Foucault, l’Iran e la spiritualità politica

di Gianfranco Ferraro

Recensione a Michel Foucault, Dossier Iran, traduzione e cura di Sajjad Lohi, prefazione di Elettra Stimilli, Neri Pozza, Trebaseleghe (PD), 2023.

Thomas Project, n. 9-10 (2023) (forthcoming)

Sono finalmente raccolti in italiano e in un unico volume tutti i testi indispensabili a dar conto dell’esperienza politica e filosofica compiuta da Foucault nel corso della rivoluzione khomeinista: nel volume curato dallo studioso di origini iraniane Sajjad Lohi per il pubblico italiano, troviamo infatti riuniti per la prima volta sia i reportages giornalistici scritti dal filosofo per il Corriere della sera a partire dai suoi due soggiorni iraniani (dal 16 al 24 settembre e dal 9 al 15 novembre 1978), che le interviste in cui Foucault esplicita e ripensa la sua riflessione. Inoltre, ed è questa una preziosa novità, il lettore può valutare alcune delle critiche che vennero rivolte al filosofo, così come le sue puntuali risposte.

Apparentemente troppo connotato storicamente, e ancorato ad un episodio specifico dell’itinerario foucaultiano, in realtà il volume incalza tempestivamente, come spiega Elettra Stimilli nella sua prefazione, un dibattito contemporaneo alle prese con nuove polarizzazioni geopolitiche e con i drammatici esiti delle rivolte delle donne iraniane dell’autunno del 2022 (p. 19), riattivando in questo modo questioni che avevano diviso sia il dibattito filosofico che quello politico alla fine degli anni Settanta. Licenziando il volume nel luglio 2023, Lohi e Stimilli non potevano prevedere, d’altronde, quanto il “Foucault iraniano” sarebbe divenuto di incandescente attualità appena due mesi dopo, in seguito agli attacchi dell’organizzazione islamica fondamentalista palestinese di Hamas – sostenuta proprio dall’Iran degli ayatollah – contro i civili israeliani. Eppure, proprio raccontando la portata politica di una rivolta connotata religiosamente, Foucault mostrava già la possibilità di un futuro che è oggi concreto presente: mentre la declinazione rivoluzionaria e laica della causa palestinese non sembrava essere stata in grado di sollevare i popoli arabi, “[C]he cosa succederebbe se questa causa ricevesse il dinamismo di un movimento islamico…?” si chiedeva Foucault. “E a sua volta: quale forza avrebbe il movimento «religioso» di Khomeini se proponesse la liberazione della Palestina come obiettivo? Il Giordano non scorre piú tanto lontano dall’Iran” (p. 92).

Se gli interrogativi di Foucault appaiono quasi profetici, le ragioni che spinsero il filosofo francese a raccontare e, in una prima fase, anche a sostenere la rivolta, sono state di recente messe a fuoco dalla ricerca filosofica (cfr. ad esempio il numero speciale della rivista Dorsal, 6, 2019), mobilitata in questo tentativo dalla pubblicazione sistematica, giunta a termine appena qualche anno fa, degli scritti e dei Corsi tenuti al Collège de France. È infatti nel quadro del recupero del pensiero kantiano sulla rivoluzione, che attraversa gli ultimi anni del pensiero foucaultiano, che Elettra Stimilli sottolinea nella sua prefazione la portata del dossier Iran (p. 8 e 18). Stimilli e Lohi contestualizzano inoltre opportunamente le  influenze che sul pensiero foucaultiano di questi anni produce il contesto culturale iraniano frequentato dal filosofo (p. 16 e 26-29).

Di fronte l’eterogeneità della rivoluzione iraniana rispetto la storia rivoluzionaria occidentale, la posizione di Foucault non fu del tutto isolata nell’ambito della sinistra francese. Tuttavia, l’opinione dei critici si divise all’epoca tra quanti – sentendosene quasi traditi, dopo averne condiviso il percorso libertario – rimproveravano al filosofo francese di confondere irresponsabilimente col fanatismo religioso la tradizione e l’ortodossia storica delle forme rivoluzionarie occidentali; e quanti, al contrario, già critici verso il suo percorso, leggevano la sua presa di posizione come la logica conseguenza di quel ripensamento antifondazionalista, an-archico in senso lato, della concezione del potere e del governo, così come delle forme di resistenza, a cui Foucault si era dedicato negli anni Settanta. Agli occhi degli uni come degli altri, l’interpretazione rivoluzionaria dell’esperienza khomeinista, soprattutto tenendo conto degli avvenimenti successivi, suonava come l’inveramento di una svolta reazionaria del pensiero foucaultiano, quasi anticipatrice della sua “svolta” successiva, a lungo interpretata, in seguito, come una ritrazione dalla riflessione politica. Com’era possibile, infatti, rivendicare al campo delle lotte di liberazione anticoloniale – e dunque alla ricerca di una libertà fondata sui valori progressivi dell’Illuminismo – una sollevazione contrassegnata dalla presenza di una religiosità identitariamente fondata sull’antiamericanismo e di un clero sciita che guardava la politica attraverso le lenti della sharia? Poteva forse essere sufficiente che lo scopo dichiarato della rivolta fosse quello di rovesciare il governo autoritario e corrotto dello Shah, sostenuto dalle potenze occidentali e macchiatosi di crimini gravissimi?

Gli esiti autoritari del processo rivoluzionario e la trasformazione in senso teocratico delle istituzioni iraniane, con la programmatica violenta repressione dell’opposizione laica e marxista sono ben rappresentati dalla domanda severa, posta direttamente a Foucault da una donna iraniana, Atoussa H. (pp. 105-6): forse che i corpi delle donne, che il clero sciita ha preteso di governare, sono sacrificabili sull’altare delle libertà? Proprio questo “sacrificio” sembra caratterizzare infatti l’“errore” di Foucault, in fondo ancora più incomprensibile, all’epoca, essendo egli il pensatore che per dieci anni aveva lavorato ad una genealogia dei “corpi disciplinati”.

La risposta che in quell’occasione diede Foucault (p. 107), per quanto sbrigativa, mette tuttavia in evidenza i possibili limiti dell’esperienza iraniana, così come il vero motivo che aveva mosso il suo interesse: ovvero, la forza spirituale che muove i singoli a rivoltarsi. Negli anni successivi, oltre che sulla genealogia delle forme di “veridizione” che intersecano l’uso dei corpi, Foucault si concentrerà infatti su un’indagine ermeneutica del soggetto – osservato come un’entità che si trasforma storicamente a partire dalla critica dei propri limiti – e dunque di quelle forme di spiritualità nelle quali, come sottolinea Stimilli, etica e politica si intrecciano dando vita a concrete forme di vita (p. 18). La stessa relazione che la razionalità illuministica intrattiene con la storia sarà così ripensata attraverso nozioni come “ontologia dell’attualità”, “ontologia del presente”, “ontologia di noi stessi”, con cui Foucault contrapporrà ad un concetto statico di rivoluzione la matrice etica, e tattica (p. 179), di ogni rivolta e “contro-condotta” (p. 12 e 13).

Sarebbe così l’attitudine critica verso il presente storico, che Foucault riconosce per lo meno a una certa linea della filosofia post-kantiana, a spiegare la sua stessa attitudine verso la sollevazione iraniana: a Teheran, Foucault tenterebbe di comprendere le fragilità dei codici rivoluzionari abituali, dentro un presente che non può più essere osservato solo in termini eurocentrici o occidentali; in secondo luogo, si tratterebbe, per lui, di analizzare la relazione che intercorre tra religione e politica: il caso iraniano rappresenterebbe cioè una semplice eccezione della storia rivoluzionaria, oppure esso dovrebbe indurre a ripensare – proprio attraverso una nozione di spiritualità che non attiene solo all’Oriente – le stesse forme di soggettivazione che si sono manifestate in Occidente? In gioco ci sarebbero dunque, per Foucault, i limiti ermeneutici e pratici della stessa filosofia, l’attitudine del filosofo o dell’intellettuale di fronte al proprio tempo: si tratta di rimanere fedeli ai codici del passato oppure di metterli alla prova attraverso l’esperienza diretta?

Lavorando sull’affermazione di una “spiritualità politica” islamica, Foucault troverà quindi – anche attraverso la lettura de Il principio speranza di Bloch (p. 160) – la chiave con cui interpretare a ritroso la storia rivoluzionaria: come pensare infatti le rivolte contadine del Cinquecento sganciandole dalla spiritualità anabattista (p. 162), o il bolscevismo, se privato della spiritualità russa dell’Ottocento? “Quando parlo di spiritualità – afferma infatti Foucault già a proposito della rivolta iraniana – non parlo di religione, ossia è necessario distinguere bene spiritualità e religione” (p. 145). Se la spiritualità “non è necessariamente legata alle religioni” essa sembra allora identificarsi in “quella pratica attraverso cui l’uomo è dislocato, trasformato, sconvolto, fino alla rinuncia della sua propria individualità, alla sua posizione di soggetto. È non essere piú soggetto come lo si è stati fino a quel momento, soggetto rispetto a un potere politico, ma soggetto di un sapere, soggetto di un’esperienza, soggetto anche di una credenza” (p. 146). Ogni sollevazione sembra dunque essere necessariamente legata, prima ancora che ad una urgenza materiale, ad una pratica spirituale: solo questa consentirebbe di immaginare una trasformazione allo stesso tempo individuale e collettiva.

Per il lettore contemporaneo, a differenza di quanto poteva accadere al lettore degli anni Settanta, è dunque possibile fare davvero i conti con “l’errore” di Foucault. Ciò è possibile però, ancora una volta, come giustamente sottolinea Lohi, grazie ad un ennesimo tradimento delle sue volontà: così com’è accaduto per i Corsi, per le diverse conferenze, e, ancor più di recente, per la pubblicazione del quarto volume inedito della Storia della sessualità, Le confessioni della carne, nonché per gli scritti, in corso di pubblicazione, di tutto il primo itinerario foucaultiano, tra cui il fondamentale Le discours philosophique, la pubblicazione dei quali è stata fatta in deroga all’esplicita volontà dell’autore di non rendere pubblico nessuno scritto che non fosse stato già licenziato, anche nel caso della pubblicazione degli scritti sull’Iran si consuma un ancorché necessario tradimento della volontà dell’autore, che si era opposto alla ripubblicazione dei reportages iraniani, pensati come scritti giornalistici, “immediati ed essenzialmente «incompiuti»” (p. 25).

La resistenza di Foucault sembra comprensibile, se è vero che l’Iran di oggi è il teatro della repressione puritana contro i diritti delle donne, e dell’uccisione di giovani attiviste, come Mahsa Amini, ribellatesi al governo del clero sciita. Lo stesso Iran è tuttavia lo scenario dei romanzi dello scrittore esiliato Kader Abdolah, le cui trame proprio ai convulsi anni della rivoluzione sono annodate, ma anche del grande cinema di Abbas Kiarostami, che decise invece di rimanere in patria dopo la rivoluzione: è il terreno, comunque, di una vita civile inesausta che l’insorgenza di una nuova generazione – cui lo stesso curatore del volume appartiene – rende ulteriormente evidente.

Un filo di rivolta sembra infatti legare la società iraniana di oggi a quella degli anni Settanta, allergica alla repressione di uno Stato che pretendeva di imporre a forza una “modernità” attraverso le formule di un kemalismo all’epoca già arcaico (pp. 47-52). La rivolta odierna contro un apparato di polizia che legittima la sovranità di una burocrazia antiquata al punto da dover controllare un centimetro di velo femminile sembra allora poter essere letta con lo stesso sguardo con cui Foucault osservava la rivolta che quarant’anni fa attaccava uno Stato occidentalizzante, ma non meno autoritario. È proprio questa attualità del dossier iraniano a rendere necessario il lavoro editoriale di Lohi e Stimilli. Se lo scopo dichiarato della “strategia di sollevazione” del filosofo era infatti quello “di moltiplicare ovunque […] le occasioni di sollevarsi a fronte del reale che ci è dato” (p. 189), ritornare criticamente sul reportage foucaultiano serve allora non solo a riconoscere le possibilità di rivolta inerenti al presente, ma anche ad apprendere un’attitudine critica che, fuori dagli ideologismi, ma mai dalla storia, “incomincia dall’attenzione, la presenza e la generosità” (p. 113). Per questa ragione, il Foucault “iraniano” può ancora essere utile a chi oggi, anche in Iran, si rivolta.