Il Migliore

Con un azzardo che mette fine alla coalizione tra socialisti e sinistra, e un risultato ritenuto improbabile fino al giorno prima, il Partito Socialista di António Costa conquista la maggioranza assoluta nell’Assemblea da República portoghese, ipotecando ancora una volta il futuro del governo e forse anche della prossima storia del Paese atlantico. Furbo, fortunato, anche se un po’ appannato: ecco chi è il “Migliore” della socialdemocrazia europea.

di Gianfranco Ferraro (ITA_31.01.2022 – 00h35)

 

LISBONA. “Menos… menos“, si dice in portoghese ai bambini che esagerano. Ridimensiónati: ad António Costa lo hanno detto tutti, in questi mesi di crisi di governo, e alla fine se lo è detto persino detto da solo. “Menos…”. Eppure: il dado è tratto mentre il Rubicone è tra le nebbie. Tutti a guardare il fiume, mentre le legioni sono già altrove. “Menos…”: António Costa non è Cesare e neanche Togliatti. Però è vero che la politica ha le sue leggi e le sue contorsioni, le sue eterogenesi. I suoi richiami: in qualche caso si trascende, smette di essere solo politica, per farsi un po’ storia (per poi, magari, tornare a farsi politica). Rari casi, soprattutto in tempi infami. “Menos…”. Ok, certo, però, a Cesare e Togliatti quel che è loro.

Perché è vero che il Partito Socialista ha vinto, stravinto, in Portogallo. Con una maggioranza assoluta in Parlamento che qualunque altro segretario di un partito europeo si sognerebbe,  governa, da solo, come non accadeva da tempo immemore. E ce l’ha, questa maggioranza assoluta, dopo aver governato per sette anni con l’appoggio esterno della sinistra radicale e dei comunisti, dopo una pandemia, e dopo due scommesse al buio, di quelle che neanche una volta nella vita si vincono, di un segretario che discende direttamente da un maharaja indiano (il padre di Costa, il poeta Orlando, era di Goa). È lo stesso Partito Socialista che è stato di Mario Soares, a partire dalla Rivoluzione dei Garofani, uno degli storici capisaldi del governo del Paese insieme al Partito socialdemocratico, di centrodestra (per intenderci, quello di Durão Barroso, mediocre presidente di Commissione Europea in anni che furono), con cui si è alternato al potere per decenni. È un partito di centrosinistra, ma se lo paragoniamo, che so, al PD italiano, starebbe a sinistra di Leu. Insomma, centrosinistra, in Portogallo, in realtà rosé, non rosa: nel simbolo, un pugno chiuso (anche perché il garofano in Portogallo, teoricamente, appartiene a tutti). Partito di sinistra insomma. Che però da adesso è certamente – e lo sarà per le generazioni che vorranno leggere la storia di questi anni – di António Costa. Come lui, nessuno: per capacità, inventiva, intuizione, fortuna, stronzaggine. Dunque: il Migliore, per questi tempi. Ha vinto in un certo modo e in un certo contesto. Cambia il contesto: rivince. E non si fanno prigionieri. E digli pure qualcosa…

“Menos…” E invece no: perché mentre se lo diceva, António Costa e quasi arretrava, titubante, di fronte alla hybris che lo aveva abitato da quando il suo stesso governo era caduto (o che alcuni, maliziosi, pensano abbia voluto lui stesso far cadere), la hybris un po’ sconcertante di pretendere dai portoghesi una “maggioranza assoluta” (e l’aggettivo fa ancora effetto, in una democrazia tutto sommato giovane qual è quella portoghese), mentre gli stessi portoghesi se lo dicevano, soprattutto a sinistra, che era giusto votarlo, Costa, per meriti, convinzione, rassegnazione, ma anche perché il Partito socialdemocratico di centrodestra di Rui Rio tutte queste garanzie di non portare al governo la becera destra di Chega e di André Ventura in fondo non le dava, però, aggiungevano tra sé e sé, che di una maggioranza assoluta non era proprio il caso di parlarne, mentre insomma tutti, da una parte e dall’altra, commentatori, protagonisti e antagonisti di una delle più folli crisi politiche della storia portoghese, si dicevano in coro o in beata solitudine “menos…”, quasi spaventati dall’improvvisa protervia mostrata da uno di loro nell’ergersi a capo indiscusso della democrazia, spavento che, di fronte ai sondaggi che, pure loro, sembravano gridargli “menos, menos…”, e mentre insomma lo stesso mantra “menos…” finiva apparentemente per catturare lo stesso protagonista di tanta protervia, che ripiegava in un più modesto “cercheremo di dialogare con questo e quel partito di sinistra”, mentre insomma tutti a un certo punto – e nel Paese dai “blandi costumi” ciò non deve stupire – si dicevano “menos!”, quasi a scongiurare una pretesa che a gente di mare suona sempre male, lo stesso “menos…” deve aver rassicurato alla fine una sostanziosa maggioranza, se, contro ogni previsione della vigilia, alla fine quella hybris è stata sancita eccome.

È una ragione forse c’è: non è che il Portogallo non ami la hybris, anzi. Solo, non bisogna darla troppo a vedere. Ce n’è anche un’altra, magari, di ragione: la costituzione sociale del Portogallo ama le continuità, sospetta degli estremi. Costa lo sa, e lo sa con un occhio interno e un occhio esterno (quello che viene da quel grande “fuori” che era una volta Portogallo senza esserlo del tutto). Anche per questo, António Costa è il Migliore, nella politica portoghese. E lo sa.

Perché persino contro le stesse contorsioni degli ultimi giorni di una campagna elettorale giocata con stanchezza e senza quella emotività (e quell’ambizione non nascosta) che i portoghesi gli avevano comunque riconosciuto in altre tornate elettorali, Costa e il suo Partito socialista hanno vinto una campagna che sembrava quasi perduta. Campagna elettorale stranissima, in effetti, quella sua,  da premier uscente dopo la più grave crisi vissuta a livello globale in decenni recenti: prima strategicamente lanciata tutta in avanti a chiedere una improbabile maggioranza assoluta che il Paese non conosce da quasi vent’anni (e finita, tragicamente, con la caduta del premier socialista Socrates e il Paese nelle mani della Troika), poi, quando i sondaggi hanno cominciato, sbagliando clamorosamente, a fare intravedere persino un sorpasso dei suo avversari, ricominciando a strizzare l’occhio a sinistra. La verità, ammessa da tutti i commentatori portoghesi e dagli stessi politici, è che nessuno ci ha capito granché di quello che è accaduto. Verrebbe da dire che neanche António Costa ci ha capito granché, se, proprio nei giorni prima delle elezioni ha iniziato a smentire quello che a gran voce ha chiesto per mesi per affrancarsi dai voti dell’estrema sinistra: e cioé una maggioranza assoluta. Perché, alla fine, quella maggioranza all’Assembleia da República – la camera unica del Parlamento portoghese – Costa ce l’ha avuta eccome. Vincendo, di fatto, una doppia scommessa, personale e politica.

Anche perché a Costa scommettere piace. Ha scommesso, quando ha provocato la crisi al buio che ha portato le elezioni, proponendo un bilancio di Stato con alcune misure di sostegno allo Stato sociale, ma non tutte quelle che il Partito Comunista e il Bloco de Esquerda, suoi alleati ufficiosi (anche se senza più accordo scritto) avrebbero voluto. Un tranello? Sì. Con Costa che si mette sulle difensive, scagliandosi contro i ricatti della sinistra radicale e chiedendo ai portoghesi un mandato pieno: il costo della sconfitta, le sue eventuali dimissioni da segretario PS e la consegna del Paese ad un’altra maggioranza, senza di lui. Una scommessa, un po’ giocata sul ricatto, un po’ sulla paura: che dall’altro lato si potesse materializzare un governo di centrodestra non più appoggiato da una destra “costituzionale” (sparita), ma con Chega, il partito populista di destra che, in Parlamento con un deputato per una legislatura, inizia quella nuova con 12 (poca cosa per noi italiani, ma qui è un dato che fa impressione). Doppia scommessa, insomma, e tiro incrociato per il voto utile: la solita sinistra che rende instabili i governi, da un lato, una destra a cui solo il PS può davvero contrapporsi, dall’altro. Il risultato è esattamente quello voluto, con una polarizzazione che, dimezzando i voti dei partiti ex-alleati risucchia molti elettori di sinistra che votano PS, riuscendo persino a frammentare la destra, in cui molti elettori evitano di votare PSD proprio perché non vorrebbero per nessun motivo un accordo di centro col PS.

Del resto, è con una scommessa che Costa comincia la sua scalata prima alla Segreteria del Partito, su una piattaforma indiscutibilmente spostata a sinistra, dopo essere stato abile sindaco della capitale, Lisbona, e poi del Governo. Una scommessa che comincia davvero nel 2015, con la proposta dell’allora neo-segretario PS al proprio partito e ai partiti della sinistra “radicale” – il Partito Comunista guidato da Jerónimo de Sousa e il Bloco de Esquerda di Catarina Martins –, fino ad allora esclusi dalle maggioranze di governo, di dare vita ad un primo governo portoghese – comunque un monocolore socialista – appoggiato da tutta la sinistra. Il Portogallo affrontava allora le rovine provocate dal pesante intervento della Troika e dal governo di centrodestra di Passos Coelho, e António Costa, con la sua “geringonça” di governo Ps-sinistra, disegnava davanti agli occhi increduli del Presidente conservatore dell’epoca, Cavaco Silva, un volto completamente nuovo dello scenario politico e della stessa storia del Portogallo contemporaneo. Scommessa in fondo vinta, anche quella: scompaginando un quadro che sembrava volersi comporre da solo, tenendo in conto la storica incompatibilità del Partito Socialista figlio di Mario Soares con le politiche comuniste e dell’estrema sinistra.

Rompendo quindi ora con la sinistra, Costa cambia dunque ancora scenario laddove non sembra necessario: se la “geringonça” è una sua creatura – come lo è stata del resto anche del PCP e del Bloco – non si fa troppi scrupoli a stringerle il cappio intorno, rivendicando come propri i risultati ottenuti grazie agli alleati, e strizzando l’occhio al PSD, da cui si è fatto votare più di una legge, ma sempre dichiarandosi alternativo agli uni e all’altro.

In fondo il futuro può sembrare degno della scommessa, adesso, anche se il rischio di mandare all’aria in modo abbastanza incomprensibile una forma di governo che aveva funzionato ovviamente c’era tutto. Ci sono da governare i miliardi che arriveranno dall’Europa a breve, e il PS vuole avere le mani libere, anche perché i vincoli renderebbero accidentato un governo con le sinistre-sinistre. Costa indica il Rubicone, non lo vede neanche lui, ma nel frattempo passa. Il calcolo c’è, ma la scommessa pure, e la fortuna non guasta. Il socialista spagnolo Sanchez è il primo a chiamare. E con la ridiscussione del piano di stabilità in vista in Europa, e con una Germania senza Merkel e un po’ sbandata persino in economia, la vittoria monocolore di Costa può servire anche ai francesi e agli italiani per ridiscutere il futuro del sud europeo.

Non sarà ovviamente un governo breve, come quello che lo stesso Costa aveva preventivato, e, se non ci saranno scossoni interni, il 2026 potrebbe consegnare un Portogallo stabile e persino in grado di giocare, a suo modo, una partita geopolitica. Con una sinistra ridimensionata ad un ruolo di intervento minimo o solo suppletivo, un centrodestra allo sbando con i segretari dimissionari e una estrema destra che, se ha preso il 7% in una situazione potenzialmente vantaggiosa, è difficile immaginare possa andare oltre, Costa realizza quello che neanche a Mario Soares o a Togliatti era riuscito: respingere la destra, spegnendo le luci alla propria sinistra. E realizza in fondo, con altri mezzi, che più democratici non si può, quello che a Draghi è riuscito in Italia con la sua maggioranza assoluta. Da una scommessa quasi personale, la più grande, inimmaginabile stabilità.

Certo, una “maggioranza assoluta” non equivale a un “potere assoluto”, ha commentato Costa alla sua prima uscita pubblica, anche se nessuno, per la verità, glielo aveva chiesto. È vero, in una democrazia rappresentativa ci sono altri poteri, eccetera, e non c’è dubbio che Costa abbia letto Machiavelli quando scrive che “variando la fortuna, e stando li uomini ne´ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come discordano, infelici” e che la fortuna “è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla”. Se ricorderà anche che occorre essere “golpe a conoscere e´ lacci, e lione e sbigottire e’ lupi”, se non uno statista, potrà tra qualche anno dire magari, per lo meno, di aver fatto il meglio che si poteva fare. Altri gli riconosceranno di essere stato il Migliore, appunto, di questi anni: e non tanto perché lo sia stato in assoluto o perché le sue politiche li rappresenteranno davvero, ma perché molti altri, le minoranze assolute, fortuna, golpi e lioni non sapranno più dove stiano.