GIANFRANCO FERRARO (17.07.19_IT)
Andrea Camilleri è l’ultimo grande autore di quell’«effetto Sicilia», di cui ha parlato Carlo Alberto Madrignani, che ha gettato le basi del romanzo realistico italiano. Dopo Verga, Pirandello, De Roberto, Lampedusa, Sciascia, Bufalino, Consolo, Camilleri è stato l’ultimo «vecchio» della letteratura siciliana, e proprio per questo europea.
Come ultimo è stato anche diverso da quella storia, anche se nelle sue parole e nelle sue interviste, c’è tutto il secondo Novecento siciliano, quello più terribile, da Portella della Ginestra a via D’Amelio. E anche quello più bello, quello dell’etica civile, stoica, che ha attraversato i tanti sconfitti sul campo di quella storia siciliana.
È stato, di sicuro, una luce, per tutte le generazioni di siciliani che lo hanno accompagnato, romanzo dopo romanzo. Una luce anche per un Paese goffamente intristitito, a cui Camilleri ha continuato a rivolgere delle storie e non solo.
Camilleri è stato certo Montalbano, Vigata, ma è stato anche «Il re di Girgenti». Esploratore di una Sicilia in cui i siciliani hanno voluto riconoscersi, di una Sicilia che è esistita, o che esistita solo in parte: di certo che esiste in quella sigaretta calma e continua che ha accompagnato il suo “raggiunari” per novant’anni.
È stato una lingua, non tutta siciliana e non tutta italiana, a cui si deve molto, perché è stata una lingua tanto geniale da essere a volte fastidiosa per i lettori siciliani, eppure vera, tanto da essere letta anche da chi siciliano non era.
Ma è stato anche, per chi vuole davvero leggerlo, uno che ha indagato il fondo più notturno dell’animo siciliano, Camilleri, e che proprio perché consapevole di quel fondo, non può che spendere un sorriso su di esso, senza smettere di guardarlo, di combatterlo, ma proprio per questo consapevole che nel tempo di una sigaretta c’è tutto il tempo per “raggiunare” e per combattere il male, mentre si vive. Di contrapporre una ragione, che non è la ragione acquietata di un illuminismo da strada, ma la ragione che si tende come un filo sulla storia, sulle sue vicende oscure come sui drammi della biografia di ognuno, e che tenta di trarne una storia, appunto.
Raccontare non è esonerarci da quel dramma, ma assumercene la responsabilità di esseri umani.
La sigaretta di Camilleri è per questo anche la sigaretta di Paolo Borsellino. Lo pensavo giorni fa, mentre guardavo, come mi capita, documentari di quella stagione che la mia generazione conserva come un rimosso, e che è poi il grande rimosso di tutto il Paese.
In quel fumo da uomo di un’altra generazione c’è tutta l’accortezza e la compostezza di quel tempo separato che consente di dipanare il giallo della vita quotidiana, così come quello della vita pubblica. E il giallo che attiene al fondo dell’umano.
E l’effetto Sicilia è stato questo. In questo senso Camilleri è parte di quella storia, come parte di quel sorriso totale, mi verrebbe da chiamarlo così, ritratto in una foto degli amici – amici suoi, di Nené Camilleri – Consolo, Bufalino e Sciascia, e anche nella foto di “pacificazione” tra Borsellino e Sciascia, a tavola e davanti a una bottiglia di vino.
Mentre scrivo queste poche righe di getto, mentre mi sto fumando, appunto, una sigaretta con un amico lontano, un altro grande amico mi ricorda che Camilleri «è stato definitivamente un siciliano di mare». È vera, forse, quella distinzione tra «siciliani di scoglio e di siciliani di mare aperto», fatta da Camilleri: tra i siciliani, di fondo, che si abbarbicano alla memoria della propria terra, a quell’ombelico al centro del Mediterraneo, che ne fanno utopia e saudade, e i siciliani che portano con sé quella terra – quell’effetto Sicilia – dovunque vadano e si trovino.
Camilleri è riuscito a parlare agli uni e agli altri. Lui stesso, certamente «siciliano di mare» è riuscito a farci portare con noi, almeno alla generazione di cui a occhio e croce faccio parte anche io, la parte migliore di quella Sicilia, ogni tanto, chiaro, bagnata da una nostalgia subito messa via, perché ci sono le cose da fare, e perché la vita è questa cosa qui, nel presente, ed è in questo presente che si consuma ogni lotta e tutto. La Sicilia è qui, proprio perché è un’isola.
Camilleri non aveva paura della morte. Epicuro – il grande maestro della Natura delle cose di Lucrezio – diceva che la paura della morte è appunto una paura insensata: perché questo io che oggi vive semplicemente non conoscerà la morte. Quando c’è la morte non ci sono più io. Camilleri ha avuto una vita lunga, ma questo conta poco. Scriveva Seneca: «Vuoi sapere qual è la vita più lunga? Quella che si conclude in saggezza. Chi la raggiunge tocca la meta più lontana, ma più alta. Egli può essere orgoglioso e ringraziare gli dei, fra i quali si è collocato per suo merito e per merito della natura. Ad essa egli restituisce una vita migliore di quella che aveva ricevuto».