DI LUCA LUPO*
Qualche settimana fa Alain Elkann, scrittore e giornalista agiato e agée, in un articolo apparso su Repubblica aveva raccontato le sue disavventure di viaggio sulla tratta ferroviaria Roma-Foggia. Si lamentava dell’abbigliamento, della rumorosità e dei modi, poco urbani, a suo dire, di alcuni giovani con cui condivideva lo scompartimento, al punto da definirli “lanzichenecchi” perché con la loro invadenza gli impedivano di leggere Proust, il Financial Times e di prendere appunti con la stilografica sul suo taccuino.
Cambiamo scenario ma restiamo in una città di provincia del sud. Fine agosto. Strade ancora deserte e silenziose. Decido di andare al cinema per vedere Oppenheimer di Cristopher Nolan. Pochi minuti a piedi per raggiungere il cinema. Mi muovo giusto in tempo per arrivare all’ora della proiezione e aspettare il meno possibile. Immagino che non ci saranno molti spettatori: piove; finalmente fa più fresco. Quando arrivo davanti al cinema assisto a una scena del tutto inaspettata. Una folla riempie la strada e si assiepa davanti alle porte. Una folla di giovani e giovanissimi; ragazze e ragazzi tra i 14 e i 25 anni. Da anni ormai sono abituato a ritrovarmi nel cinema con poche decine di coetanei di mezza età. Il cinema ha due sale. Un pregiudizio pre-senile che avrei preferito non avere e un accesso di infondato snobismo del quale mi vergogno mi spingono subito a pensare che non è possibile che una folla del genere si sia radunata lì per vedere Oppenheimer. Forse lo spirito di Alain Elkann è entrato definitivamente nel mio corpo e mi domando ancora se nell’altra sala non proiettano Barbie o qualche film Marvel. Degli amici mi aspettano e mi fanno cenno invitandomi a raggiungerli nella fila. Iniziamo a parlare; chiedo quale altro film è in programmazione oltre a Oppenheimer: niente Barbie e niente Marvel. Un altro film non commerciale. Ormai non c’è che da rassegnarsi all’evidenza: quella folla di giovani e giovanissimi in attesa di comprare il biglietto è lì proprio per vedere un film di tre ore che racconta la storia di uno degli artefici della bomba atomica.
È vero che grazie a una promozione governativa il prezzo del biglietto costa poco più dell’equivalente di un litro di benzina e quanto un chilo di frutta, ma è anche vero che i ragazzi potrebbero fare altro in una sera di lunedì di fine estate: ciondolare per la città un po’ chiacchierando e un po’ dando un’occhiata al cellulare sempre in mano su cui di tanto in tanto digitano messaggi a velocità prodigiosa guardando lo schermo che illumina volti su cui si intuiscono i diversi stati d’animo generati dalle risposte. Potrebbero andare in giro per locali per ritrovarsi, chiacchierare, bere.
È vero anche che l’uscita del film nelle sale è stata sostenuta da una campagna pubblicitaria imponente che deve avere suscitato una grande aspettativa. Ma non è la prima volta che questo accade e non sempre funziona. Accade piuttosto che si aspetti l’uscita digitale di un film su qualche piattaforma; i giovani soprattutto, veri maghi nella fruizione di versioni piratate e pusher provetti di film a genitori boomers cinefili.
Niente di tutto questo vale per Oppenheimer. La fila al botteghino defluisce, la sala si riempie. L’ultima volta che ho visto la sala di questo cinema riempirsi fino all’inverosimile in questo modo è stato decenni fa. Le operazioni di ingresso e sistemazione sono durate più del previsto; non è rimasto molto tempo né per la pubblicità né per i trailer della prossima programmazione. Sono quasi le dieci di sera. Accompagnata da cori di sibili che invitano al silenzio la proiezione incomincia.
Un richiamo a Prometeo che ruba il fuoco agli dei per farne dono agli uomini ed è destinato a pagare in eterno per questa tracotanza introduce il film e gli spettatori nella tradizione tragica.
Da subito il ritmo è sostenuto, una fantasmagoria di colori, visioni, dialoghi serrati, rapidi spostamenti avanti e indietro sull’asse temporale della narrazione scanditi dall’alternarsi tra scene a colori e scene in bianco e nero. La prima parte del film segue il modello del romanzo di formazione e racconta la storia di un giovane fisico americano di origini ebreo-tedesche che si muove tra Stati Uniti ed Europa e si confronta con le più grandi menti nel suo campo: Heisenberg, Bohr, Einstein. Oppenheimer è uno spirito profondo e inquieto ma allo stesso tempo amante della vita, appassionato e passionale nell’amore, brillante nella conversazione, prima allievo insubordinato e poi maestro coinvolgente impegnato politicamente e che invita i suoi allievi alla militanza; vicino al partito comunista in un paese visceralmente anticomunista.
La seconda parte è dedicata alla perdita dell’innocenza scientifica. La passione della conoscenza del protagonista, la purezza immacolata della teoria, il suo spaziare tra l’infinitamente piccolo della fisica quantistica e l’infinitamente grande delle apocalissi siderali ancora nascoste all’occhio umano e soltanto immaginate attraverso la formalizzazione matematica, sono piegati alle esigenze della guerra.
In una pausa di lezione, l’allievo Oppenheimer avvelena una mela, lo spuntino di un suo maestro con cui ha avuto una discussione. Per un soffio riesce a evitare che accada l’irreparabile ed entra in analisi per comprendere il senso del suo atto.
Non importa in che misura la licenza narrativa sia storiograficamente fondata. Nolan riprende un topos fin troppo facile ed esplicito che tuttavia riesce a mantenere la sua efficacia: aggiunge la mela di Oppenheimer alla successione di mele fatali presenti nel mito (il frutto dell’albero della conoscenza nella Genesi), e nella storia della scienza (la mela di Newton) passando attraverso la fiaba (la mela avvelenata della strega in Biancaneve). La mela di Oppenheimer è una sorta di condensazione tra le tre: l’intuizione scientifica rappresentata dalla mela di Newton, la dimensione creativa che la scienza condivide con l’arte ha perso per sempre la sua innocenza. L’arte dello scienziato si trasforma in stregoneria omicida.
Anche se la potenziale singola vittima è salva, anche se le conseguenze più gravi sono state scongiurate, per il momento, l’atto è stato compiuto, il dado è tratto: il frutto è stato avvelenato. Quando ci si scopre capaci di uccidere un uomo allora “tutto è permesso”; nulla impedisce di ucciderne a decine, a centinaia, a migliaia.
Così, l’albero della conoscenza viene coltivato per produrre una “grande mela” avvelenata. La “grande mela” questa volta non richiama l’immagine di Manhattan anche se per singolare coincidenza “Manhattan” è il nome del progetto elaborato per coltivarla.
Il visionario, idealista, malinconico e suscettibile allievo ha dimostrato a sé stesso di poter uccidere. E ha dimostrato che la comunità scientifica è fatta di umani, troppo umani; che le loro passioni, i loro affetti, i loro rapporti interpersonali, i loro sistemi di valore condizionano l’esercizio della scienza, ne determinano il corso, lo distorcono, lo attraversano. Come l’osservatore in un esperimento, il soggetto della scienza ne perturba il corso inesorabilmente, sceglie e decide quale direzione debba seguire guidato da motivazioni che gli sfuggono e che lo eccedono, nonostante la più pura aspirazione all’oggettività. Nonostante le innumerevoli resistenze a riconoscerlo, la dimensione etica, la dimensione dell’atto fonda la scienza e la precede.
L’episodio della mela introduce idealmente la seconda parte del film che racconta il lavoro collettivo frenetico e concitato alla costruzione della bomba fino alla sua esplosione.
Se nella seconda parte Nolan racconta come la scienza sganciata dall’etica produca mostri, nella terza diventano manifesti i mostri generati da un diritto sganciato dall’etica e ridotto a semplice strumento per l’esercizio di egemonia da parte di chi esercita il potere.
Oppenheimer deve fronteggiare nemici esterni e interni: da una parte si dibatte nel tentativo di arginare l’attacco politico contro di lui condotto attraverso un’inchiesta-farsa in cui è chiamato a rispondere delle sue simpatie comuniste, dall’altra deve fare i conti con il senso di colpa derivante dalle conseguenze tragiche della sua attività di scienziato. Il confronto con i nemici esterni è drammatico, defatigante, ma, tutto sommato, sostenibile. La ferita alla credibilità è rimarginata, l’accusato moralmente risarcito. Gli accusatori, in rotta, devono ripiegare. Tutt’altra cosa è la resa dei conti sul fronte interno. Qui l’angoscia non dà tregua; la ferita resta aperta e nel reale quotidiano, all’improvviso, irrompono fantasmi di annientamento e di morte: mentre cammina, Robert inciampa nel corpo carbonizzato della vittima di un bombardamento nucleare; sull’intera superficie del pianeta vede alzarsi le colonne di fumo di infinite esplosioni.
Il film finisce; scorrono i titoli di coda. Nella sala ancora buia, applausi. Inattesi come il pubblico di giovani all’entrata del cinema. Pubblico che ha saputo cogliere – con buona pace di Elkann – l’essenza di un film polifonico, al di là degli innumerevoli riferimenti e dettagli che ne formano la trama complicandola anche troppo: storici, politici, scientifici e culturali, non tutti e non per tutti facili da afferrare. Questo tuttavia può non essere un limite ma rivelarsi un merito e una ricchezza del film di Nolan come di ogni opera d’arte che sia davvero tale: essere una sorta di reagente in grado di fornire degli spunti che spingano il pubblico a continuare a pensare e a interrogarsi, ma che, soprattutto, lo spingano ad agire.
Il pubblico esce dalla sala. Nonostante l’ora tarda e la pioggia intermittente, si formano capannelli; gli spettatori discutono a caldo. Piace pensare che l’entusiasmo e la curiosità di una sera al cinema possa rappresentare un passo verso la coscienza del fatto che la pace è un valore non negoziabile; qualcosa che si deve conquistare e difendere attivamente e che richiede il contributo di ciascuno.
Molti che se ne intendono dicono che non è un buon film: troppa confusione, troppi ammiccamenti al mercato e ricerca di effetti grossolani a buon mercato; intrecci narrativi sgangherati; scelte stilistiche discutibili; gratuità pornosoft; incongruenze filologiche e di sceneggiatura; oblio dell’alterità ferita; apologetica filoamericana (in un film in cui gli americani escono a pezzi su tutti i fronti).
A volte, a quelli che se ne intendono capita che il sapere troppo e il bisogno infantile di sfoggiare questo sapere, impedisca paradossalmente di vedere quello che c’è di significativo in un film, spinga a enfatizzare gli errori letterali; a elencare quello che non c’è e avrebbe dovuto esserci; a vedere anche cose che non ci sono.
Personalmente non so dirvi se sia un buon film. E non sono nemmeno sicuro che mi sia piaciuto. Ma quello che il film racconta ha così tanto a che fare con l’essenziale e tocca ciascuno di noi così da vicino, da compensare e superare i limiti dell’opera. Con buona pace anche degli esperti di cinema, alla luce del momento presente e a giudicare dall’interesse che suscita, resta il fatto che Oppenheimer assume il valore di un atto politico; qualunque sia stata l’intenzione del suo autore.
*Università della Calabria | luca.lupo[at]unical.it