[Pubblicato il 9 luglio 2022 su ALIAS – Il Manifesto]
«La rivoluzione senza immagine e senza maiuscola rimane necessaria come idea indeterminata di cambiamento e come bussola di una volontà. Non come un modello, uno schema prefabbricato, ma come un’ipotesi strategica e un orizzonte regolatore». Questa frase del filosofo Daniel Bensaïd apre il libro di Enzo Traverso intitolato sobriamente: Rivoluzione Un’altra storia 1789-1989 (Feltrinelli).
Traverso, uno dei più importanti storici italiani delle idee, oggi insegna all’università Cornell negli Stati Uniti. Lo abbiamo incontrato a Roma durante un recente viaggio in cui ha presentato il libro.
Oggi i nemici di una rivoluzione politica e sociale parlano di «rivoluzione», coloro che sarebbero a favore tacciono. Parla di rivoluzione chi vende l’ultimo modello di smartphone, l’ultima marca di dentifrici o chi si presenta alle elezioni. In che modo la rivoluzione resta oggi un’«ipotesi strategica» come sosteneva Bensaid?
È avvenuto un offuscamento della parola «rivoluzione», ormai diventata priva di contenuto, un significante vuoto. Un tempo la sinistra doveva scegliere tra riforma e rivoluzione. Oggi «rivoluzione» definisce l’ultimo modello di iPhone e «riforma» una misura di regressione sociale (riforma del lavoro, della sanità, dell’università e altro).
Questa metamorfosi è significativa anche in campo storiografico, dove l’idea di «rivoluzione fascista» – appartenente alla retorica fascista – è assai diffusa, mentre la dimensione rivoluzionaria di vicende come la guerra civile spagnola o la Comune di Parigi tende ad essere ignorata.
Il concetto di «rivoluzione» cambia, così come i suoi usi politici. È lontano il tempo in cui uno storico come Eric Hobsbawm ne faceva la chiave di interpretazione della modernità. Sono convinto che all’origine di questa eclissi ci sia, ben al di là delle strategie comunicative della politica e dell’industria culturale, la sconfitta delle rivoluzioni del Novecento che è stata l’età delle rivoluzioni, non solo delle guerre e dei totalitarismi. Nel secolo del «principio speranza», il comunismo era diventato un’utopia concreta e possibile, nel senso di Ernst Bloch. Questo «orizzonte d’attesa» è svanito.
Lei scrive che i movimenti negli ultimi 15 anni, e forse più, non hanno manifestato una memoria storica, non sono però prigionieri del passato, e devono reinventarsi. Come si crea una tradizione politica rivoluzionaria in queste condizioni?
Ovviamente non si tratta di rimproverare i giovani per la loro mancanza di memoria storica, si tratta di fare i conti con il «senso» della storia oggi dominante. Le potenzialità dei nuovi movimenti sociali e politici sono considerevoli, ma sono figli di una svolta storica che ha evacuato l’orizzonte utopico del passato, identificato precisamente all’idea di rivoluzione.
Ricostruirne la storia e i mutamenti semantici forse ci aiuterà a capire che rimane una bussola per il nostro tempo.
Che cosa significa non avere una memoria della rivoluzione?
Significa che il ciclo delle rivoluzioni del XX secolo si è esaurito e che viviamo le conseguenze di questo mutamento. Per un secolo la storia sembrava correre verso il socialismo, la cui premessa era la conquista militare del potere. Questa visione è lontana anni luce dal nostro universo mentale.
È questa svolta che impedisce ai nuovi movimenti di inscriversi in una continuità storica. Ciò non vuol dire che non ci saranno più rivoluzioni. Anzi negli ultimi anni ce ne sono già state, basti pensare alla «primavera araba». Queste rivoluzioni, tuttavia, non si identificavano più nei modelli del passato – socialismo, liberazione nazionale, panarabismo – ormai obsoleti, esauriti o sconfitti, e non sapevano bene dove andare. Una volta rovesciati i regimi oppressivi di Ben Ali e Mubarak, non sapevano come sostituirli.
Anche quando esistevano modelli forti molte rivoluzioni sono fallite. Non avere più a disposizione riferimenti è un’aggravante?
È anche la condizione di una grande libertà. L’idea di una trasformazione radicale persiste benché non si riconosca come erede dei modelli ereditati dal Novecento, in particolare il comunismo e l’anticolonialismo.
Ma un nuovo modello non è ancora in vista. Questo vuoto è all’origine di un’incredibile creatività, direi anche di una notevole sofisticazione teorica, presente in movimenti che sono obbligati a reinventarsi.
Alla base di questa creatività c’è una domanda rivoluzionaria: come cambiare il mondo, mettere fine al capitalismo, salvare il pianeta, superare il problema delle diseguaglianze spaventose che affliggono le nostre società? Questa esigenza mi sembra diffusa tra i giovani oggi.
Il riferimento agli anni Sessanta e Settanta percorre diversi suoi libri, ad esempio «Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta» (Feltrinelli). Quali sono le differenze tra quegli anni e oggi?
Chi scopriva la politica negli anni Settanta doveva scegliere tra una vasta gamma di movimenti e organizzazioni dal profilo ben definito. Questo per fortuna non è il problema dei giovani di oggi, che pensano e agiscono senza sentirsi rinchiusi in una gabbia ideologica. Ma questo mutamento non offre soltanto dei vantaggi, comporta anche una grande fragilità, appunto perché si tratta di movimenti che non si inscrivono in una continuità storica.
Sono fiammate effimere, di corta durata. Quando riescono a sedimentare politicamente qualcosa, rischiano di farsi riassorbire dalla politica tradizionale, come si è visto con Podemos, Syriza o anche in Gran Bretagna, dove il tentativo di rinnovare il Labour party a partire dal basso si è scontrato contro un muro.
In Italia, tutti i movimenti apparsi negli ultimi vent’anni non sono riusciti a darsi un’espressione politica se non attraverso coalizioni di micro-apparati che avrebbero frustrato qualunque entusiasmo. Bisogna andare oltre queste fiammate per ricostruire un orizzonte di attesa, reinventare un’idea di futuro.
Nelle società neoliberali che lei analizza ne «La tirannide dell’Io. Scrivere il passato in prima persona» (Laterza) c’è il terrore del fallimento e della sconfitta. Questo dissuade persino dal pensiero di provarci ancora?
Forse, ma il socialismo è nato dall’elaborazione di una sconfitta, quella della Rivoluzione francese che si è conclusa con la Restaurazione. Il XXI secolo è nato da un’altra sconfitta storica di dimensioni globali.
Le giovani generazioni probabilmente non se ne rendono conto ma agiscono in un contesto pesantemente gravato da questa eredità. Recuperare il senso della storia, sapere che cambiare il mondo è progetto antico, un progetto che nel Novecento non soltanto sembrava possibile, ma era stato messo in atto, potrebbe offrire un’identità, per quanto instabile, e farci sentire meno vulnerabili.
Una delle idee più interessanti emerse negli ultimi anni dai movimenti è l’intersezionalità, la convergenza delle lotte e una nuova idea della classe intesa come oggetto di molteplici oppressioni e soggetto di possibili resistenze. Questa prospettiva è evocata spesso in Francia, un paese dove lei ha vissuto e insegnato, anche nell’esperienza della «France Insoumise». Può essere questa una prassi utile per costruire il senso della prospettiva rivoluzionaria?
La France Insoumise ha conosciuto un’evoluzione positiva. Una serie di «sovranisti» poco raccomandabili se ne sono andati o sono stati pregati di uscire. Ha partecipato ai gilet gialli anche senza avere un ruolo motore nel movimento. È stata capace di integrare la dimensione ecologica e praticare, per quanto possibile, l’intersezionalità tra le rivendicazioni di classe, genere e razza. Grazie alla sintonia con i movimenti antirazzisti dei quartieri popolari ha superato i limiti angusti del «nazional-repubblicanesimo», la matrice del socialismo francese.
La coalizione di sinistra ha ottenuto un successo elettorale significativo, ma non si tratta certo di una rivoluzione. Deve affrontare molti ostacoli.
In che modo?
Da un punto di vista puramente formale, il programma della coalizione di sinistra «Nupes» è più moderato di quello dell’Union de la gauche di Mitterand nel 1981. Non prevede la nazionalizzazione di alcuni settori chiave dell’economia. Mélenchon lo ha riconosciuto onestamente: anche nel caso fosse diventato primo ministro non avrebbe avuto la forza di mettere in atto il suo programma senza il sostegno di un forte movimento sociale, che per il momento non c’è.
Il problema è l’astensionismo altissimo. Nel contesto attuale, il vecchio programma della socialdemocrazia – redistribuzione della ricchezza, riforme sociali, difesa dei salari e delle pensioni, accesso all’educazione, ai trasporti e alla sanità – implica una rottura con l’ordine neoliberale.
La France Insoumise incarna questa rottura. Nel dopoguerra, la socialdemocrazia è stata lo strumento dell’«umanizzazione» del capitalismo che affrontava una sfida gigantesca, quella del socialismo come «principio speranza» diffuso su scala globale.
Oggi la socialdemocrazia è diventata uno dei pilastri dell’ordine neoliberale. Nell’era della reificazione universale, un programma socialdemocratico autentico non può essere realizzato senza rottura con il modello dominante di capitalismo.
Non esiste solo la storia delle rivoluzioni. Ma anche quella delle controrivoluzioni. Questo è avvenuto sin dall’inizio delle rivoluzioni moderne, quella francese e quella sovietica, e sono state devastanti. Le controrivoluzioni sono semplicemente delle reazioni o sono autonome e producono una nuova realtà?
È una sorta di norma storica: non c’è rivoluzione senza controrivoluzione, unite da un rapporto simbiotico. Le «rivoluzioni di velluto», che sorgono quando il potere sovietico è in crisi e non è più in grado di inviare i carri armati per reprimerle, sono un’eccezione.
Le controrivoluzioni possiedono una loro cultura e una ideologia che si trasformano. Nel Novecento, esse hanno prodotto il fascismo. La retorica del fascismo si voleva «rivoluzionaria», ma la sua componente principale era la reazione contro il bolscevismo.
La controrivoluzione del XX secolo non rivendicava la restaurazione dell’antico regime ma voleva inventare una nuova forma di potere. La sua cultura non era insignificante, benché alcuni la considerassero soltanto una «anti-cultura», perché il fascismo ha inventato un’idea nuova di civiltà.
In Germania, il nazismo ha prodotto grandi figure come Jünger, Schmitt o Heidegger. In Francia, la letteratura della prima metà del Novecento è segnata, dopo Proust, da una sfilza di fascisti come Céline e Drieu la Rochelle.
È possibile interpretare l’attuale ciclo neoliberale come una controrivoluzione, cioè come una reazione al ciclo rivoluzionario globale degli anni Sessanta e Settanta?
Sì. Avrei voglia di rispondere, da storico, evocando la lunga durata di Fernand Braudel. L’età neoliberale che stiamo vivendo oggi può essere considerata come un contraccolpo – in questo senso una controrivoluzione – al lungo ciclo delle rivoluzioni del Novecento.
Sul piano sociale ciò è abbastanza evidente. Tutte le conquiste sociali del secolo scorso sono state messe in discussione. I rapporti di forza tra le classi su scala globale sono cambiati profondamente. A Brooklyn, i lavoratori di un deposito Amazon hanno ottenuto il riconoscimento del loro sindacato e questa è stata una delle grandi conquiste degli ultimi anni.
Se pensiamo a cosa fosse il movimento operaio degli anni Sessanta e Settanta, non c’è dubbio che questa conquista avviene nel contesto di una regressione spaventosa.
Qual è la storia della controrivoluzione in cui stiamo vivendo?
Per decenni il neoliberalismo è stato una corrente eretica in seno alla cultura delle classi dominanti. Durante la Seconda guerra mondiale chi poteva prendere sul serio un libro come La via della schiavitù, che presenta Roosevelt come una quinta colonna del totalitarismo, nel momento in cui Unione sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna combattevano il nazifascismo? Allora le idee di Hayek erano improponibili.
Il primo segno di un’inversione di tendenza è stato il golpe cileno del 1973. Arrivarono i Chicago boys e introdussero riforme strutturali con le quali ancora oggi la sinistra di Gabriel Boric deve fare i conti. Pinochet incarnava la controrivoluzione armata. Successivamente il neoliberalismo si è imposto con una retorica «antitotalitaria», fondata sul binomio democrazia liberale e società di mercato.
Il neoliberalismo non è dunque solo una reazione ma anche una forma politica istituzionalizzata e una forma di vita specifica che ambisce a rinnovarsi continuamente. È corretto definirlo in termini «rivoluzionari»?
La «rivoluzione» neoliberale – che va ben al di là del neoliberismo come modello economico – è un bombardamento permanente di immagini, mode, merci e illusioni. È, in una parola, una «utopia privatizzata».
L’operazione non è innocente. Si vuole instillare la sensazione che tutto si trasformi intorno a noi anche se l’ordine socioeconomico che produce catastrofi e immense sofferenze. Il capitalismo come civiltà, ciò che Andreas Malm chiama «capitalocene», rimane immutabile.
Ci tengo a sottolineare che il neoliberalismo non si è imposto solo con gli eserciti, ma soprattutto come alternativa «democratica» al totalitarismo all’interno del quale è stata inserita tutta la storia del Novecento.
Se la rivoluzione è stata sequestrata dai controrivoluzionari come si può allora rovesciare le prospettive?
Nessuno, credo, possiede questa ricetta. La rivoluzione è un momento storico in cui gli oppressi prendono coscienza della loro forza, della loro capacità di cambiare il mondo attraverso l’azione collettiva.
Walter Benjamin usava una formula suggestiva: la scissione dell’atomo che sprigiona forze straordinarie ed esplosive. La rivoluzione è il momento in cui la linearità della storia viene improvvisamente spezzata e tutto diventa possibile, in cui si aprono nuovi orizzonti.
Per questo le rivoluzioni sono fabbriche di utopie. Ciò comporta anche notevoli rischi perché si possono imboccare strade pericolose.
Le rivoluzioni, tuttavia, non avvengono per decreto, nascono dal basso e dilagano come «furie», secondo la formula di Jules Michelet. Ma è importante sapere che, per quanto continuamente esorcizzate, le rivoluzioni sono la respirazione della storia.