di Gianfranco Ferraro
“Para que o poder não caia na rua” (“Perché il potere non cada nelle strade”)
Marcelo Caetano a António Spínola, 25 aprile 1974
LISBONA. Due del pomeriggio del 7 novembre, un grigio martedì di un autunno apparentemente uguale a tanti altri. Nei bar e nei tascos di Lisbona cominciano a essere serviti i caffè della pausa pranzo. La tv accesa non sembra dover sviare dalle immagini della distruzione mediorientale che da un mese ha sostituito quella dell’Europa dell’est, o dalle manifestazioni di categorie professionali in cerca di un miglior accordo sulla legge di Bilancio che il governo monocolore socialista, caso ormai unico dell’Occidente liberal-democratico, praticamente onnipotente con la sua maggioranza parlamentare uscita dalle ultime elezioni, dovrà approvare a breve. Il Portogallo non sta bene: un’inflazione galoppante, un mercato immobiliare completamente liberalizzato e nelle mani di fondi di investimento che rendono impossibile l’acquisto di casa per i redditi medio bassi, piccoli aumenti salariali che non riescono a compensare gli aumenti generalizzati del costo della vita e degli affitti, interi quartieri popolari svuotati in pochissimi anni, sembrano aver cancellato l’“assurda speranza” che aveva reso il Portogallo, per qualche anno, una piccola oasi per migliaia di lavoratori della conoscenza e anche per diverse imprese europee, attratti i primi dalle possibilità di esistenza altrove inesistenti e le seconde da un basso costo della manodopera.
Neanche António Costa, primo ministro da otto anni esatti, essendo entrato per la prima volta nelle sue funzioni nel lontano 26 novembre 2015, per la verità, sta molto meglio. Sembra ormai lontana la gloria che ne aveva fatto l’ultimo campione dell’ammaccatissima sinistra europea, quando nel 2015, contro il parere dell’allora presidente della Repubblica di centrodestra, Cavaco Silva, aveva deciso di accettare la proposta del Partito comunista di un accordo parlamentare tra socialisti e i due partiti della sinistra estrema, PCP, appunto, Bloco de Esquerda, per mettere un punto alle politiche imposte dalla Troika, che avevano riportato le aspettative di futuro dei portoghesi indietro di anni. Ne erano seguite alcune politiche di sostegno allo stato sociale che, nei limiti di una correttezza contabile comunque invidiabile per molti altri Paesi europei, erano riuscite a limitare il soffocamento economico imposto dalle precedenti politiche di austerità. La strana “geringonça” (macchinetta) della sinistra portoghese s’incrina già con le elezioni del 2019: senza accordi programmatici, il PS dà vita ad un altro monocolore che guiderà il Paese durante i difficili anni della pandemia, facendosi sostenere un po’ dalla sinistra del Bloco de Esquerda e un po’ dal centrodestra del PSD. Uscito dalla crisi pandemica con una situazione sociale tutto sommato stabile e senza gli scossoni polemici di altri contesti europei, Costa decide che è venuto il momento per uscire dall’impasse cui lo costringono i ricatti di una maggioranza parlamentare relativa. Con un altro capolavoro strategico-politico per molti degno di miglior causa, alla fine del 2022 Costa decide, con l’accordo del Presidente Marcelo Rebelo de Sousa, di mandare il Paese verso le elezioni anticipate, basando la sua campagna elettorale da un lato sull’esigenza di governabilità, dall’altro sullo spettro dell’avanzata dell’estrema destra che aveva eletto il suo primo rappresentante nelle elezioni precedenti. Le elezioni gli danno ragione, attribuendo al Partito socialista una maggioranza assoluta, in gran parte strappando voti ai partiti di sinistra da cui Costa si era fatto appoggiare fino a quel momento, senza per questo perderli a favore del maggiore partito di centrodestra, il PSD, che vede invece crescere alla sua destra partiti di estrema destra come Chega e Iniciativa Liberal.
Il sogno di gloria di tanti leader socialisti sembra dunque essersi realizzato: Antonio Costa può guidare il Paese a suo piacimento per altri quattro anni, garantendolo da quella instabilità che i portoghesi vivono con un’ansia forse connaturata allo schock determinato da un “sogno europeo” infranto, anche simbolicamente, dall’arrivo della Troika, a una giovane democrazia nata con un colpo di Stato militare che dimette l’ultimo dittatore, professore di diritto, il quale proprio per “non farlo cadere nelle strade”, aveva consegnato il suo potere a un vecchio generale, eroe della guerra coloniale, infine a una popolazione, oggi in drammatica crisi demografica, che non ha mai visto una crescita economica effettivamente garantita da risorse endogene.
Da qui, la svendita al miglior offerente, una svendita che il Partito socialista tenta di governare con alcune compensazioni sociali, del mercato immobilare delle sue uniche due grandi città, Lisbona e Porto, e delle poche risorse naturali che il Paese possiede, oltre che la scommessa sulla grande industria predatoria del turismo. Mentre la generazione che ha compiuto la rivoluzione inevitabilmente invecchia o muore, Costa può ambire dunque, nel bene e nel male, a un ruolo di statista che il Paese non conosce dai tempi dell’ultimo grande vero statista e padre della patria democratica, anche lui socialista, Mário Soares. Le opposizioni sembrano al palo, il Presidente della Repubblica, il giurista Marcelo Rebelo de Sousa, così chiamato per i vincoli che legavano la sua famiglia all’ultimo dittatore portoghese, Marcelo Caetano appunto, ridotto a una macchietta populista per i giornali satirici.
Eppure, proprio il terzo mandato di Costa appare il più fragile. Piccoli e grandi scandali interni al governo, dimissioni di ministri, inspiegabili interventi dei servizi segreti, ruberie di armi, giochi di corrente, rivelano la fragilità su cui si poggia l’apparentemente onnipotente politica socialista e le stesse regole democratiche. Si aggiunge a tutto questo una situazione sociale ai limiti dell’esplosivo: l’aumento dei tassi viene solo parzialmente mitigato da una politica di blocco temporaneo degli interessi – in realtà si tratta solo di un rinvio, mentre il costo delle abitazioni è compensato da alcuni sostegni alle fasce sociali più in difficoltà. La contrazione delle politiche d’investimento nel settore pubblico provocano invece uno scontento sempre più evidente delle categorie che formano il nerbo dello stesso elettorato socialista: la sanità e la scuola.
Non tutto, dunque, sembra correre per il meglio: il quasi statista Costa appare spento, grigio, quasi appeso di malavoglia alla sua maggioranza assoluta e al sostegno dei grandi vecchi delle istituzioni portoghesi: al presidente Rebelo de Sousa, che, da destra viene criticato per non essere sufficientemente esigente col primo ministro; al lontano ex leader socialista António Guterres, ora segretario generale dell’Onu tra i leader occidentali più radicali a chiedere il rispetto delle regole di guerra in un mondo precipitato d’improvviso nell’angoscia bellica. Tuttavia, nel Paese dei blandi costumi nulla sembra davvero toccare il Primo ministro, ridotto ormai all’ombra dell’antonio Costa di anni fa. Anche se qualcosa bolle già in pentola, e non solo nelle fragili opposizioni politiche e sociali.
Nella pausa pranzo di un qualunque martedì di novembre, chi si apprestava a bere il caffè si ferma con la tazzina in mano. Chi stava mangiando smette di farlo. Il rumore di stoviglie e di chiacchiere ha una sincope. António Costa sta annunciando le sue dimissioni in diretta tv. L’antefatto si spiega subito: in mattinata, a mezzo stampa, una inchiesta della magistratura ha annunciato la detenzione di due stretti collaboratori di Costa, il suo capo di gabinetto e il “suo migliore amico”, la perquisizioni della stessa residenza ufficiale del Primo ministro, l’avviso di garanzia per uno dei suoi ministri più discussi e più ferocemente difesi dallo stesso Costa, João Galamba, e allude a una possibile futura indagine riguardante Costa, al momento esente però da qualunque accusa. L’accusa è di malversazioni e abusi riguardanti la concessioni di miniere di litio e la riqualificazione dell’area industriale di Sines – la stessa area che era stata proposta in sede europea, durante i primi mesi della crisi russo-ucraina, come il terminale marittimo di un nuovo gasdotto, necessario all’Unione per sganciarsi dalla dipendenza russa. In causa sembra dunque la questione che attraversa come un cappio al collo la politica economica del Paese: ovvero, la ricerca di risorse endogene, la vendita di tecnologie avanzate che sfruttino la posizione geografica del Paese, l’investimento su tecnologie verdi che attirino capitale straniero.
Quel che rivela l’inchiesta della magistratura è una certa smania del governo socialista di rendere il Paese “appetibile” ad investimenti stranieri: in fondo, è la stessa strategia, provocata all’inizio dalle liberalizzazioni forzate della Troika, che ha guidato via via le politiche immobiliari, la detassazione dei fondi pensionistici stranieri, la costituzione dei cosiddetti Visa Gold, con cui lo Stato portoghese ha letteralmente venduto dei permessi di residenza previo acquisto di patrimonio immobiliare, persino l’attribuzione della cittadinanza a discendenti degli ebrei sefarditi perseguitati del Cinquecento. Previo, chiaro, sostanziale versamento nelle casse dello Stato. Fare soldi a qualunque costo, per un Paese con un capitale fragile e un’economia che arranca può apparire giustificabile per sostenere lo Stato sociale. Persino cambiare opinione circa la svendita degli asset strategici può esserlo: ne è esempio il capovolgimento di prospettiva dello stesso Costa, prima ferocemente contrario, poi ferocemente favorevole alla vendita della compagnia aerea nazionale, la TAP.
Al contempo, l’inchiesta della magistratura svela la poca cautela, per usare un eufemismo, con cui il leader socialista sceglie i suoi collaboratori: ovvero attraverso pratiche amicali e familistiche che, come ha commentato qualche attento osservatore, fa prevalere la fiducia personale sulla capacità e sulla correttezza etica, quando non politica. Sembra dare ragione al giudizio su questo pessimo profilo gestionale di marca socialista il licenziamento in tronco del proprio capo di gabinetto, Vítor Escária, cui è costretto Costa appena qualche giorno dopo le proprie dimissioni, quando viene svelato che nella stessa sede ufficiale del Primo Ministro, il Palazzo di S. Bento, vengono trovate banconote per un valore di 75800 euro nascoste tra i libri e dentro casse di vino.
Ma l’improvvisa esplosione dell’inchiesta della magistratura, con i consequenziali provvedimenti di fermo, propongono anche una nuova questione: ovvero il rispetto della suddivisione dei poteri. In seguito ad essa, “ovviamente”, Costa decide di dimettersi, dando vita a quello che nelle ore immediatamente successive la stampa portoghese deve rapidamente riconoscere come un “terremoto politico”. E lo è. Lo è però non solo per il fatto che sono i più stretti collaboratori di Costa ad essere messi in causa, arrestati o messi sotto inchiesta, ma perché si allude anche, e solo attraverso una comunicazione a mezzo stampa, ad una indagine in corso che coinvolgerebbe anche il Primo Ministro. Nella comunicazione la magistratura afferma infatti di essere a conoscenza di intercettazioni nelle quali i suoi collaboratori invocano “il nome e l’autorità del primo ministro al fine di sbloccare procedimenti in corso”. Non si ha dunque notizia di reato direttamente commessi da Costa e si rimanda a una eventuale inchiesta che solo la Corte suprema, competente per reati commessi dalle più alte cariche dello Stato, potrebbe svolgere.
Inutile aggiungere che, a un osservatore italiano, la vicenda ricorda da vicino lo scandalo seguito all’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, che diede vita alla stagione di Tangentopoli, con la conseguente caduta del leader socialista Craxi e dell’intero sistema della Prima Repubblica. Da lì, la nascita di quella trasformazione in senso maggioritario e poi compiutamente premierale della forma politica italiana, con la parallela nascita di quell’“antipolitica” su cui si sarebbe costruita la fortuna politica di Silvio Berlusconi, con le conseguenti storture determinate dai ripetuti tentativi della magistratura di sostituirsi al potere politico e del potere politico di controllare a sua volta la magistratura. Da lì, anche la sistematica perdita di autonomia nella gestione della sovranità dei conti pubblici, sempre più sottomessa alla gestione acritica del debito pubblico e la costituzione di una élite politica sempre meno in grado, in politica internazionale, di formulare una visione geopolitica o di politica economica in grado di garantire quell’autonomia. Mancano solo, per concludere un indebito paragone, le monetine gettate in strada a Bettino Craxi, monetine a cui António Costa non sembra condannato, nel momento in cui decide di uscire in strada subito dopo le dimissioni affrontando a viso aperto eventuali contestazioni.
In effetti, il parallellismo non si ferma qui. Oltre a non coinvolgere, se non indirettamente, il Primo ministro, che non ha ricevuto fino a quando scriviamo nessun avviso di garanzia, la tempistica dell’inchiesta è per lo meno sospetta: essa arriva nel momento in cui sono ancora in corso le contrattazioni con le parti sociali per la definizione della Legge di Bilancio, da approvare entro fine anno. Con le dimissioni di Costa, lo stesso procedimento decadrebbe e l’azione del governo sarebbe costretta alla pura e semplice gestione corrente, fino alla formazione di un nuovo governo.
È qui che entra in gioco la costituzione semipresidenziale portoghese, direttamente legata, se vogliamo, a quel passaggio simbolico e storico in cui, durante la Rivoluzione del 25 aprile, Marcelo Caetano attribuisce i suoi poteri al generalissimo Antônio de Spínola. Per quanto divisa a metà con l’Assemblea da República, il Parlamento portoghese, la sovranità è infatti attribuita per il 50 per cento al Presidente della Repubblica, eletto direttamente.
La nomina del premier è infatti competenza diretta del Presidente e il governo non deve passare, per entrare in funzioni, di una fiducia parlamentare: gli è sufficiente garantire una maggioranza ai suoi provvedimenti. Marcelo Rebelo de Sousa ha allora varie opzioni: può accettare subito le dimissioni ed indire nuove elezioni; può, essendoci una maggioranza parlamentare ben consolidata ed essendoci state elezioni solo un anno e mezzo prima, attribuire un mandato ad un nuovo premier che porti a termine la legislatura; oppure può evitare di formalizzare le dimissioni, permettendo al governo di presentare la Legge di Bilancio e al Parlamento di approvarlo, mantenendolo nel pieno delle sue funzioni per un mese. Escludendo la prima ipotesi, che lascerebbe il Paese senza Legge di Bilancio e con una società in fermento, ma anche contrariamente a quanto proposto dallo stesso Costa e dal Partito Socialista, in accordo con lo stesso Presidente, di tentare la seconda via, Marcelo Rebelo de Sousa sceglie la terza: il governo rimane nella sua completa funzionalità per un mese, diminuito e anche deresponsabilizzato, evidentemente, nella sua capacità di contrattazione (difficilmente le parti sociali si potrebbero sognare di chiedere migliori condizioni, visto che dalla prossima tornata elettorale difficilmente uscirà un governo di centro-sinistra). Costa risulta così appeso a doppio filo alla volontà presidenziale, nonostante l’altra metà della sovranità pubblica – quella rappresentata dal Parlamento – stia dalla sua parte. A questo si aggiunge il cappio al collo di una inchiesta giudiziaria, che lo lambisce ma non lo tocca direttamente: dimettendosi, Costa non può dimettersi del tutto, portando per intero gli oneri, ma non gli onori, del governo. Una piccola, personale vendetta di un presidente dall’ego smisurato, ridotto per troppi anni a figura di comparsa dello scenario politico?
Sintomatica è, per lo meno, la maniera con cui Rebelo de Sousa giustifica la sua scelta di sciogliere il parlamento: così come aveva detto nel suo discorso di affidamento dell’incarico a Costa, attribuisce al solo Costa anche il successo elettorale e la conseguente maggioranza assoluta ottenuta nel 2022. Venendo meno Costa, verrebbe meno anche la garanzia del rispetto della volontà popolare. Un’attribuzione che, da un punto di vista di diritto costituzionale risulta però intrisa, per lo meno, di una interpretazione del tutto personale delle funzioni presidenziali e del processo elettorale, non essendoci in Portogallo un premierato, ed essendo il procedimento elettorale, su base proporzionale, indirizzato all’elezione dei deputati integranti un Partito (come infatti riferirà Costa, sulla scheda elettorale gli elettori hanno espresso la preferenza sul pugno chiuso del Partito e non sulla sua faccia).
Se la scelta di tenere in stand by un governo dimissionario, senza approfittare della stabilità determinata dalla presenza di una maggioranza parlamentare, assume il volto di una prevaricazione della parte parlamentare della sovranità da parte del Presidente della Repubblica, la scelta di non andare subito alle elezioni interferisce con quell’appello finale agli elettori con cui Rebelo de Sousa indice nuove elezioni per il 10 marzo: “la democrazia non deve avere paura del popolo”.
All’ambiguità giuridica della decisione presidenziale si aggiunge anche la stranezza con cui il Presidente decide, nella sua autonomia comunque garantita costituzionalmente, di non rispettare il mandato consultivo del Consiglio di Stato che, dividendosi tra quanti appoggiano e quanti rifiutano la continuazione della legislatura e un nuovo incarico, di fatto disapprova la linea di andare ad elezioni, probabilmente in nome della stabilità di governo. Una linea che, come lo stesso Costa rivela alla fine della riunione del Consiglio di Stato, era stata approvata dallo stesso Presidente, il quale gli aveva dato mandato di verificare la disponibilità, ufficialmente data, del Presidente del Banco de Portugal, l’economista socialista Mário Centeno.
Con una singola mossa, appaiono dunque messi in crisi i principali poteri dello Stato: un primo ministro dimissionario per sospetto di corruzione, una maggioranza parlamentare resa inefficace, un Consiglio di Stato il cui parere è reso inutile, un presidente della Repubblica che prende parte attiva nel processo politico attraverso una interpretazione completamente personale dei processi elettorali, la principale istituzione economica dello Stato messa alla berlina (per la verità, anche per una conseguenza della stessa scelta di Costa di mettere un suo pupillo, nonché suo ex ministro, alla guida del Banco de Portugal), una magistratura che interviene a gamba tesa e con una tempistica inattesa, avendo attivato le procedure da almeno un mese, nel cuore dei procedimenti legislativi del Paese, ovvero l’approvazione del Bilancio.
Perché, c’è da chiedersi: cosa accadrà se i procedimenti giudiziari rimarranno senza effetto e se la stessa fedina penale di Costa rimarrà intonsa? Tra le poche cose certe c’è una campagna elettorale tutta programmaticamente rivolta, da destra, contro il sospetto di corruzione del Partito socialista e da sinistra contro la probabilissima crescita dei partiti di estrema destra che proprio della corruzione hanno fatto il proprio cavallo di battaglia. Il tutto in un contesto di crisi sociale come non si vedeva, in Portogallo, da molto tempo. Una campagna elettorale del resto già iniziata con la passeggiata notturna che il premier Costa ha voluto fare, mano nella mano con la moglie, quasi da privato cittadino, dal palazzo di S. Bento, sede del suo ufficio istituzionale e oggetto delle perquisizioni giudiziarie, fino al largo do Rato, dove ha sede il Partito socialista, per indire il congresso straordinario da cui uscirà, già il prossimo mese, il nuovo segretario, quasi certamente Pedro Nuno Santos, fino al gennaio passato Ministro delle Infrastrutture e strenuo difensore della costruzione di un nuovo aeroporto di Lisbona così come della nazionalizzazione della compagnia di bandiera aerea: due misure che Costa ha, dopo averle sostenute, sconfessato, costringendolo alle dimissioni.
Ma è nei particolari che si nasconde il diavolo: proprio il nome del presidente del Banco de Portugal Mário Centeno, al centro del sostegno poi ritirato del Presidente Rebelo de Sousa, potrebbe essere il jolly da giocare se le urne, a marzo, dovessero consegnare un Parlamento troppo frammentato, con la crescita prevedibile dei partiti minori, a destra e a sinistra e la caduta libera dei due partiti che hanno garantito le maggioranze governative portoghesi. Potrebbe essere Centeno, o una figura tecnica come la sua, e nonostante gli attacchi immediati del centrodestra alla sua figura, ora tacciata di non essere abbastanza indipendente, a coagulare intorno a sé un’alleanza di centro in grado di gestire i milioni di fondi del PRR.
Come ha affermato il vecchio capitano di aprile, Vasco Lourenço, antico governatore militare di Lisbona, si tratterebbe del “peggiore attacco” ai valori della rivoluzione che ha dato vita alla democrazia portoghese, o addirittura di un “colpo di Stato” politico-giudiziario. Sarebbe cioè un ennesimo esempio di “Law-fare”, golpe avvenuto non per mano militare o politica, ma per mano giudiziaria, tra i molti che avrebbero colpito Paesi i cui governi tentavano di difendere ancora un qualche stato sociale e una qualche autonomia dal capitale finanziario: il Brasile di Dilma Rousseff su tutti. I capitani di aprile, ormai anziani tra i settanta e gli ottant’anni, sono in allarme: se Costa non arriverà ad essere neanche imputato, a dimettersi dovrebbe essere chi nella Procura Generale della Repubblica ha provocato un procurato allarme, ma con effetti sensibilissimi.
Con la morte politica di António Costa, sia essa temporanea o definitiva si vedrà – e lo vedranno forse gli storici se si sarà trattato di un assassinio o di un suicidio – sembra chiaro in ogni caso che, più che nella fine di un ciclo politico durato otto anni, la rottura in atto potrebbe tradursi nella fine di un regime politico-istituzionale nato cinquant’anni fa, ispirato dalla duplice e complementare sovranità presidenziale-parlamentare. Le conseguenze saranno comunque gestite da un ceto politico delegittimato dai sospetti di corruzione che favorirà la crescita dei partiti d’ordine. Soprattutto nel caso in cui le accuse non siano confermate, si legittimerà il sospetto che, come già accaduto in altri Paesi europei, si sia approfittato di una corruzione comunque presente per destituire la costituzione dei suoi pesi e contrappesi e per avviare il processo di costruzione di una costituzione materiale che dà all’esecutivo, o allo stesso Presidente della Repubblica, un potere in grado di governare dall’alto le sfide di un potere democratico che, in una situazione di crisi come l’attuale e come quella che, probabilmente, verrà, sembra troppo pericolosamente poter “cadere nelle strade”. A cadere, in questo caso, non sarebbe solo un governo, ma un impianto democratico che, in Portogallo, aveva in qualche modo resistito alle scosse interne e geopolitiche degli ultimi decenni: alle istituzioni sempre più delegittimate si sostituirebbero così un populismo prima giudiziario e poi politico dal quale sarà gioco facile pretendere, alla fin fine, una soluzione “tecnica” in nome dell’assoluta governabilità dell’esistente.
“Nella storia dei popoli, – scriveva Manuel Antunes pochi anni dopo la rivoluzione d’aprile – così come nella storia dei gruppi significativi, così come nella storia degli individui, sorgono, a volte, momenti in cui si colloca il dilemma radicale: o rinascere o morire; o conversione a un’altro modo di essere e a una maniera di essere altro o sparizione nella necrosi. Il Portogallo è giunto a uno di questi momenti”.
Mai come adesso, il Portogallo sembra essere giunto di nuovo a uno di questi momenti, e non è detto che abbia le forze interiori, e la volontà popolare, come invece è accaduto in altri momenti della sua storia, di scegliere come e se essere diversamente. Tutto sembra giocare, dentro e fuori il Paese, contro quella che, ancora una volta, grazie ai lunghi anni di governo Costa, è stata l’apparente eccezione portoghese. Eppure, come ha scritto di recente lo storico portoghese José Eduardo Franco: “Il Portogallo è un Paese irrealizzato che sempre si è realizzato”. Vedremo presto come e se si realizzerà, una volta ancora.
Aggiornamento 12.11.2023: L’avvocato di uno degli inquisiti, Lacerda Machado, dichiara che il riferimento al primo ministro António Costa presente nelle intercettazioni – e all’origine delle dimissioni di Costa e della crisi politica che ne è derivata – nasconderebbe in realtà un caso di omonimia. Il Pubblico Ministero avrebbe infatti dichiarato che l’António Costa al centro delle intercettazioni sarebbe in realtà il ministro dell’Economia António Costa Silva.