebbe dovuto essere il discorso educativo al di fuori delle forme date. L’averlo concettualizzato (anche grazie ad alcune esperienze informali nell’università) mi ha permesso di praticarlo nella concretezza quotidiana portandomi verso la marginalità rispetto alla scuola dominante; questo ostracismo vissuto è la conseguenza della mia concezione educativa, coincidente col compimento di ognuno, che si può solo intuire. Un ribaltamento dell’educativo che così non ha più una base oggettivata (potere, conoscenza, professionalizzazione, asservimento etc.) su cui reggersi se non l’uomo nel suo costante mutarsi e divenire. Un educativo che si condensa tutto nell’ultimo istante, impastato con schegge di passato da compiere nel futuro e che non permette rapporti di dominio ma solo di umana attenzione verso il prossimo perché nulla è ipostatizzato. Da tutto questo sono nati un articolo pubblicato su “Studium educationis”, Pensamultimedia, Lecce (N°. 1/2012), un saggio dal titolo “Tra finito ed infinito. Educare alla speranza” all’interno del libro “Filosofia e politica in Ernst Bloch. Lo spirito dell’utopia un secolo dopo”, a cura di C. Collamati, M. Farnesi Camellone e E. Zanelli, Quodlibet, Macerata, 2019 e “La scuola del macchinismo. Passaggi per un’altra antropologia”, Mimesis, Milano, in uscita ad agosto 2020.
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[1]W. Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966, p.46
[2]Ivi, p. 47.