di Franco Berardi “Bifo”
[Anticipiamo questo articolo di Bifo dal numero 6, in uscita in ritardo, di Thomas Project. A Franco, come a tutti, avevamo posto una domanda: “Che cos’è l’Italia?” Il testo in pubblicazione è visionabile qui]
Caro Gianfranco,
ti assicuro che ci ho provato. Per un paio di settimane ho provato a scrivere questo articolo che mi hai chiesto per la rivista. Ho tentato di rispondere alla domanda: cos’è l’Italia? Ma purtroppo non ci sono riuscito. Non ci riesco.
Le ho provate tutte, credimi, ma non mi viene fuori nessuna risposta sensata.
Dapprima avevo pensato di cavarmela dicendoti che Italia è un’entità che i poeti hanno immaginato femminile, ma che a un certo punto della storia moderna ha dovuto convertirsi brutalmente all’ordine maschile del progresso industriale e della forza militare senza riuscire benissimo nella transizione di genere.
Del resto il segretario fiorentino nel suo libro più celebrato definisce il potere politico proprio in base a questo primato del maschile.
«Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che rispettivo (rispettoso); perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batteria e urtarla. E si vede che si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano; e però sempre, come donna, amica dei’ giovani, perché meno respectivi, e più feroci e con più audacia la comandano.» (Niccolò Machiavelli: Il principe, paragrafo XXV)
Il principe è colui che con la forza possiede e soggioga ai suoi voleri la Fortuna, imprevedibilità degli eventi mondani, ché la Fortuna è femmina e volentieri si sottomette a chi la brutalizza.
Occorre dunque farsi maschi, se si vuole machiavellicamente gareggiare nella contesa del combattere e dell’accumulare, anche se la bellezza delle città d’Italia sta proprio nella loro femminile irregolare sensualità.
Nel Novecento la questione si fa drammatica, ecco allora che il Futurismo mostra i muscoli e i bicipiti, promette avventure strabilianti adora la macchina e disprezza la donna.
In generale la storia delle nazioni ha qualcosa di ridicolo, ma la storia nazionale italiana è ridicola per definizione, anche se disgraziatamente rotola nel tragico ogni qual volta i proclami e le pose devono misurarsi con la realtà delle guerre nazionali o della competizione economica.
Capisci, caro Gianfranco, avevo pensato, senza però riuscirvi, di scrivere su questo argomento: l’Italia come tentativo maldestro e mal riuscito di transizione o forse di travestimento. Ecco allora l’esibizione di una virilità esagerata, ecco allora le défaillance, i momenti di sbandamento e incertezza al momento di compiere scelte che i veri maschi compiono senza tentennamenti ma l’incerta matria che si vuole patria non riesce a compiere senza pentimenti, voltagabbanismi e susseguenti inevitabili disfatte.
Avrei voluto parlarti dell’azzardo del 1915, quando folle di esagitati studentelli e piccolo borghesi pretendevano l’intervento nella guerra europea. Poco importa dove, e poco importa perché ma dobbiamo batterci per cancellare il ricordo dell’Italietta, la svergognata femminella crepuscolare. Alla fine si decise di farla comunque quella guerra. Era del tutto inutile, dal momento che gli austriaci avevano promesso la restituzione dei territori irredenti (e anche un poco irridenti).
Si voleva combattere, accidenti (irridenti irredenti accidenti, qui si parla di cose dementi).
Si voleva combattere e si combatté.
Naturalmente fu una catastrofe.
O Gorizia tu sia maledetta per ogni cuore che sente coscienza
cantavano gli alpini mandati a morire a plotoni
Dolorosa ci fu la partenza e il ritorno per molti non fu.
Finita la guerra con la vittoria delle potenze dell’Intesa cui l’italia si era accodata in extremis per far bella figura, il presuntuoso presidente americano chiamò tutti a Versailles.
A Versailles Emanuele Orlando, primo Ministro del Regno d’Italia, dichiarò che in quella guerra l’Italia aveva sofferto cinquecentomila perdite più novecentomila feriti.
Mezzo milione di persone morte per niente, perché quell’intervento fu completamente inutile, insensato, autolesionista.
Fu tragico, ma la sua conclusione a Versailles nel 1919 fu invece comica.
Orlando e Sonnino rappresentavano l’Italia al Congresso che doveva decidere (e decise, purtroppo) le sorti del mondo. I due tentarono disperatamente di dare un’immagine maschia del loro paese, ma non ci riuscirono tanto bene.
Francia e Germania umiliarono Orlando e Sonnino e da quel momento Mussolini iniziò la sua ascesa verso il potere.
Ricapitoliamo gli eventi precedenti per chi non li ricorda bene.
Quando, nel 1914, l’attentato di Sarajevo diede avvio al conflitto, l’Italia doveva decidere se starsene in pace o partecipare a una guerra che non la riguardava. Gli italiani erano alleati degli imperi centrali, Austria e Germania, ma nel trattato d’alleanza c’era una clausola che li esautorava dall’intervenire. L’alleanza aveva carattere difensivo, e poiché l’Austria aveva attaccato la Serbia per vendicare la morte del povero Francesco Ferdinando, l’Italia poteva dire ce ne stiamo fuori.
Ma no.
Bisognava cancellare la neghittosa femminuccia e affermare un’immagine virile, dunque in guerra bisognava entrarci anche se non era chiaro né come né perché. Nella primavera del 2015 gli italiani Orlando e Sonnino andarono a Londra dove venne firmato un Trattato nel quale agli ingenui italiani Lloyd George e Clemenceau promisero mare e monti in cambio dell’entrata italiana nella guerra.
«Vi diamo la Dalmazia e l’Istria, vi diamo l’Albania vi diamo un po’ di Grecia e magari anche un po’ di Turchia.» Promisero l’inglese e il francese, così gli italiani entrarono in guerra e presero un sacco di inutili legnate.
Ma quando, dopo la fine della guerra Orlando e Sonnino si recarono a Versailles per regolare le cose del mondo, credevano di essere trattati come vincitori. Invece francesi e inglesi li trattarono come i parenti poveri che hanno troppe pretese sull’eredità. I fetenti avevano dimenticato tutte le promesse del Trattato di Londra. Se ne fottevano insomma di quei due italiani, che come Totò e Peppino stavano sulla soglia col cappello in mano, mentre Mussolini e D’Annunzio agitavano le folle nelle città italiane.
Georges Clemenceau disse: «Orlando crede che io sia come il re Stanislao di Polonia che fu morso da un cane, e non solo perdonò l’animale, ma gli diede anche un pezzo di formaggio. Il mio nome è Georges, non Stanislao. Non intendo dare del formaggio a quei ragazzi che hanno tagliato la corda a Caporetto. Sopravviverò alla promessa del trattato e aggiungerò l’espressione del mio profondo disprezzo.»
A Caporetto erano morti centomila giovani arrivati da ogni paese della penisola, che non sapevano neanche che andavano a fare. Ma Clemenceau credette di poter fare lo spiritoso.
Il giorno di Pasqua a Versailles ci fu un ultimo incontro con quei rompiscatole degli italiani. Orlando proruppe in lacrime tra l’imbarazzo dei presenti. Poi abbandonarono il Congresso e tornarono in Italia dove si alzava il grido: Vittoria mutilata, mentre D’Annunzio si preparava a partire in automobile alla testa di duecento prodi per conquistare Fiume.
Avrei voluto raccontarti cose così, capisci, Gianfranco? Ma poi mi sono reso
conto del fatto che occorrerebbe una penna sublime per dare forma sensata a tutto questo, perché il nazionalismo è troppo idiota perché si possa parlarne in modo sensato.
Avevo anche pensato di raccontarti dell’altra entrata in guerra, quella del 1940. Anche in quell’occasione il comico non manca, anche se il cinico prevale decisamente, e il tragico emerge dall’impasto ributtante di cinico e di comico.
Cinismo forse è la parola chiave. Ma che vuol dire cinismo?
Secondo Peter Sloterdik che al tema ha dedicato un libro (Kritik der Zinishen Vernunft, 1987) il cinismo è una situazione che spinge il filosofo a non capirci più niente. Un vuoto nel quale il bugiardo accusa il bugiardo di dire bugie.
Potremmo dire che la politica moderna si fonda sul cinismo, ma sarebbe esagerato. La politica è stata talvolta intelligenza e passione, non solo cinismo. Però non esageriamo affatto se diciamo che il nazionalismo si fonda sul cinismo, anzi non può esistere senza cinismo.
Nel 1939 maturano gli effetti del Congresso di Versailles. John Maynard Keynes, che aveva partecipato al Congresso in qualità di diplomatico, ha scritto un libro dal titolo Le conseguenze della pace per mettere in guardia dall’umiliazione della Germania (e dell’Italia). Ma chi se ne frega di Keynes e dei suoi consigli.
L’umiliazione genera mostri, e l’umiliazione che francesi e inglesi inflissero alla Germania generò il mostro più spaventoso di tutti, il nazismo.
L’umiliazione inflitta a Sonnino ed Orlando generò un mostriciattolo appena un po’ meno devastante, il fascismo italiano.
Nel 1939 i nodi dell’umiliazione vennero al pettine e presero la forma della vendetta.
Hitler violò tutti gli accordi senza pensarci due volte, e nel settembre di quell’anno invase la Polonia, stipulò un patto di non aggressione con l’Unione sovietica, poi si precipitò verso occidente e in pochi mesi occupò il territorio francese.
Ancora una volta per la nazione italiana si poneva il problema se intervenire o no. Ancora una volta, come già nel ’14, la nazione italiana era impreparata allo scontro. Mussolini fu allora costretto, contrariamente alla sua vocazione e al suo sentimento, a dichiarare una condizione di non belligeranza. L’interventismo era l’origine del suo successo politico, perciò fu assai doloroso per lui assistere alle vittorie di Hitler senza potervi partecipare. Il gruppo dirigente fascista, a cominciare da Galeazzo Ciano, conosceva le incertezze del Duce, e i grandi gerarchi temevano il coinvolgimento nel conflitto: la guerra africana del 1936 e l’intervento in Spagna per appoggiare gli assassini franchisti avevano debilitato l’esercito italiano che non era preparato a entrare in una guerra di proporzioni continentali e ben presto mondiali.
Poi però l’avanzata della Wehrmacht si fece trionfale e nella primavera del 1940 le difese francesi furono sbaragliate e i tedeschi giunsero a Parigi e la occuparono. Insomma con ogni evidenza Hitler stava vincendo la guerra. Poteva il Duce rimanere a guardare?
Non era forse il momento di correre in soccorso del vincitore?
Mussolini ruppe gli indugi a giugno.
Nell’azzardo del 1915 la nazione italiana aveva brillato per tradimento e per idiozia. Nell’azzardo del 1939 quel che brilla è il cinismo, ma l’idiozia naturalmente non manca mai.
Avrei voluto parlarti di questi eventi, ma avrei finito per avere un tono moralistico che non mi piace. Poi mi è venuto in mente qualche riferimento alla cultura di quei tempi: mi sarebbe piaciuto ad esempio parlarti dell’autore che meglio di tutti esprime la commistione di estrosità femminile e maschio cinismo che si chiama Curzio Malaparte. Con sublime sprezzo del ridicolo Malaparte si lascia trasportare dalla tragedia della seconda guerra mondiale come fosse un evento mondano, pur non credendo che ci fosse nessuna possibilità di uscirne vincitori.
Occorre riconoscere che Malaparte colse il nucleo teorico, o piuttosto estetico del nazionalismo: il culto dell’insensatezza. In un libretto che uscì nel 1925 col titolo L’Europa vivente, Malaparte ci spiega che il fascismo è il riemergere del Barocco latino contro la Gotica razionalità.
«Noi saremo grandi anche senza passare, con un ritardo di tre secoli, attraverso la Riforma. La nuova potenza dello spirito italiano, che già si manifesta per chiari segni, non potrà essere se non antieuropea… Noi rappresentiamo, in Europa, un elemento di opposizione al trionfante spirito delle nazioni settentrionali: abbiamo da difendere una civiltà antichissima che rappresenta tutti i valori dello spirito contro una nuova eretica e falsa che si fa forte di tutti i valori materiali e meccanici.» (L’Europa vivente, 65-66)
Nella sua biografia di Malaparte Maurizio Serra lo paragona a Piero Gobetti, un uomo attento al mondo che lo circonda e alle persone che gli parlano.
«Curzio accanto a lui, non ha alcuna curiosità del mondo, occupato com’è a contemplare se stesso in un’indifferenza sovrana verso le cause degli eventi, verso l’economia la sociologia, le scienze sociali.»
Malaparte è attratto dal suono delle sue parole, dalla magnificenza terribile delle immagini, come quando, in Kaputt, racconta di centinaia di cavalli che, nella Finlandia invernale, fuggono dalla foresta incendiata dai bombardamenti e trovano riparo alle fiamme gettandosi in un lago mentre il fuoco non smette di terrorizzarli. E rimangono là tutta la notte, mentre il lago si gela, finendo pietrificati, in un terrificante nitrito interminable e fatale.
Nulla importa a Malaparte della sofferenza di quei cavalli, ma neppure gli importa della sofferenza dei napoletani di cui parla nel bellissimo romanzo La pelle. Di quella sofferenza solo gli importa la vibrazione estetica, come se la vita fosse uno spettacolo barocco.
Il Barocco torna con Malaparte sulla scena della storia italiana: l’estatico culto della superficie, il fremito pruriginoso senza pietà. Come non ricordare Benjamin che definisce il fascismo come estetizzazione della politica? Stupida estetizzazione della sofferenza altrui.
La mala fede del nazionalismo, l’idiozia del nazionalismo, la ferocia barbarica del nazionalismo sono tutte esposte negli scritti di questo toscano orgoglioso della sua vacuità.
Malaparte è un grande scrittore, e al tempo stesso è un cretino in senso proprio, cioè uno che si prende la libertà di rovinare la vita agli altri solo perché a lui piace l’avventura senza ragione e senza speranza.
Non più la ragione ma l’istinto, non più il progresso ma lo sprofondamento nell’ossessione della memoria, non il divenire ma l’identità.
Al centro dell’opera di Malaparte c’è la rivendicazione del Barocco come alternativa allo spirito protestante dell’Europa moderna, e questa forse ci aiuta a capire qualcosa dello specifico italiano da Benito Mussolini a Silvio Berlusconi, fino agli attuali fratelli d’Italia, con la vittoria che porta la chioma che schiava di Roma Iddio la creò.
Capisci Gianfranco, non riesco a scrivere l’articolo che mi hai chiesto perché mi scappa da ridere. E non è il caso di ridere, non è per niente il caso, come sai.
Che ci vuoi fare i fascisti sono così, quelli di ieri come quelli di oggi, con la differenza che quelli di oggi non hanno più la fremente passione giovanile futurista, ma sono geronto-futuristi incartapecoriti che agitano il rosario come l’osceno ex comunista padano che si delizia della morte per acqua di decine di migliaia di naufraghi, non cavalli irrigiditi dal gelo, ma bambini, e donne, e giovani uomini alla ricerca di salvezza in un continente di vecchi agonizzanti determinati a non concedere vita, incapaci di provare pietà.
Quello dei nostri giorni, anche se lo chiamiamo fascismo per mancanza di parole migliori (cioè peggiori) ha il carattere di un’utopia bio-tanato-politica, se possiamo chiamarla così.
Il discorso neo-reazionario del governo Meloni ha due pilastri: incrementare la natalità di bambini dalla pelle bianca e sterminare tutti coloro che vogliono invadere il territorio che appartiene ai bianchi.
E’ un programma irrealizzabile (dunque un’utopia) che non mancherà però di provocare, e già sta provocando, mostruose conseguenze (dunque è una distopia). L’utopia del ringiovanimento forzoso di un organismo che si sta ineluttabilmente esaurendo e quindi distopicamente marcisce, si decompone lentamente come la faccia di Calderoli, o si irrigidisce orribilmente come la mascella isterica e sorridente di Berlusconi.
Caro Gianfranco, capisci quanto sia complicato trovare un senso in questo fascismo cialtrone, quindi perdonerai se ho deciso alla fine di lasciar perdere. Negli ultimi tempi ho visto Effetto notte il film di Bellocchio che parla del sequestro Moro. E ho letto UFO78, lo strabiliante romanzo dei wu ming dove si racconta di un’ondata di ufofilia contemporanea all’azione demente delle BR che concluse in tragedia il decennio dei movimenti e aprì la strada al ritorno dell’orrore fascista. Il libro e il film ci parlano del modo in cui l’intero mondo politico lesse le lettere di Moro, e rifiutò di prenderle in considerazione con crudeltà e con cinismo. Quelle lettere erano ragionevoli e drammatiche, vibranti di dolore e di intelligenza, ma sia gli stalinisti di Berlinguer che i fascisti di Cossiga rifiutarono di prenderle in considerazione perché, dissero gli ipocriti, quello non era Moro.
In un perfetto ripugnante gesto di rovesciamento barocco il cinismo di Berlinguer si sposò con il cinismo di suo cugino, un assassino al servizio degli americani il quale poi (col voto degli stalinisti) fu eletto Presidente.
Le lettere di Moro erano troppo autentiche per non essere false. Troppo sensati erano i ragionamenti dell’ostaggio per non essere politicamente inaccettabili. Troppo umani i sentimenti da Moro espressi perché il cinismo del potere potesse comprenderli.
Di tutto questo, caro Gianfranco, avrei voluto parlarti. Ma non sono riuscito a dare forma a questa valanga di merda che culmina, nei nostri giorni, con il ritorno del nazionalismo. Idiota ed assassino come fu nel secolo passato, ma ancora più triste, più sordido, perché invecchiato male, irrancidito e demente. Non ci sono riuscito perché, cerca di capirmi, dell’idiozia non si può dire niente di intelligente. Che domanda è mai, quella che mi hai rivolto: cos’è l’Italia?
Delle nazioni non si può dire niente di comprensibile, perché non esistono.