Francesco Biagi (ITA_27-12-2021)
Il volume di Daniele Coltrinari dal titolo Lisbona è un’assurda speranza (Edizioni Scatole Parlanti, Viterbo, 2021) è un romanzo breve che si inscrive nel solco di quella letteratura di impegno sociale e di denuncia politica. Se Charles Dickens denunciò le nefaste conseguenze sociali della rivoluzione industriale inglese che stavano trasformando la Manchester ottocentesca con Tempi difficili e Oliver Twist e Jack London ugualmente faceva lo stesso nello scenario urbano della Londra di primo Novecento con Il popolo dell’abisso, Coltrinari si inserisce con molta umiltà in questo solco dove le contraddizioni di classe in epoca neoliberista letteralmente esplodono e sconquassano la vita dei protagonisti in quanto esploso e sconquassato è anche lo spazio urbano della città in cui si svolge la trama: Lisbona. La vita della città è specchio e riflesso della vita dei personaggi, e viceversa.
Fabio Rossi, il protagonista della storia, ha 37 anni e una giovinezza passata a Roma tra quei lavoretti precari e sottopagati che un gruppo di autori riuniti intorno al quotidiano Il manifesto ha definito “economia politica della promessa” (si veda: AA. VV., Economia politica della promessa, manifestolibri, Roma, 2015). La “promessa” è riuscire a costruire una vita dignitosa per mezzo del lavoro che il protagonista vorrebbe svolgere a tempo pieno: il giornalista. L’economia politica, invece, non è solo una disciplina accademica, ma è prima di tutto quel sistema socio-politico analizzato da Marx e Engels che stritola le nostre vite, le distrugge e infine le rimacina senza offrire mai un orizzonte di trasformazione sociale. Noi, quell’economia politica la viviamo ogni giorno sulla nostra pelle e in quella vita quotidiana dove pare impossibile ogni “critica”. Nel XXI secolo questa nefasta economia politica ha subìto un’accelerazione impressionante ed è stata definita da Mark Fisher come “realismo capitalista”. E il surplus dell’acutezza dell’analisi di Fisher riguarda l’impossibile salute mentale e psichica delle nostre vite che attraversano, avanti e indietro, le “forche caudine” del neoliberismo.
Fabio Rossi lascia Roma per Lisbona, nel 2013, circa due anni dopo dal commissariamento dello Stato portoghese da parte della Troika. Sceglie Lisbona un po’ per disperazione e un po’ per curiosità: la capitale lusitana e tutto il Portogallo sono sempre stati poco presenti nel dibattito italiano sugli esteri, magari provare a raccontare Lisbona al popolo dello Stivale può essere una novità che premierà lavorativamente l’originalità di Rossi e – cosa fondamentale – Lisbona è una città dove si può ancora vivere decentemente con poco (a differenza dell’Italia). Queste sono le riflessioni di Rossi che troviamo nelle prime pagine, anche se in quelle medesime prime pagine, apprendiamo che Rossi è tornato a Roma, dopo Lisbona, poiché ha ottenuto un posto fisso da bibliotecario. Non è la realizzazione del proprio sogno di intraprendere una carriera nel giornalismo, ma è pur sempre uno scenario invidiabile per la possibilità di potersi progettare una vita. È come se l’autore volesse dichiarare subito l’assurdità di quella speranza di una vita migliore a Lisbona per il suo protagonista. Se Rossi ha un posto fisso a Roma, il lettore ha già un presagio sul finale: è andata male a Rossi a Lisbona!
L’assurdità delle speranze lisboete, al contrario, si ribalta e l’autore è molto bravo nel sviluppare la trame tra queste pieghe e contraddizioni: anche se Rossi e gli altri protagonisti vivono sempre sul filo del rasoio di una vita lavorativa frustrante e mai realizzata, ciò che stupisce e rende la loro vita degna di essere vissuta sono gli incontri, le amicizie e gli amori che nascono e si sviluppano nelle strade strette del quartiere di Alfama e di altre zone periferiche della città non ancora distrutte definitivamente dalla gentrificazione degli spazi urbani. Dall’imperial (il bicchiere di birra da 0,20) che oscilla tra gli ottanta centesimi e un euro, passando per la bifana dell’Atipica e i piatti popolari portoghesi cucinati espressi nelle tascas (dove ci si può permettere di cenare fuori molto più spesso rispetto all’Italia), fino ai concerti e gli eventi culturali di tanti spazi sociali resistenti alle logiche di mercato, sono solo un esempio delle diverse occasioni che Rossi e i suoi amici hanno per uscire e vivere una vita urbana non ancora imprigionata dai “non-luoghi” prodotti dall’impronta spaziale delle “città globali”. Azzardando con i paragoni, la Lisbona di Fabio Rossi non è molto diversa dalla Parigi attraversata dalle derive urbane dei situazionisti e dalle scorribande alcoliche tra i bistrot di Guy Debord e Henri Lefebvre.
Tuttavia, nel corso degli anni Rossi registra le trasformazioni della città e riflette sulla completa messa a valore capitalistica dello spazio urbano: tante tascas di altrettanti cuochi e baristi ormai amici e confidenti del protagonista sono costretti a chiudere perché il mercato immobiliare si sta trasformando a causa dell’ondata travolgente del turismo. Coltrinari in quasi cento pagine condensa dal punto di vista letterario la diffusione virale dell’economia politica del turismo che cambia volto alla città. Emerson, titolare di un locale brasiliano, trasloca dall’altra parte del fiume dove i prezzi degli affitti di un fondo sono ancora abbordabili; invece il “Cozinha”, un ristorante angolano della Mouraria è costretto a chiudere, cosi come il bar notturno ’60 di un oste galiziano che aveva appeso nel locale una foto di Che Guevara. Al ’60 si ballava, si beveva e si poteva mangiare qualcosa prima di andare a dormire alle prime luci dell’alba. Al ’60 l’oste saliva sul palco a cantare canzoni operaie galiziane assieme al chitarrista che aveva invitato a suonare quella sera. Zone del centro come Martim Moniz vengono “ripulite” dalle sex workers e da chi vive di piccoli espedienti per fare spazio al grande parco-giochi turistico di una nuova Lisbona che per stare al passo dell’economia globale deve rinnegare se stessa e svuotarsi delle sue più preziose e particolari ricchezze di esperienze di vita sviluppatesi dopo il 25 de Abril. Il turismo ha anche portato i plotoni della polizia in alcune piazze durante il mese di giugno, quando c’è la festa di Sant’Antonio e dei santos populares o la chiusura contingentata dei miradouros come quello dell’Adamastor. La messa a valore degli spazi avanza con un concetto di sicurezza che li privatizza e “igenizza” dalla spontaneità dell’incontro autentico tra persone. È un romanzo politico e di denuncia quello di Coltrinari, e la sua bravura è la capacità di sviluppare una critica sociale attraverso la vita quotidiana dei protagonisti.
Lo spazio urbano di una città, diceva Lefebvre, dovrebbe essere il prodotto orizzontale e democratico di chi lo abita e lo vive, invece è sempre di più un prodotto mercificato e sottoposto a una nuova riconquista capitalista per riattivare inedite forme di accumulazione originaria per il profitto di pochi. Il celebre concetto del diritto alla città non è altro che il tentativo di leggere e rintracciare la resistenza di quegli abitanti esclusi dal saccheggio del proprio spazio urbano che vivono. Coltrinari con il suo romanzo racconta il lento degradarsi dello spazio sociale di Lisbona, che da “valore d’uso” di chi lo vive profondamente è ormai diventato “valore di scambio” dei ricchi investitori. Lo fa attraverso l’occhio di un migrante italiano che si immerge profondamente nella vita della cultura popolare e degli abitanti di Lisbona. Un migrante italiano che prova a farsi mettere in discussione da una nuova terra che elegge a luogo di rinascita. La rinascita di un’assurda speranza che, tuttavia, non sappiamo come si concluderà. La conclusione che Coltrinari sceglie è quella di un amaro in bocca per una Lisbona che non c’è più. Ma l’assurda speranza che ritorni è sempre lì, all’orizzonte dei miradouros contemplati dal protagonista. Come diceva Antonio Gramsci: il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà (politica).
Immagine del murales di Andrea Tarli in Largo da Achada, a Lisbona dove è raffigurata una signora con in mano una bomboletta spray, che spruzza la vernice negli occhi a un turista di passaggio.