di Luciano Marabello (ITA_15.04.2020) (qui la seconda parte, qui la terza parte, qui la quarta)
Per descrivere la situazione creata dalla pandemia si sono usate in maniera impropria molte metafore belliche, mentre occorrerebbe usare più propriamente la parola catastrofe nel suo significato etimologico che è quello di capovolgimento, rovesciamento. Le nostre cose sono state rivoltate: dall’esaltazione assoluta della mobilità estrema ci siamo ritrovati fermi, dalla celebrazione dei consumi come motore assoluto ci siamo trovati a non potere comprare nulla se non lo stretto indispensabile, dall’edonismo siamo piombati nell’intimismo controllato, da aperti alle relazioni multiple nel mondo ci siamo visti asociali e sigillati nelle case.
Questa catastrofe ha grandi differenze con quelle catastrofi a cui siamo abituati: quelle che si impongono come improvviso disastro che colpisce una nazione, come quelle associate alle frane, ai terremoti o tempeste. Malgrado i tanti morti e gli ospedali collassati questa è una catastrofe soprattutto delle nostre abitudini e modelli di vita. Ci è stata somministrata a rilascio controllato, iniettata in poco tempo ma ad effetti crescenti ci ha fatto convivere e abituare a questo cambiamento attraverso la paura. Per combattere questa paura siamo costretti all’immunità dall’altro, ci dicono che dobbiamo distanziarci come punti su una maglia larga senza possibilità di fare nodi. Eppure Tim Ingold, nel suo Siamo linee scrive che: «nell’aggrapparsi – o, più prosaicamente, nello stringersi l’uno all’altro – stia l’essenza stessa della socialità: una socialità, naturalmente, che non si limita all’umano, ma si estende alla vasta gamma di creature che si aggrappano e delle persone o delle cose a cui si attaccano».
Invece l’Immunità proprio per la sua etimologia sembra l’opposto di Communitas: «Ci troviamo, sull’altro versante della comunità, un ricorso ai dispositivi immunitari, all’immunitas, che disattiva il munus, il “dono”, il contatto con l’altro, provando a limitare il rischio di contagio che porta con sé (…)». (Roberto Esposito)
Il paradigma immunitario ci ha presentato le prove laboratoriali di una città profilattica in cui forme di controllo, segregazione e confinamento domestico, aldilà dell’elemento contingente di rottura della catena del contagio, sembrano pesare e ipotecare il futuro. Dopo oltre 30 giorni di clausura nazionale siamo ancora nella fase 1, il governo per la fase 2 ha nominato una squadra di 17 consulenti per la ripartenza dell’Italia dopo il chiudi-tutto. Nella squadra ci sono esperti in materia economica, sociale, tecnologia e innovazione, psicologia sociale, sociologia e materie giuridiche, ma nessun esperto di architettura o in scienze urbane, ritenendo il sapere progettuale legato allo spazio in cui abitano le persone un sapere quasi accessorio e superfluo.
Eppure questa emergenza e la decisione di confinamento della popolazione nelle case e chiusura delle città è intervenuta pesantemente nell’uso e nella percezione dello spazio individuale e collettivo. I provvedimenti generati da input sanitari hanno attaccato proprio il paradigma della città come luogo dello scambio e della interazione corporea e spaziale degli abitanti. Il futuro che si annuncia per le città e i territori è segnato dalla potenziale pericolosità dei contatti, dalla profilassi e dal controllo della salute e degli accessi alle attività. Tutto questo non potrà prescindere da una capacità di rimodellazione e dalle visioni di nuove configurazioni spaziali e degli usi, sia su scala territoriale sia su quella urbana e architettonica. Le interazioni con lo spazio urbano e la forma dovrebbero appartenere alla scrittura del piano di proposta complessivo del team della ripartenza e non essere conseguenza o applicazione normativa.
L’esperienza estrema del lockdown a scala nazionale e continentale sembra scrivere una ulteriore declinazione del lessico urbanistico cestinando visioni e accezioni che sembravano vincenti. Si eclissano i tag di città della mobilità, citta condivisa, città della densità, edge city, città diffusa, città globale, citta generica, città porosa, città intelligente, di botto ecco apparire la città pandemica che per resistere evolve in città profilattica.
Quasi come agli albori dell’urbanistica la spinta data dai dati statistici e il sapere igienista sembrano voler riscrivere le priorità secondo quel paradigma immunitario che però dovrà fare i conti e parlare con il suo opposto, il paradigma di comunità.
La città in preparazione per il dopo virus sembra per alcuni derivare automaticamente dagli incroci di mappe epidemiologiche, big data o dalla dotazione del Cives abitante di App per tracciamenti geo-localizzati di rischio, secondo il modello dei più inquietanti film fantascientifici in cui aleggiano cluster urbani sanificati o ammorbati, nuove mappe urbane a intensità o transito di contaminati, Covid Detector che avvertono degli avvicinamenti rischiosi. In questo quadro di soluzioni tecnologiche e digitali si allontana il pensiero sulla città e lo spazio come sistema disciplinare complesso, facendo evolvere in maniera rudimentale il concetto di Smart City in un modello di controllo sanitario e profilattico.
La via al controllo urbano in chiave sanitaria-immunitaria trasfigura i desideri di connessione iper-urbana in connessione di soli dati, al potere generativo dato dal continuo fluire (spesso caotico) di informazioni, di persone, merci, modelli culturali, si oppone uno approccio schermato, ideologicamente profilattico. Alla prova dei fatti un elemento virale ha generato non solo la pandemia ma anche un pandemonio cognitivo mondiale.
Per fermare la diffusione del Covid19, nelle varie nazioni, con differenti gradi, si sono avviate delle pratiche contenitive della popolazione, in modo rapido, impositivo, ineluttabile: tutti i cittadini hanno abbandonato le pratiche sociali che contraddistinguono le città e gli spazi urbani.
Abbiamo provato e sperimentato il confinamento domestico, la riduzione drastica dei contatti, la distanza sociale, la riduzione della mobilità, la sospensione o la trasformazione del lavoro e la conseguente riconfigurazione del tempo dentro un nuovo e incerto uso dello spazio.
La modifica sostanziale dei quadri spazio-temporali nell’immaginario civile ha però un peso determinante perché non dimentichiamo che le strutture mentali dello spazio e del tempo fanno parte, con tutte le variabili del caso, dell’armatura del modo di pensare e vivere di una società.
(continua)
In copertina: Franco Mazzucchello “Riappropriazione” in “Converso” (2016)