MARX: QUALE CRITICA DELL’UTOPIA? – MIGUEL ABENSOUR

[La redazione di Thomasproject.net pubblica online il lungo articolo di Miguel Abensour dedicato al rapporto che Karl Marx intrattenne col pensiero utopico. L’articolo è stato inserito nella recente pubblicazione collettanea dal titolo Alle frontiere del capitale, l’ultimo volume della collana Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico curata da Pier Paolo Poggio della Fondazione Micheletti di Brescia, uscito da poco in libreria.]

 

Tratto da: M. Abensour, Marx: quale critica dell’utopia?, in: M. Cappitti, M. Pezzella, P. P. Poggio, Alle frontiere del capitale, Vol. V de L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Milano-Brescia, Jaca Book-Fondazione Micheletti 2018, pp. 373-388

 

MARX: QUALE CRITICA DELL’UTOPIA?[1]

Miguel Abensour [1/02/2019_ITA]

 

La questione proposta può sembrare accademica, invecchiata, anzi, completamente sor­passata. Se negli anni Settanta ebbe un senso politico e filosofico evidente, ora nella con­giuntura presente – sotto il segno del «realismo», del ritorno del diritto e dello Stato di diritto – appare come un oggetto di controversia erudita, un punto di storia della filo­sofia o delle dottrine, capace al massimo di attrarre l’attenzione di qualche marxologo e «utopiologo», da tempo, se posso dirlo, fuori dal servizio attivo.

Di più. Non sarebbe una questione crepuscolare, consistente nel dissertare dotta­mente su due forme di vita entrambe irrimediabilmente invecchiate? In breve, sarem­mo nel grigiore più pieno.

Non è così, però, ai miei occhi. Si tratta piuttosto di una questione intempestiva – con­tro lo spirito del tempo – inattuale, altra dall’attuale. Dal lato di Marx: si può, in effetti, considerare che il crollo dei regimi che si richiamavano al marxismo abbia avuto parados­salmente l’effetto di restituirci Marx. Voglio dire, cioè, che la lettura filosofica, critica, fi­nora tentata solo da alcuni (M. Rubel, M. Henry, P. Ansart, C. Castoriadis), diventa ormai una modalità di lettura accessibile a tutti, purché disposti a rompere con l’ideologizzazio­ne a cui l’opera di Marx è stata sottoposta. Quest’opera ci è di nuovo offerta come un’o­pera di pensiero, con le sue ambiguità, le sue contraddizioni, la sua incompiutezza, le sue opacità. Essa ci appare ormai come se si elaborasse alla prova della sua propria divisione. E ci attrae più per i cammini di pensiero che ha dischiuso e percorso fino a un certo pun­to, che non per le «tesi» cui sarebbe pervenuta. Noi riscopriamo un Marx suscettibile di rilanciare la nostra interrogazione, anziché fornirci un focolare di certezze. All’occorren­za questo significa che ci è ormai possibile riesaminare la questione della critica dell’uto­pia, della sua vera portata, al di fuori delle diverse ortodossie che se ne sono impadronite, facendo riemergere l’operazione complessa di Marx nei confronti delle utopie. Come in­vito a riscoprire questa complessità, ricordiamo la frase di Adorno, quasi un aforisma, in Dialettica negativa: «Sie waren Feinde der Utopie um deren Verwirklichung willen» («Essi [Marx, Engels] erano nemici dell’utopia per realizzarla»).[2]

Dal lato dell’utopia: di fronte ai necrologi che pullulano intorno alla fine dell’uto­pia, malgrado «l’attrazione del futuro» o l’attrazione dell’alterità, può parere onorevole ma piuttosto vano affermarne la permanenza. A meno di impegnarsi su un’altra strada che conduce a interrogarsi sulla perseveranza dell’utopia, sia che il pensatore dell’uto­pia si volga verso un pensiero dell’essere come incompiuto, verso il non-ancora, avendo di mira l’utopia, il compimento, la compiutezza dell’essere; sia che l’utopia che ha prio­ritariamente a che fare con la socialità, con il legame umano – il legame tra gli uomini e il legame degli uomini all’umanità – appaia come una dimensione costitutiva dell’uma­no, al di fuori delle categorie ontologiche. Nel senso che non vi sarebbe socialità uma­na senza rapporto a una alterità sociale, senza movimento irreprimibile verso una socia­lità altra. L’umano, non la natura umana, non la destinazione umana, ma l’enigma della coesistenza umana, ciò che Levinas chiama «le nostre relazioni con gli uomini […] que­sto campo di ricerca appena intravisto» sarebbe inseparabile dalla trascendenza utopica.

Se ci si concedono questi due ultimi punti, la presenza di Marx come pensatore viven­te, come teorico critico con cui non possiamo smettere di dialogare e la permanenza dell’u­topia, anche sotto altri nomi (il nuovo spirito utopico, per esempio), allora la questione di partenza abbandona il terreno dell’accademismo per trasformarsi e complicarsi. Non si tratta più tanto della critica dell’utopia in Marx, quanto piuttosto del rapporto dell’utopia con Marx, del rapporto che l’utopia può intrattenenre con l’opera marxiana. O piuttosto, la questione della critica marxiana dell’utopia non appare più se non come un passaggio obbligato, un preliminare necessario per sfociare in un’altra questione: quali rapporti l’u­topia può ancora annodare con Marx, quali sono le scelte che le si offrono?

In un primo momento riassumerò brevemente il risultato di ricerche anteriori sulla critica marxiana dell’utopia e ciò che mi pare costituire il suo vero orientamento. Poi cer­cherò di descrivere quelli che mi sembrano essere i rapporti tra il «comunismo critico» – il nome esatto della teoria di Marx – e l’utopia. Rapporti che bisogna sforzarsi di pen­sare positivamente, vale a dire contro la tesi secondo cui il comunismo di Marx segne­rebbe puramente e semplicemente la fine dell’utopia. Infine, dopo aver rivisitato questa dimensione del comunismo di Marx, rovescerò, come accennato, la questione di parten­za per approdare a quest’altra questione: come pensare i rapporti dell’utopia con Marx?

 

La critica marxiana dell’utopia: portata e significato

 

L’interrogarsi, senza presupposti, sulla critica marxiana dell’utopia comprende due momenti strettamente legati tra loro: in primo luogo la questione del senso di questa critica e, ritrovato questo senso, la questione del rapporto del comunismo critico con l’utopia.

Sul primo momento, il significato della critica marxiana, alcune tesi.

Tesi 1 – La famosa opposizione socialismo scientifico / socialismo utopico funzio­na come un enunciato dominante, vale a dire come una vera e propria istituzione di censura politica e intellettuale che, nella storia del marxismo, si è prestata a scopi or­ganizzativi i più diversi. Con il ricorso a tale enunciato si è trattato ogni volta di eli­minare gli enunciati non ortodossi che tentavano di denunciare il mito della separa­zione radicale.

Tesi 2 – Per dissolvere il mito della separazione e il misconoscimento che esso pre­suppone conviene lottare contro il privilegio accordato ai due testi canonici, il Manifesto comunista (1848) e il famoso opuscolo del 1880 Socialismo utopico e socialismo scientifi­co, il cui confronto, spesso animato dal solo desiderio di ortodossia, scaturisce più dall’e­segesi che non da un vero lavoro interpretativo. Una volta reinseriti questi due testi nella totalità degli scritti che si occupano di utopia (scritti filosofici, politici, critici) e una vol­ta posti in relazione con l’integralità della teoria, ciò che appare è che questa critica non è stata elaborata in nome di un qualsivoglia «realismo», ma che essa si costituisce esclu­sivamente dal punto di vista del comunismo critico ed è indissociabile da una nuova te­oria della storia e della rivoluzione.

Tesi 3 – Al termine di questo reinserimento contestuale, oltre il dubbio che si può le­gittimamente avanzare sull’esistenza stessa del significante fondamentale (l’opposizione utopia/scienza), si osserva che la matrice critica, scoperta a partire dal 1843 nell’Intro­duzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel, è formata dalla coppia rivoluzione parziale / rivoluzione totale. In verità, il contrasto tra l’utopia e la scienza, apparso per la prima volta in occasione di una controversia tra A. Comte e i saint-simoniani, appar­tiene più alla storia del positivismo che non a quella del marxismo.

Tesi 4 – Né, a sua volta, Marx critica le utopie per i loro eccessi e il loro irrealismo, ma per la loro insufficiente radicalità – l’utopia, rivoluzione parziale, non rovescia le ra­dici della società esistente – e critica il loro eccessivo asservimento al reale, per la loro incapacità di distinguere tra manifestazioni fenomeniche ed essenza di una formazione sociale data.

Tesi 5 – Secondo Marx, la novità della rivoluzione sociale del XIX secolo consiste nel trarre la sua poesia non dal passato, ma dall’avvenire. Ne segue che l’operazione costi­tuita dalla critica marxiana delle utopie non può essere unificata; essa è assai più com­plessa, in quanto si effettua in modo differente a seconda che Marx critichi un’utopia in quanto «ombra riportata del mondo presente», o in quanto vi riconosca «l’espressione immaginaria di un mondo nuovo» (Fourier).

Tesi 6 – Se, contrariamente alle affermazioni di Marx, si considera che l’utopia non finisce nel 1848, ma si prolunga ben al di là – fino ai nostri giorni – non si tratta più di comparare utopia e comunismo critico, ma di valutare il comunismo critico nei confron­ti di uno spazio utopico plurale, comprendente il socialismo utopico «per molti aspetti rivoluzionario», il neoutopismo e il nuovo spirito utopico.

A conclusione di questa critica del mito della separazione radicale, noi perveniamo a due proposizioni:

– il comunismo critico è diverso dall’utopia, il che mette in luce la vanità dell’espres­sione «l’utopia marxista», una formula che rivela l’incapacità dei nostri contemporanei di distinguere l’utopia dal pensiero di Marx;

– il comunismo critico non significa, tuttavia, la fine dell’utopia.

 

I rapporti del comunismo critico e dell’utopia

 

Il duplice rifiuto dell’identificazione tra l’utopia e il marxismo e, insieme, della loro se­parazione radicale implica dunque l’esistenza di una relazione positiva tra il comunismo critico e l’utopia che resta da esplorare. Relazione complessa, secondo la quale la critica delle utopie va di pari passo non con l’affermazione di un qualsivoglia «realismo», ma con una dimensione occultata dalla maggior parte degli interpreti, vale a dire: la tensio­ne verso il futuro comunismo che forma in qualche modo la spina dorsale della teoria di Marx. Quest’ultimo scrive nei Manoscritti del 1844: «Il comunismo è la posizione in quanto negazione della negazione, e perciò il momento reale – e necessario per il prossi­mo sviluppo storico – dell’umana emancipazione e restaurazione. Il comunismo è la for­ma necessaria e l’energico principio del prossimo avvenire; ma esso non è come tale il termine dell’evoluzione umana, la forma dell’umana società».[3]

La problematica che ci proponiamo non è totalmente ignota. Se ne trova il fonda­mento più solido nell’opera di Labriola. Un filosofo marxista, H. Lefebvre, un marxolo­go, M. Rubel, la riprendono secondo prospettive diverse.[4]

Una volta posta in rapporto la critica delle utopie con l’integralità della teoria rivo­luzionaria, dove ritrovare l’utopia? Non è necessaria una nuova topica? In effetti il sen­so della critica delle utopie dipende dalla topica entro cui la si enuncia. La relazione tra Marx e le utopie si concepisce in base a un modello d’interpretazione radicalmente differente a seconda che si affermi o si rigetti la presenza di una teoria del comunismo nell’opera di Marx. In un caso – topica propria alla tesi classica – uno dei cui presuppo­sti essenziali è che la teoria di Marx non contenga una descrizione della società comu­nista, si pongono in rapporto soltanto due istanze: la critica delle utopie e l’analisi del capitalismo. È nella misura in cui Marx ha criticato le utopie che ha prodotto un’ana­lisi scientifica del capitalismo, ponendo in luce la sua struttura e le sue leggi. Il capitale sarebbe l’ultimo grande libro dell’economia borghese e nient’altro. In questa prospet­tiva, il marxismo da cui si espunge ogni orientamento verso il futuro, rappresentereb­be perfettamente la fine dell’utopia, perché non offrirebbe più un termine di compara­zione con essa.

È concepibile un’altra topica intesa a riconquistare la totalità della teoria. Essa sve­la e presuppone un’altra struttura di base. Essa comprende tre termini: critica delle uto­pie, analisi del capitale in quanto processo storico, teoria del comunismo. La teoria uni­taria della rivoluzione sociale porta in sé non la descrizione della società comunista, ma, per parlare con Labriola, la previsione morfologica del comunismo. Il capitale o «critica dell’economia politica» sarebbe il primo grande libro del comunismo critico. Da qui, la specificità dei concetti di Marx che definisce molto esattamente la teoria critica, secondo Marcuse: «Questi sono concetti costruttivi, che concepiscono non solo la realtà data, ma contemporaneamente anche il suo superamento e la realtà nuova. Nella ricostruzione te­orica del processo sociale anche quegli aspetti che si riferiscono al futuro sono elementi costitutivi e necessari della critica dei rapporti presenti e dell’analisi delle loro tendenze. Il mutamento a cui tende quel processo e l’esistenza che l’umanità liberata si deve creare determinano già la fondazione e lo svolgimento delle categorie economiche».[5] È in que­sto che consiste precisamente la struttura unitaria della teoria radicale. Scienza della so­cietà e previsione del comunismo non sono giustapposte, ma reciprocamente condizioni di possibilità. L’orizzonte del comunismo permette di decrittare i misteri dell’economia borghese; l’analisi critica dell’economia borghese permette di prevedere le forme del co­munismo. In un certo senso, Marx non smette mai di parlare della società comunista.[6]

Nel quadro di questa nuova topica, il terreno di discussione è trasformato da par­te in parte. La critica delle utopie assume un senso altro da quello puramente negativo, perché appare un termine di comparazione. Nasce una nuova questione: quale relazio­ne esiste tra la tensione verso il futuro delle grandi utopie socialiste e la previsione mor­fologica del comunismo? La portata della discussione è in verità molto più fondamenta­le rispetto alla semplice valorizzazione di una connessione letteraria tra i grandi utopisti e Marx. Troppo spesso, anche quando l’interprete riconosce l’esistenza del problema, ha tendenza a ridurlo a questa questione puramente genetica. Il comunismo critico non si accontenta di elevare, di far salire d’un grado la ricca suggestione etica, psicologica, pedagogica delle utopie. Non si tratta soltanto di una integrazione alla teoria di Marx di elementi o temi utopici che provengono da Saint-Simon, da Fourier o da Owen. Af­fermare che il comunismo critico non è la fine dell’utopia, ma il luogo della sua trasfor­mazione implica l’esistenza di una relazione differenziale quanto alla forma stessa della teoria. Ciò che si può enunciare anche così: in rapporto alle grandi utopie le cui opere contengono un quadro della società futura, quale posto originale occupa la previsione della società comunista nella teoria di Marx? Qual è l’articolazione specifica di questa previsione nella teoria unitaria della rivoluzione sociale in rapporto a quella che parti­colarizza l’utopia di Fourier, Owen o Saint-Simon? Ricordiamo brevemente che critica delle utopie e previsione del comunismo sono indissolubilmente legate, o in altri termi­ni, che il comunismo è ciò che «agisce» la critica delle utopie. Un gran numero di testi di Marx sono costruiti sul ritmo di questa scansione: critica di una data utopia e afferma­zione del comunismo. Così nei Manoscritti del 1844 la critica del comunismo rozzo e la posizione del comunismo critico; così nell’Ideologia tedesca, la critica del vero socialismo e l’affermazione del movimento comunista, del comunismo di massa; così nella Circolare contro Kriege, la critica del comunismo d’amore in nome del comunismo materialista. È dunque dal punto di vista del comunismo, di cui percepisce il movimento reale nel suo­lo della società moderna, che Marx critica le utopie. Ridefinito così il punto di vista sulle utopie, si può dare una prima risposta alla questione posta in precedenza.

La previsione morfologica del comunismo rappresenta un doppio salvataggio per tra­sposizione:[7]

– salvataggio dell’orientamento utopico verso il futuro per trasposizione all’interno di una forma monista ripresa da Hegel, ma simultaneamente sottoposta a un profondo lavoro di trasformazione;

– salvataggio della tendenza all’alterità propria all’utopia mediante reinserimento in una teoria dialettica, espressione dell’insieme del movimento che tende all’eterogeneità radicale del comunismo.

La teoria di Marx non è il luogo in cui l’energia utopica perverrebbe a estinguersi per far posto alla scienza, ma quello in cui si opera una transcrescenza dall’utopia socialista al comunismo critico. Marx non è colui che seppellisce l’utopia: ne ha ripreso invece e portato l’energia a un livello più alto proiettandola nel movimento reale del comunismo, «energico principio del prossimo avvenire».

Io mi soffermerò qui in modo più particolare sul primo salvataggio evocato. I cui ele­menti sono:

1) il salvataggio dell’orientamento utopico verso il futuro;

2) la trasposizione di questo orientamento all’interno di un pensiero della storia di forma monista;

3) e, di conseguenza, la trasformazione di questa forma sia da parte dei giovani hege­liani di sinistra, sia da parte di Marx.

Questo salvataggio per trasposizione operato da Marx si situerebbe dunque all’in­crocio d’una duplice trasformazione, trasformazione dell’utopia e trasformazione del pensiero della storia ereditato da Hegel. O, se si preferisce, vi sarebbe stato simultanea­mente dalla parte di Marx: «iniezione» di Hegel – di un pensiero monista – nell’utopia; «iniezione» dell’utopia – la tensione verso il futuro – in Hegel. Per prendere bene la mi­sura di questa duplice trasformazione conviene in primo luogo rivolgersi, per criticarla in piena conoscenza di causa, alla tesi spesso ripetuta secondo cui Marx avrebbe pura­mente e semplicemente ripreso il «realismo hegeliano» per fargli produrre i suoi effetti critici nei confronti di un nuovo oggetto, vale a dire: l’utopia socialista. In breve: il lavo­ro critico di Hegel nei confronti di ogni forma di dualismo sarebbe la fonte della critica marxiana e ne rivelerebbe il senso. Tesi classica, che si ritrova addirittura in un interpre­te, membro della Scuola di Francoforte e dunque non tormentato da problemi di orto­dossia. Alfred Schmidt scrive infatti ne Il concetto di natura in Marx: «Durante tutta la sua vita Marx critica gli utopisti: nella sua giovinezza i giovani hegeliani, i veri socialisti, autori come Proudhon, Owen, Hess e Grün; più tardi il sistema di Comte. Con questa critica Marx si dimostra allievo di Hegel, il quale, soprattutto nella prefazione ai Line­amenti di filosofia del diritto rifiuta qualunque raffigurazione di una condizione futura, qualunque vuoto dover essere, che venga immediatamente contrapposto all’essere».[8] Ci si stupirà dapprima che un teorico così scrupoloso come Alfred Schmidt possa praticare l’amalgama mettendo sullo stesso piano Owen e Proudhon, là dove Marx si è servito di Owen per mostrare che l’utopia proudhoniana, contrariamente a quella dell’utopista in­glese, non intaccava veramente il modo di produzione capitalistico. A dire il vero, que­sta tesi pone più problemi di quanti non ne risolva, perché infine cosa bisogna intendere con «realismo hegeliano»? Per di più, separando Marx da coloro con cui ha condiviso un pezzo di strada – i giovani hegeliani, Moses Hess – tale tesi occulta completamente la duplice trasformazione operata da Marx, come se quest’ultimo si fosse semplicemen­te accontentato di riprendere la critica hegeliana del dualismo kantiano e di ogni forma di pensiero che opponga il dover-essere all’essere per applicarla a questa risorgenza del dover-essere che sarebbe l’utopia socialista.

Non ho qui il tempo per esaminare la questione del «realismo» di Hegel. Mi limito a sottolineare che questo realismo è d’un genere assolutamente speciale, è un realismo che si tiene ad eguale distanza sia dal moralismo, sia dal positivismo, in un certo senso, è al­trettanto enigmatico di quello che sbrigativamente la tradizione attribuisce a Machiavel­li. È egualmente necessario ricordare a questo effetto che per giudicare di questo famo­so realismo E. Weil, contro il critico liberale Haym, insisteva sempre sulla distinzione tra realtà ed esistenza.[9] Nonostante le differenze tra i due autori, la stessa interpretazione si ritrova in Marcuse. L’unità immediata della ragione e del reale non è data. «Finché per­mane una divergenza tra reale e potenziale, si deve agire sul primo e mutarlo sino a ren­derlo in armonia con la ragione. Fintanto che la realtà non è formata dalla ragione essa non è affatto realtà nel più vero senso della parola. Pertanto nella struttura concettuale del sistema hegeliano il termine realtà viene ad assumere un significato particolare. “Re­ale” è ciò che è secondo ragione (razionale) e null’altro».[10] Egualmente, a proposito della Filosofia del diritto, opponendosi alle interpretazioni che vi scorgono una assolutizzazio­ne del presente, E. Weil considera che la filosofia, pensiero della sua epoca, e in quan­to tale, teoria dello Stato moderno,[11] comprende lo Stato come una forma storica, ossia come una forma che appare nella storia, una forma passeggera, che non è sorpassata al presente, ma che è destinata ad esserlo. Da qui i limiti e la forza della filosofia. La filoso­fia è forte solo se sa riconoscere i propri limiti. La filosofia conduce alla riconciliazione con il reale nella misura in cui, pensiero della realtà efficiente, essa percepisce l’annun­ciarsi di una nuova forma di vita. A partire da H. Heine è nota l’ambiguità delle famo­se formule sul reale e il razionale. Il sorriso di Hegel non indica forse che tutto ciò che è razionale dev’essere?

È sul terreno di questo specifico realismo che i giovani hegeliani hanno elaborato il loro lavoro critico. O piuttosto, non è tanto il «realismo hegeliano» – istanza critica della visione morale del mondo e di ogni filosofia del dover-essere – che è servito come matri­ce alla critica marxiana dell’utopia, quanto piuttosto l’ambiguità di tale realismo che ha dato ai giovani hegeliani e a Marx ed Engels l’occasione storica e filosofica per effettua­re un lavoro di trasformazione sul pensiero di Hegel tale da far produrre alla filosofia di Hegel degli effetti nuovi e sconosciuti al suo autore, ma non estranei allo spirito vivente di questa filosofia – ciò che H. Marcuse nella sua tesi sulla Ontologia di Hegel ha messo in valore, vale a dire l’Essere come mobilità, l’Essere come avvenire.[12]

Contrariamente, dunque, alla tesi di A. Schmidt, non c’è stata da parte di Marx ripre­sa del realismo hegeliano e della sua critica del dover-essere (Kant, Fichte) da cui estrar­re un realismo marxiano da applicarsi a una risorgenza del dover-essere sotto forma di utopia socialista. Questa tesi è tanto più inaccettabile in quanto è impossibile e illegitti­mo concepire un passaggio, una transizione diretta da Hegel a Marx, perché tra loro in­terviene il gruppo dei giovani hegeliani di sinistra da cui Marx ed Engels provengono. È questo gruppo, composto da «spiriti della stessa famiglia» di Hegel che ha effettuato un vero lavoro di critica dialettica e che contro l’ossificazione del sistema hegeliano – o la ri­duzione della filosofia a storia della filosofia – ha avuto per compito di «far giocare» la teoria di Hegel per mettere in luce il suo spirito, rilanciandone il movimento, facendolo andare assai più lontano di quanto mai fosse andato il suo fondatore. In breve, si trattava attraverso tale gioco e grazie ad esso di liberare le virtualità rivoluzionarie di quest’opera, tentando di pensare ciò che Hegel stesso non aveva pensato, ma che aveva reso possibile pensare, nel caso specifico, la forma a venire, la forma del futuro prossimo.

Conviene notare che, per gli hegeliani di sinistra, l’ambiguità del realismo hegeliano non proveniva da una qualsivoglia concessione positivistica, bensì dal ricorso di Hegel alla mediazione speculativa – la riconciliazione in e attraverso lo spirito. Così il loro la­voro critico non consisteva nell’andare a caccia delle tracce di positivismo in seno a tale realismo per purificarlo, ma nell’individuare la vera questione a cui doveva confrontarsi la filosofia dopo Hegel, quella della sua realizzazione.

Ci resta dunque da capire come il pensiero della storia effettivamente presente è servito quale trampolino – una volta rigettata la mediazione speculativa – per una teo­ria della previsione morfologica che induce a pensare il comunismo come il movimento presente di un nuovo avvenire sociale. Previsione dunque che non si risolve in una fine dell’utopia, ma nella sua trasformazione, nella sua emigrazione in un altro elemento, la storicità. All’origine della specificità della critica marxiana dell’utopia, che è inversione della critica conservatrice e della critica realistica nel senso classico del termine, ciò che noi ritroviamo è precisamente il lavoro critico dei giovani hegeliani sulla filosofia di He­gel – la previsione morfologica del comunismo essendo la risposta di Marx ed Engels a una problematica che essi hanno attraversato, o ancora, essendo la trasformazione mar­xiana dell’orientamento utopico verso il futuro, l’immersione di quest’ultimo nella sto­ricità. Feuerbach nelle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1842) e nei Principi della filosofia dell’avvenire (1843) espresse il desiderio comune di volgere l’orientamen­to hegeliano verso l’avvenire. B. Groethuysen l’ha mostrato chiaramente: i giovani he­geliani sensibili all’intuizione fondamentale di Hegel, la mobilità della vita («Il divenire è il solo principio di ogni filosofia», M. Hess) decisero di applicare il metodo dialetti­co al fine di essere in grado di prevedere l’avvenire, o piuttosto decisero di mettere que­sto metodo in pratica per concorrere alla realizzazione di una nuova organizzazione del­la società. La parola d’ordine hegeliana di «riunione con il tempo» diventa riunione con l’integralità del tempo, il tempo preso nella sua triplice dimensione, includendo dunque anche il futuro.[13] Trasformazioni reciproche del pensiero della storia e dell’utopia, ab­biamo detto noi. Esaminiamo dapprima l’«iniezione dell’utopia» nel testo di Hegel. È questo il terreno che ha nutrito il lavoro compiuto da Marx ed Engels. Su questo per­corso incontriamo il libriccino di A. von Cieszkowski pubblicato nel 1838, Prolegome­ni all’istoriosofia che, esigendo una trasformazione del pensiero hegeliano della storia, ci permette di comprendere al meglio questo mutamento dell’utopia in previsione. Il tem­po presente non sarebbe forse l’età dell’utopia? A. von Cieszkowski saluta la presenza e la forza di quest’ultima sulla scena politica e filosofica. «È a partire da qui (il passaggio della filosofia dall’esoterismo all’essoterismo) che può capirsi il gusto furioso, portato ai nostri giorni fino alla monomania, di edificare sistemi sociali e costruire la società a pri­ori, ma questo gusto non è ancora se non il vago presentimento di un’esigenza che non è ancora pervenuta alla sua chiara coscienza».[14] Ma al contempo Cieszkowski mentre sa­luta l’utopia, non annuncia anche la rivoluzione copernicana ch’essa sta per conoscere? «Così l’avvenire non appartiene al sistema di Fourier, come egli ha creduto, ma il suo si­stema stesso appartiene all’avvenire, vale a dire che esso costituisce un momento signifi­cativo nell’elaborazione della realtà vera».[15] Anticipando per un istante sui nostri svilup­pi, traduciamo in termini marxiani questo secondo momento della trasformazione: non è più il movimento sociale che deve ruotare intorno all’utopia – visione falsa che carat­terizza ciò che Marx chiama il «sostituzionismo utopico» – ma è l’utopia, momento in­cancellabile, che deve ormai ruotare attorno al movimento sociale.

Libro notevole quello di Cieszkowski perché, sotto il segno della realizzazione del­la filosofia, vi troviamo dispiegato e raccolto l’insieme della problematica dei giova­ni hegeliani.

Pur riconoscendo il genio di Hegel, eroe della filosofia moderna, Cieszkowski gli rimprovera di non aver professato nella sua filosofia della storia se non una interpreta­zione retrospettiva della storia e di essersi accontentato al contempo di una riconcilia­zione speculativa che lasciava inalterata la realtà effettiva. A sua insaputa, Hegel, filosofo intrinsecamente monista, ponendo questa inaccessibilità del futuro, sarebbe pervenuto a un nuovo dualismo:

 

In effetti nelle sue opere non si trova una sola allusione al futuro e anche seguendo la sua opi­nione, la filosofia allorché esaminava la storia non aveva che un potere retroattivo, in cambio, il futuro doveva essere escluso dall’ambito della speculazione [Prolégomènes, p. 15].

 

Ora, la fedeltà a Hegel, alla filosofia di Hegel e non alla sua opinione, esige di colma­re questa lacuna, perché comprendere la totalità della storia per la filosofia, è compren­dere la totalità del tempo, dunque anche il futuro e accedere a una potenza prospettiva:

 

Ora la totalità della storia è necessariamente costituita dal passato e dal futuro, dal cammi­no già percorso e dal cammino ancora da percorrere e ne risulta per la speculazione questa prima esigenza: conoscere l’essenza del futuro. […] Tuttavia, per parte nostra, bisogna subito affermare che, senza la possibilità di conoscere il futuro, senza il futuro concepito come una parte integrante della storia e rappresentante la realizzazione del destino umano, è impossibile pervenire alla conoscenza della totalità ideale e organica come del processo apodittico della storia universale [Ibid., pp. 14-15].

 

Precisiamo che per Cieszkowski si tratta di conoscere l’essenza del futuro, la sua forma generale, non di predire o indovinare questo o quel fatto particolare, ciò che Marx ab­bandonerà «alla cucina dell’avvenire». È dunque questione di una prescienza, determi­nazione dell’avvenire attraverso il pensiero o «istoriosofia» e non d’un presagio. Questa istoriosofia non può concepirsi che in relazione con il tema essenziale per i giovani hege­liani del compimento/oltrepassamento della filosofia. Nella storia universale Hegel rap­presenta «l’inizio della fine» della filosofia.

 

A colpo sicuro, in Hegel il pensiero ha realizzato il suo compito essenziale, e anche se il corso del suo sviluppo non è per nulla terminato, il pensiero deve tuttavia ridiscendere dal suo apo­geo ed eclissarsi in parte davanti all’ascesa di una nuova stella [Ibid., p. 94].

 

E ancora:

 

In questo modo la filosofia futura sarà l’oltrepassamento della filosofia al di là di se stessa, ma sempre all’interno del suo ambito e sotto la sua propria forma [Ibid., p. 115].

 

La filosofia, dunque, per continuare a esistere deve mutare d’elemento, emigrare e di­ventare praxis, vale a dire la sintesi della coscienza soggettiva e della coscienza oggettiva che si opera nel registro della volontà.

 

La filosofia, abbandonando il punto di vista che le è più proprio e conforme, si trasporterà su un terreno che le è estraneo, ma che condiziona ulteriormente la sua evoluzione ulteriore, vale a dire il terreno assolutamente pratico della volontà [Ibid., pp. 104-105].

 

L’umanità ha raggiunto l’autocoscienza, ormai attraverso l’azione cosciente e libera, orientata in quanto azione verso il futuro, deve dunque realizzare nell’effettività storica la riconciliazione pensata, ma soltanto pensata, dalla filosofia. Cieszkowski annuncia un superamento della filosofia che non è tanto la sua fine quanto la sua metamorfosi, nel­la misura in cui essa deve rispondere alla «supremazia universale» nel momento presen­te della vita politica.

 

Essere la filosofia pratica o, più esattamente, la filosofia della praxis, con un’influenza la più concreta possibile sulla vita e i rapporti sociali, essere lo sviluppo della verità nell’attività con­creta, tale è la sorte futura della filosofia in generale [Ibid., p. 16].

 

Tutto è connesso, perché è grazie a questa emigrazione, a questo cambiamento di terre­no, a questa trasformazione della filosofia in praxis che s’apre la possibilità di accedere alla conoscenza del futuro. Come una fenomenologia dello spirito è esposta (non neces­sariamente) a produrre una filosofia della storia troncata, così una fenomenologia del­la volontà può accedere a una filosofia della storia integrale, dunque anche prospettica. Ed è proprio sotto il segno dell’oltrepassamento della filosofia che, per finire, è reso un omaggio a Fourier, grazie a cui un passo importante è stato fatto «in vista di sviluppare la verità organica in seno alla realtà», vale a dire al fine di permettere la conoscenza della totalità della storia, anche se ciò avviene in forma d’utopia. È questa «l’iniezione» dell’u­topia nella filosofia della storia di Hegel destinata a farle produrre risultati nuovi, ossia la conoscenza dell’essenza del futuro.

Vengo ora alla seconda trasformazione annunciata: «l’iniezione» di Hegel (un Hegel a sua volta trasformato) e del pensiero della storia nel campo dell’utopia. Per coglierla meglio mi volgo a Marx e ai Manoscritti del 1844 dove noi incontriamo l’affermazione del comunismo critico sulla base della critica del «comunismo rozzo e irriflessivo». Pre­ciso che non si tratta in alcun modo per me di fare di Marx il discepolo di questo mae­stro poco conosciuto da noi che è Cieszkowski, ma solo di far apparire la problematica attraversata da Marx all’epoca del suo passaggio attraverso i giovani hegeliani di sinistra e come si può trovare là, anche senza tener conto delle relazioni tra Marx e Moses Hess, autore di una Filosofia dell’azione, il movimento stesso del salvataggio dell’utopia me­diante trasposizione.

Quando nei Manoscritti del 1844 Marx critica la riappropriazione astratta a cui mira Hegel – tutta la storia dell’alienazione e tutto il riscatto di questa alienazione terminano nel Sapere Assoluto – egli instaura al contempo una relazione tra il presente effettivo e il futuro prossimo. Facendo ridiscendere la riappropriazione dal cielo speculativo sul­la terra, la solida terra, Marx stabilisce una nuova riunione con il tempo. Una riunione con il movimento reale del tempo che gli permette di vedere non soltanto che una for­ma di vita è invecchiata, ma di conoscere elevandosi al di sopra dell’orizzonte borghe­se la forma della nuova Wirklichkeit. La riunione con il tempo, con la tridimensionalità del tempo, si realizza in e attraverso l’aggancio con il proletariato. È nella presa in con­siderazione dell’«essere del proletariato» che Marx ha riannodato il filo del tempo spez­zato da Hegel.[16] È egualmente ponendo la nuova e straordinaria questione del rapporto di lavoro espropriato con il processo di sviluppo dell’umanità che Marx ha potuto leggere nella società moderna il movimento verso l’alternativa storica tra comunismo o barba­rie. «Come questa alienazione (l’alienazione del lavoro) è fondata nell’essenza dello svi­luppo umano? Abbiamo già guadagnato molto per la soluzione del problema allorché abbiamo convertito la questione dell’origine della proprietà privata in quella del rappor­to del lavoro espropriato con il processo di sviluppo dell’umanità… Questa nuova impo­stazione del problema implica già la sua soluzione».[17] Questo passo è decisivo: il salvataggio per trasposizione ha avuto per effetto di ricen­trare l’utopia sul movimento sociale. Rivoluzione copernicana, abbiamo già osservato: la nuova concezione della storia, anziché far ruotare il movimento sociale attorno all’uto­pia, fa ruotare l’utopia attorno al movimento sociale. «La rivoluzione comunista non di­penderà dalle “istituzioni sociali di fertili ingegni sociali”, ma dalle forze produttive».[18] Il simbolo di Temistocle aiuta a render conto dell’operazione, dello stesso salvataggio tra­mite trasferimento. Quando Atene fu minacciata d’essere devastata, contrariamente agli animi mediocri, Temistocle «convinse gli ateniesi ad abbandonarla completamente e a fondare sul mare, su un altro elemento, una nuova Atene».[19] Contro i diversi neoutopi­smi, coltivati da animi mediocri, il comunismo critico per «salvare» le formule positive dei grandi utopisti sulla società futura procede alla loro riappropriazione, trasponendo­le in una teoria che fornisce il movimento storico dell’essenza umana. O ancora, il comu­nismo critico fa emigrare le verità delle utopie socialiste trapiantandole in un altro «ele­mento», l’elemento di una ontologia dialettica che ha al suo centro il concetto di lavoro, non in un senso stretto quale categoria economica, ma in quanto categoria ontologica, perché definito «come l’atto di autoproduzione dell’uomo» (Manoscritti, p. 370) e quelli correlativi di alienazione e appropriazione.[20] Marx subordina l’antropologia a un’onto­logia: «Se le sensazioni, le passioni eccetera, dell’uomo non sono soltanto determinazio­ni antropologiche in [stretto] senso, bensì davvero affermazioni essenzialmente ontolo­giche» (Manoscritti, p. 350). Intendiamo affermazioni che si danno per oggetto l’unità essenziale dell’uomo e della natura e, al di là, la produzione del mondo stesso. Per l’ela­borazione di una tale forma di ontologia, che tra l’altro permette il salvataggio per tra­sferimento, la relazione critica a Hegel è determinante. Anche se Hegel non ha trovato che l’espressione astratta, logica, speculativa del movimento della storia, ha avuto il me­rito, secondo Marx, di intendere «l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’ogget­tivarsi come un deoggettivarsi, come alienazione e come soppressione di questa aliena­zione» (Manoscritti, p. 360).

Per afferrare meglio la realtà di questo salvataggio per trasferimento un esempio è particolarmente topico. Si riferisce precisamente a questa traslazione dell’utopia sociali­sta in una teoria che prende come punto di partenza il lavoro, categoria ontologica, vale a dire «il divenire per sé dell’uomo all’interno nell’alienazione o in quanto uomo aliena­to» (Manoscritti, p. 361) e che, secondo la bella analisi di G. Granel, rinvia alla «nozio­ne originaria di produzione». Ritorniamo, in effetti, alla trasformazione della questione dell’origine della proprietà privata in quella del rapporto del lavoro alienato con il corso dello sviluppo umano. È il passaggio dall’una all’altro che apre precisamente il luogo in cui può effettuarsi il salvataggio per trasferimento: Marx trasporta le conquiste dell’uto­pia dalla prima forma alla seconda forma della questione. Dapprima, egli dimostra che la proprietà privata è il prodotto, la conseguenza necessaria, del lavoro alienato. «Que­sta proprietà privata, immediatamente sensibile, è l’espressione materiale sensibile del­la vita umana estraniata» (Manoscritti, p. 324). Così Marx rompe con la visione reificata della proprietà privata che la rappresenta come una cosa o soltanto come «una condi­zione esterna all’uomo» (Manoscritti, p. 317). La proprietà privata non è né uno stato di cose, né un’essenza oggettiva, né un accidente fortuito: essa appare come il risulta­to storico di una certa prassi sociale dell’uomo, essere oggettivante. E così come la pro­prietà privata è il risultato dell’attività dell’uomo, così la sua autosoppressione appare come il prodotto di una pratica specifica. Ne consegue che la trasformazione della que­stione comporta una trasformazione della risposta. Lo sottolinea una frase fondamenta­le: «Giacché quando si parla di proprietà privata si pensa di aver a che fare con una cosa fuori dell’uomo, ma quando si parla del lavoro si ha immediatamente a che fare con l’uo­mo stesso» (Manoscritti, p. 308).

Alla questione dell’origine della proprietà privata, questione pseudo-storica e che ca­ratterizza molto bene il punto di partenza di diversi sistemi utopici (si taglia via la pro­prietà privata da ciò che la genera, l’alienazione del lavoro, e non la si conosce che come un’essenza oggettiva) non si può rispondere che attraverso una formula utopica di tipo classico che propone una «soluzione della questione sociale» sotto forma, per esempio, di un modello di non-proprietà. Alla proprietà privata, stato di cose al di fuori dell’uo­mo, cosa esteriore all’uomo, si oppone al contempo il comunismo come uno «stato che deve essere creato» oppure come un ideale su cui la realtà dovrà regolarsi. Vi è corri­spondenza termine a termine: dai due lati si fa sparire il lavoro, la produzione dell’uo­mo attraverso se stesso in quanto essere oggettivo. Inoltre, ponendo così la questione e appigliandosi unicamente a un risultato del processo e non al processo stesso, l’utopista non può pervenire che a una formula parziale e unilaterale.

Al contrario, la nuova concezione della storia che rifiuta sia di scrivere la storia sia d’intervenirvi in base a una norma situata al di fuori di essa, enuncia una nuova questio­ne e fornisce una nuova risposta. Si tratta ormai di comprendere come il movimento uni­versale della proprietà privata, sul punto di «divenire una potenza storica universale» (Manoscritti, p. 320) o meglio, il movimento del lavoro alienato, produce naturalmen­te la sua autosoppressione e tende verso una riappropriazione positiva della comunità umana. Considerata nella prospettiva molto nuova del rapporto del lavoro alienato con il corso dello sviluppo umano, il comunismo, come in precedenza la proprietà, è reinte­grato nel movimento storico dell’essenza umana, della produzione dell’essenza umana. Tale è il terreno della rottura con la rappresentazione reificata, storica o pseudo-stori­ca, del comunismo: né modello, né idea e neppure estrapolazione a partire da formazio­ni storiche isolate, né condizione esterna all’uomo, né ideale trascendente, il comunismo perde il suo carattere di essenza oggettiva, di cosa-avvenire per diventare il movimento reale che abolisce lo stato attuale. Le condizioni di questo movimento risultano da pre­messe attualmente esistenti.

In relazione con questo movimento si può ormai conoscere la forma della nuova Wirklichkeit:

 

Ma, in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cos’è la ricchezza se non l’uni­versalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive etc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cos’è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma produce la propria totalità?[21]

 

Questo testo, al pari di altri che si riferiscono a una conoscenza del comunismo, mostra fino a che punto l’opposizione classica scienza/utopia resti ampiamente al di qua del la­voro critico esercitato da Marx ed Engels sul corpus delle utopie socialiste e fino a che punto, di conseguenza, tale opposizione mutili la teoria unitaria della rivoluzione, risul­tato di questa critica, amputandola della dimensione della previsione. Contrariamente alla tesi semplificatrice, sottesa a questa opposizione classica, non vi è stato un passag­gio lineare e progressivo dall’utopia alla scienza. Ciò che si è effettuato nella fondazione della teoria critica è un’operazione molto più complessa – il salvataggio per trasposizio­ne che implica un rivolgimento dei fondamenti ontologici della teoria. Così, addirittura nelle dichiarazioni più antiutopiche di Marx si esprime uno slancio utopico che sarebbe completamente ignorato se si confondesse questa critica con una qualsivoglia volontà di distruzione o di esclusione dell’utopia. Citiamo ancora una volta Adorno: «Erano nemi­ci dell’utopia nell’interesse stesso della sua realizzazione».

Al termine di questo percorso ritorno alla questione annunciata in partenza, que­stione rovesciata: quali rapporti l’utopia, sempre presente, perché costitutiva dell’uma­no, può annodare oggi con Marx, quali rapporti ha ragione di intrattenere con l’opera di Marx sempre vivente?

Per il momento e molto brevemente, due strade appaiono possibili.

1) Se mi accordate l’ipotesi che ho proposto nella seconda parte, quella del salvataggio per trasposizione dell’utopia nella previsione morfologica del comunismo, a partire da una immersione dell’utopia nell’ontologia di Marx, l’essere essendo pensato come produzione, pare allora aperta la strada per un avvicinamento al lavoro perseverante di Ernst Bloch. Il rapporto dell’utopia con Marx potrebbe pensarsi attraverso la relazione che Bloch seppe instaurare di un duplice movimento tra lo «spirito dell’utopia» e la rivoluzione marxiana, facendo nascere al contempo un nuovo spirito dell’utopia. In un primo tempo converreb­be vedere come la riabilitazione blochiana dell’utopia, che non si limita all’utopia sociali­sta, ma abbraccia ogni forma d’utopia – anche le scintille utopiche di cui formicola il mon­do – s’accorda con il trattamento marxiano dell’utopia. Immersione nell’opera blochiana – intreccio dell’utopia e dello spirito di Marx – per giudicare fino a che punto Il principio speranza è in continuità con il salvataggio operato da Marx, anche se, evidentemente, l’ol­trepassa e di molto. La volontà permanente, reiterata, di Bloch di passare da una utopia astratta a un’utopia concreta è ispirata dal lavoro critico di Marx? Oppure si tratta piut­tosto di rivelare una dimensione nascosta di Marx, o di conquistare un nuovo spazio alla frontiera dell’opera marxiana? Questioni tanto più legittime che questa duplice iniezio­ne – iniezione dell’utopia in Marx, iniezione di Marx nell’utopia – riposa egualmente su un’ontologia esplicitamente dispiegata da Bloch in Experimentum mundi. Così, in un se­condo tempo, converrebbe per decidere dei rapporti possibili dell’utopia con Marx, con­frontare l’ontologia di Bloch con quella di Marx, la prima essendo indubbiamente più sviluppata e complessa della seconda (le differenti categorie del possibile, il non-ancora-essere, l’essere incompiuto…). Continuità o discontinuità tra questi due pensieri dell’esse­re? Quale la giustizia resa all’utopia dall’una e dall’altra ontologia?

2) È pensabile anche un altro orientamento: anziché ontologizzare un’altra volta l’u­topia, immergerla in una ontologia dialettica, che sia quella di Marx o quella di Bloch, non converrebbe piuttosto distaccare l’utopia da ogni ontologia, liberarla dalla presa delle categorie ontologiche?

Come intendere questo progetto?

Benjamin Constant, in un testo del 1796, citava una donna di spirito che era solita di­chiarare come elogio della vita semplicemente il fatto ch’essa è. «Non è già molto il fatto di essere?».[22] Ma la grandezza dell’utopia non consiste nel fatto che nel suo stesso impul­so essa rivela che parallelamente alla vita, a questa manifestazione dell’essere, a questo conatus essendi, esiste al cuore dell’umano, nel più profondo del suo enigma, nella re­sponsabilità per l’altro uomo, nella struttura dell’uno-per-l’altro, nella non-indifferenza alla sofferenza altrui, un altro movimento, il movimento dell’«altrimenti che l’essere»? Nei termini di Fourier, uno «scarto assoluto» in rapporto al vivente, in rapporto a que­sta semplice grandezza dell’essere. Non è all’«altrimenti che essere» che l’utopia, pura­mente utopia, ha la chance di accedere grazie alla sua evasione, grazie al suo fuoriuscire dall’essere? Il non-luogo dell’utopia, la sua eccentricità non è apertura su un’altra di­mensione che non il luogo – «non-luogo antecedente al ci dell’esser-ci» – altro rispetto al focolare, al soggiorno, alla dimora, alla terra natale, tutti luoghi di autoaffermazione del sé, del ritorno presso di sé – non è apertura sull’«estraneità all’essere»?[23] Oltrepassamen­to nell’umano dello sforzo animale della vita puramente vita – del conatus essendi della vita – e breccia dell’umano attraverso il vivente: dell’umano, la cui novità non si ridur­rebbe a uno sforzo più intenso nel proprio «perseverare nell’essere»… ma si risvegliereb­be sotto forma di responsabilità per l’altro uomo… dell’umano in cui l’inquietudine per la morte altrui diviene preminente rispetto alla cura di sé… Richiamo della santità che precede la cura d’esistere, la cura dell’esser-ci e dell’essere-al-mondo, utopia, disinteres­se…[24] Congiunzione e condensazione di ciò che Levinas chiama «l’utopia dell’umano».

Rispetto a ciò, il salvataggio marxiano o blochiano dell’utopia non è cieco nei confronti della natura stessa dell’utopia, non è rimozione sotto forma di trasferimento nell’ontologia delle straordinarie facoltà di «diserzione» dell’essere, proprie all’utopia? Non ci si ingan­ni. Non si tratta, al termine di questo percorso, di ritornare a Fourier contro Marx e ancor meno di fare di Fourier il giudice di Marx. La questione è più profonda: questi salvataggi dell’utopia grazie a un’ontologia non recano violenza all’utopia? E non si tratta piuttosto, come ha fatto Levinas, al seguito di M. Buber, di fare emigrare in senso inverso l’utopia dai luoghi in cui essa si perde e di restituirla all’elemento che è il suo, l’elemento dell’Incontro, incontro dell’altro uomo accolto nella sua alterità radicale?

Riorientata così l’utopia è una forma di pensiero altro dal sapere, dal sapere della sto­ria, dal sapere della società o delle finalità dell’essere, perché – e non è una delle scoper­te di Levinas? – esiste nel fatto d’essere il prossimo di qualcuno, di rispondere all’appel­lo di qualcuno, una possibilità di pensiero che non è sapere, ma altro dal sapere.

Incontro, l’utopia appartiene all’ambito della relazione Io/Tu e non ai rapporti ogget­tivanti della relazione Io/Questo, il che tuttavia non implica che l’utopia debba cedere alle trappole della reversibilità. Dell’incontro con l’altro l’utopia conserva i due caratteri, pros­simità ma separazione. Così il salvataggio per trasferimento non si situa all’esatto opposto di ciò che conviene di fare? Affermazione della preminenza dell’ontologia poiché si costi­tuisce con l’immergervi l’utopia, ignora il fatto utopico come avvenimento etico – la rispo­sta, la non-indifferenza alla nudità, alla mortalità altrui – e al contempo ignora la priori­tà dell’ordine etico. Per giudicarne non vi è che da tornare al bellissimo testo di Levinas: «La morte nel pensiero di Ernst Bloch».[25] Levinas, da una parte, riconosce la grandez­za di Ernst Bloch e il suo notevolissimo gesto intellettuale – l’opposizione uomo/essere – dall’altra sottolinea l’ambiguità di questo pensiero che, nella sua perseverante riabilitazione dell’utopia, l’inscrive al contempo nel campo dell’ontologia e nel campo dell’etica. «L’on­tologia e l’etica vi sono in sovraimpressione», scrive Levinas. Così Levinas, giocando sul­la divisione interna al pensiero blochiano, si sforza di strappare l’utopia alla presa dell’on­tologia invitandoci a pensarla altrimenti – non come fuoriuscita dall’essere divenuto, né come fuoriuscita dall’essere incompiuto, ma come fuoriuscita dall’essere in quanto essere.

Dimenticare Marx? Non necessariamente. Piuttosto avvertiti dello slancio utopico che vi compare, complicarlo attraverso il richiamo del capovolgimento dell’emancipa­zione, puntare sull’alienazione della disalienazione, come se l’utopia nella sua esposi­zione all’altro, nella sua fragilità o nel suo smarrimento, scoprisse forse là i nuovi luo­ghi di un intervento possibile. «Da molto tempo, certo, gli uomini si erano resi conto di questa alienazione. […] Soprattutto, con Marx, queste deviazioni della volontà si spiegavano con l’alienazione sociale; l’esaltazione delle speranze socialiste rendeva, paradossalmente, plausibile l’idealismo trascendentale! L’angoscia dei giorni nostri è più profonda. Essa viene dall’esperienza delle rivoluzioni inghiottite nel gorgo della burocrazia e nella repressione e delle violenze totalitarie che si spacciano per rivolu­zioni. Perché, in esse, s’aliena la disalienazione stessa».[26] Complicazione, perché lungi dal cedere ai fantasmi della riconciliazione, l’utopia attraverso il rapporto che anno­da con l’infinito, accetterebbe la prova continua della separazione. Complicazione, perché questo passo fuori dell’umano, questo non-luogo antecedente e tuttavia segno dell’umano, riconduce all’umano, riconduce verso l’altro uomo, ma in una nuova chia­rezza, la chiarezza dell’utopia.[27]

***

Note:

[1] Miguel Abensour aveva accettato di partecipare a questo volume e, poco prima della sua scomparsa, stava lavorando a tal fine a un saggio sull’utopia in William Morris. Rispettando nei limiti del possibile la sua inten­zione pubblichiamo il presente saggio sul pensiero utopico. Esso è stato ripubblicato nel libro Utopiques IV. L’histoire de l’utopie et le destin de sa critique, Sens&Tonka, Paris 2016, p. 81 e ss. Ringraziamo H. Tonka, il quale ha consentito questa traduzione, che vuol essere anche un omaggio al grande pensatore scomparso. 

[2] T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 288.

[3] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere III, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 334.

[4] H. Lefebvre, Critica della vita quotidiana, vol. II, Dedalo, Bari 1977, pp. 44-46; M. Rubel, Utopie et révolu­tion, in Marx critique du marxisme, Payot, Paris 1974, pp. 290-298.

[5] H. Marcuse, La filosofia e la teoria critica, in Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 97.

[6] Cfr. Il capitale, libro primo, sezione prima, capitolo 1. Per venire a capo dei misteri dell’economia borghese, Marx introduce altri modi di produzione, tra cui la forma comunista. Questo metodo è definito molto esat­tamente nei Grundrisse in relazione con la possibilità di conoscere la forma della nuova Wirklichkeit. «Questa osservazione esatta porta d’altra parte a individuare anche dei punti nei quali c’è l’indizio di un superamento dell’attuale forma dei rapporti di produzione – e quindi un presagio del futuro, un movimento che diviene. […] Le attuali condizioni della produzione si presentano d’altra parte come condizioni che superano anche se stesse e perciò pongono i presupposti storici per una nuova situazione sociale»; Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 82.

[7] Prendiamo a prestito quest’espressione da K. Korsch, che impiega il termine di «Hinüberrettung» per render conto del «salvataggio» della dialettica tramite la sua «trasposizione» all’interno della concezione ma­terialistica della storia. Cfr. K. Korsch, Marxismo e filosofia, Sugar, Milano 1966, pp. 87-112.

[8] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 119.

[9] E. Weil, Hegel e lo Stato, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 55, in particolare la preziosa nota 3.

[10] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, Il Mulino, Bologna 1997, p. 33. Sul concetto di realtà effettiva si veda an­che dello stesso autore, L’ontologia di Hegel e la teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 113-128.

[11] E. Weil, Hegel e lo Stato, cit., p. 140.

[12] H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la teoria della storicità, cit., p. 49.

[13] B. Groethuysen, Les jeunes hégeliens et les origines du socialisme contemporain en Allemagne, «Revue Philosophique», 1923, pp. 379-402.

[14] A. von Cieszkowski, Prolégomènes à l’historiosophie, Champ Libre, Paris 1973.

[15] Ibidem.

[16] F. Engels, K. Marx, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967, passim (K. Marx, La sainte famille, in OEuvres III, Philosophie, Gallimard, Paris 1982, pp. 459-460 e 465).

[17] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere complete III, Editori Ri­uniti, Roma 1976, p. 308.

[18] K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 368.

[19] K. Marx, Quaderni sulla filosofia epicurea, in K. Marx, F. Engels, Opere complete I, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 521.

[20] Per una messa in valore dei fondamenti ontologici del pensiero di Marx si veda H. Marcuse, Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico (1932), in Marxismo e rivoluzione: studi 1929-1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61-116. Si veda inoltre il testo molto importante di G. Granel in cui da un confronto dei testi del 1844-1845 ricava una ontologia fondamentale della produzione. «Produzione, nell’ontologia marxista degli anni 1844-1845 è il termine che designa il senso stesso dell’essere […] La produzione non significa dunque qui l’attività del lavoro intramondano che trasforma i materiali in “prodotti” industriali, ma questa produzione che ha per solo “oggetto” il mondo stesso o ciò che è poi la stessa cosa “la vita generica dell’uomo”»; L’endu­rance de la pensée, Plon, Paris 1968, pp. 304-306.

[21] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. II, p. 112.

[22] B. Constant, La forza del governo attuale, Donzelli, Roma 1996, p. 14.

[23] E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, p. 131.

[24] E. Levinas, Mourir pour…, in Heidegger. Questions ouvertes, CIPH, Paris 1988, p. 263.

[25] E. Levinas, Sur la mort dans la pensée d’Ernst Bloch, in Utopie. Marxisme selon Ernst Bloch, Payot, Paris 1976, pp. 318-326.

[26] E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 120.

[27] Per più ampi sviluppi, mi permetto di rinviare al mio testo: Penser l’utopie autrement, in Emmanuel Levi­nas, L’Herne, «Cahiers de l’Herne», Paris 1991, pp. 477-495.