[Pubblichiamo il presente articolo che riassume l’introduzione al volume Monsters, Catastrophes and the Anthropocene. A Postcolonial Critique pubblicato da Gaia Giuliani nel 2021 per i tipi di Routledge e uscito nel numero 5/2021 della nostra rivista]
Gaia Giuliani (ITA_2-12-2021)
Il tempo in cui viviamo[1]
Viviamo in un’epoca di mostri e catastrofi, sospinti in un ciclo distopico senza fine. Il finis mundi si avvicina sempre di più e diventa gradualmente l’unica lente attraverso la quale l’Europa e l’Occidente danno un senso al ‘nostro’ tempo. ‘Noi’ temiamo le invasioni, uno stato permanente di terrore e la catastrofe ambientale finale – il ‘nostro mondo’ trabocca di caos e minaccia l’ordine che garantisce la nostra sicurezza, il benessere, la sostenibilità e il Progresso. Come nell’Apocalisse di San Giovanni, la fine del mondo come ‘noi’ lo conosciamo cancellerà il Tempo e lo Spazio, danneggerà irrimediabilmente il corpo umano, riportando la violenza selvaggia che era stata espulsa dallo spazio della ragione. Ciò che è in pericolo è l’essenza stessa degli umani, lasciati senza protezione ed esposti alla barbarie, alle epidemie e ai disastri naturali contro i quali occorre mettere confini, muri, colonie, spazi segregati, identità più spesse e leggi marziali: faremo di tutto per fermare la diffusione del caos e tenerlo ‘fuori’, anche se questo significa sacrificare alcuni per il bene dei molti. Alcuni stanno già pagando il prezzo più alto, ma non possono essere aiutati – la loro stessa mancanza di conoscenza li rende vulnerabili al disastro. Se riusciamo a tenerci a distanza di sicurezza da rifiuti tossici, virus, inquinamento ambientale, guerre e altri effetti nocivi dello stesso capitalismo neoliberale di cui beneficiamo, la parte migliore dell’umanità sarà al sicuro.
La mobilità indisciplinata dal Sud al Nord del mondo, il terrorismo organizzato dopo l’11 settembre e la crisi ambientale in continua evoluzione hanno scatenato un complesso insieme di ansie, paure e discorsi apocalittici. Oggi questo groviglio è pervasivo e più o meno implicitamente impiegato tanto nelle narrazioni dei media mainstream quanto nella cultura popolare – riprodotto in modo differenziato dagli attori nazionali e internazionali coinvolti nel controllo delle frontiere, nell’antiterrorismo e nell’adattamento al cambiamento climatico. I media, per esempio, sono serviti a “dare un nome al nemico” durante la pandemia di coronavirus iniziata in Cina alla fine del 2019, trasformando l’ansia in paure che hanno alimentato l’ostilità mondiale contro gli “untori” cinesi. Nei momenti di crisi i partiti politici e altre organizzazioni sfruttano generalmente le ansie diffuse sull’incertezza del futuro a proprio vantaggio, e in questo caso i movimenti di estrema destra sono stati particolarmente abili nell’utilizzare la paura e le narrazioni apocalittiche per attirare seguaci e risorse (GIULIANI et al. 2020a, GIULIANI et al. 2020b).
Quando le minacce vissute dal “noi” sono rappresentate come globali e le soluzioni spacciate come universali, è più probabile che vengano percepite come frutto di un punto di vista oggettivo, neutrale e come generalizzabili all’umanità intera, nonostante questo “noi” sia espressione di una posizionalità specifica nel Nord globale. L’impatto delle catastrofi, tuttavia, non è così neutrale rispetto al genere e alla razza, come invece piace immaginare al “noi”, dimentico del fatto che non solo il colore e il sesso, ma anche la povertà, l’orientamento sessuale e la nazionalità sono fattori chiave nel determinare chi viene salvato e chi viene lasciato indietro. Le vittime sono e saranno inevitabili, ma il “noi” non è disposto a prendersi la responsabilità del sacrificio delle vite di coloro che sono in effetti i più vulnerabili, i «dannati della Terra».
I concetti di caos e ordine sono un riflesso della comprensione occidentale sia del politico che di ciò che è oltre la politica. Essi interagiscono con i concetti di ostilità e guerra, così come con le figure di barbaro/infedele e di mostro che sono alla base dell’antica nozione di polis, delle concezioni medievali della città di Dio, e delle prime e tarde idee moderne di società, stato e relazioni internazionali. Sebbene i concetti specifici si modifichino nel tempo e nello spazio, come Foucault (1999) sostiene nel caso del “mostro”, essi sono sempre stati legati a un’idea del politico come arena in cui il “noi” e il “loro” che si fanno guerra sono in grado di negoziare i termini del loro conflitto (PORTINARO 1992): a differenza di barbari e infedeli dentro e fuori la cittadella, i nemici vengono visti come entità simmetriche (eserciti regolari di stati che si riconoscono reciprocamente).
Partendo dal ragionamento di Carl Schmitt (1962), Reinhart Koselleck (1979) ha distinto non solo tra conflitti interni ed esterni, bensì anche tra guerre esterne “regolari”, che coinvolgono eserciti regolari, e guerre esterne “irregolari” – come nel caso delle guerre coloniali – contro coloro che vengono considerati inferiori, barbari. I processi di securitizzazione e normalizzazione vengono attuati (FOUCAULT 1976b) nei conflitti interni asimmetrici contro colui che è criminalizzato in quanto nemico interno (è il caso, ad esempio, della guerra partigiana e dell’insurrezione). Nelle guerre irregolari esterne, gli standard di protezione internazionale vengono ignorati. In entrambi i casi, il conflitto asimmetrico si basa sulla mostrificazione del nemico, poiché c’è un riconoscimento reciproco di status tra entità simmetriche da cui il barbaro e il mostro sono esclusi. I mostri sono, per definizione, sacrificabili, perché è contro di loro che si costruisce e si mantiene l’ordine per evitare che sfidino presupposti sociali e politici, finendo per minare la resistenza del corpo politico. In effetti, essi sono:
[. . .] allo stesso tempo l’effetto e la manifestazione corporea, e quindi l’aspetto visibile, della crisi. In altre parole, il mostro rivela un carattere contingente e quindi arbitrario delle distinzioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali si costituiscono le identità. Le mette in dubbio e le interroga circa la loro presunta naturalità. (NUZZO 2013: 58)
I mostri, come la natura, sono riconosciuti in modo differenziato nello spazio del politico: non sono soggetti, tanto meno soggetti di diritto. Come tali, i mostri nell’immaginario occidentale sembrano sfuggire a tutte le classificazioni e regole. Vengono percepiti come l’incarnazione della loro trasgressione, e così tanto il loro corpo così come la loro mobilità indisciplinata (NEOCLEOUS 2005: 28) divengono oggetto di biolitica e di necropolitica. La natura, invece, è “oltre la politica”: è inclusa nel corpo politico solo nella misura in cui fornisce un habitat o le risorse che sostengono la vita.
Si può dire che mostri e natura sfidino l’ordine in modi assai diversi: mentre i mostri minano la naturalità delle distinzioni arbitrarie che sostengono la “comunità immaginata” (bios, o organizzazione sociale), la natura è «l’esatto opposto della libertà» (o zoe, la struttura biologica della vita) (KANT 1756 in CLARK 2011: 90). La natura come zoe, se non padroneggiata dall’umanità, può danneggiare anche il bios. E secondo la dicotomia cartesiana che la oppone alla ragione, la natura delimita i confini dell’autonomia del soggetto all’interno del bios (ESPOSITO 2008; BRAIDOTTI 2013).
Nel pensiero politico moderno occidentale, questi sono generalmente concepiti come concetti universali. Eppure, come sostenuto da Talal Asad (2007) e Judith Butler (2009) nel contesto della cosiddetta «guerra globale al terrore» (GALLI 2010), è proprio tale universalità ad essere messa in discussione (BHAMBRA 2015): gli attacchi dell’11 settembre allo spazio sicuro del “noi” hanno chiaramente coinvolto dinamiche diverse dalla guerra simmetrica e la “guerra al terrore” che è seguita ha introdotto nelle relazioni internazionali modalità di guerra, che erano state tipiche delle guerre coloniali. È emerso un nuovo tipo di nemico, una personificazione mostrificata dell’Alterità prodotta dalla fusione di nemico e mostro nella figura del terrorista, al quale, come nelle guerre coloniali, non è stata concessa alcuna protezione o status giuridico. Inoltre, la combinazione di guerra e securitizzazione ha permesso all’apparato bellico di prendere in prestito ontologie, tecnologie e tecniche tradizionalmente utilizzate contro il mostro interno: come ci ricorda Judith Butler, «gli esseri umani imprigionati a Guantanamo non contano come umani; non sono soggetti protetti dal diritto internazionale» (BUTLER 2004: XV-XVI). Facendo saltare le distinzioni tra guerra e guerra coloniale, così come tra nemico e criminale, e cancellando la distanza spaziale e simbolica tra civilizzato e incivile, tra il “Qui” e il “Là Fuori”, gli attacchi hanno rivelato la portata limitata e parziale di quell’universalità.
Oggi si teme che il mostro sia tornato, sotto le spoglie di masse di migranti, rifugiati e cellule terroristiche che colpiscono sia all’interno che all’esterno del bios. Allo stesso tempo, anche la natura sta contrattaccando, e le questioni del cambiamento climatico, dell’acidificazione degli oceani, dell’inquinamento atmosferico, dei rifiuti tossici e delle terre devastate invadono lo spazio del “noi”, minacciando la sua zoe. Il presagio della catastrofe planetaria rivela l’impossibile compito di mantenere l’ambiente fuori dal politico, poiché la supremazia umana sulla natura non è più un dato di fatto. Gli effetti sia delle guerre glocali sia delle catastrofi ambientali si traducono in masse di migranti che si dirigono qui, oltrepassando i confini della polis e confondendo le arbitrarie «distinzioni sociali, politiche e culturali attraverso cui si costituiscono le identità» (NUZZO 2013). Migliaia di migranti e rifugiati hanno oltrepassato i confini e i muri che “proteggono” il “Qui” e il “noi” nei vent’anni successivi all’11 settembre, dimostrando che la loro “volontà di fuga” – una fonte di profitto per l’estrazione neoliberale del plusvalore – può essere controllata e incanalata, ma non fermata. La mostruosità acquista un rinnovato significato in questo scenario travagliato, segnalando un «tempo catastrofico» (STENGERS 2015) che è sia globale che planetario.
Nel mio ultimo volume, Monsters, Catastrophes and the Anthropocene. A Postcolonial Crtique, ho esplorato gli immaginari europei e occidentali su disastri naturali, migrazioni di massa e terrorismo, attraverso un’analisi postcoloniale delle moderne concezioni di mostruosità e catastrofe. Icone consolidate della cultura visuale popolare nei film e nelle serie televisive di fantascienza, apocalisse e horror, così come nelle immagini riprodotte dai media, aiutano a tracciare la genealogia delle paure moderne fino alle ontologie e alle logiche dell’Antropocene. Tuttavia, il libro non si è limitato a svelare la violenza intrinseca dell’Antropocene, bensì ha proposto un’epistemologia femminista, post-sviluppista ed ecologista, e un progetto politico che abbraccia una nuova concezione del politico.
Formulazioni e costruzioni della mostruosità sono state ampiamente studiate in molti campi, tra cui l’arte, la letteratura, la filosofia, la storia, gli studi culturali, e gli studi femministi e queer. Il mio lavoro tratta la mostruosità come un processo discorsivo di mostrificazione storicamente prodotto, che può rivelare la relazione tra il funzionamento delle ontologie e logiche dell’Antropocene, nonché la loro legittimazione nel tempo e nello spazio.
La mia critica della mostruosità e della catastrofe si concentra prevalentemente sull’Europa e sull’Occidente, il cui immaginario di crisi – sebbene diversamente articolato nella cultura scientifica, politica e popolare all’interno e attraverso i confini nazionali – è condiviso da un “noi” transnazionale che, similmente a una Mostri, catastrofi e l’Antropocene. Una critica postcoloniale «comunità immaginata» (sulla mia ripresa del concetto di Benedict Anderson [1983], si veda GIULIANI 2019), è fondato su esperienze comuni di Storia, Geografia e di un’idea egemonica di Umanità. La prospettiva e la visione del mondo di tale “noi” costituiscono le istanze dei sistemi di credenze della cultura egemonica bianca basati su una lettura gerarchica di corpi, culture, dinamiche sociali e processi storici, in cui la bianchezza, la mascolinità dominante, i valori e lo stile di vita borghesi, l’eteronormatività, il cristianesimo e il secolarismo occidentale (sebbene con molte differenze interne) assurgono a standard.
Al centro di questo libro ci sono la posizionalità (pluralistica) del “noi” e le sue radici culturali, che incorporano diverse dinamiche politiche, processi sociali e geografie dell’Europa e dei suoi stati nazionali, così come i legami transatlantici con il resto dell’Occidente e il più ampio Nord globale. Le radici di questo “noi” egemonico affondano in un vasto regno di elementi culturali, narrazioni e auto-narrazioni convergenti e divergenti, che tuttavia vedo cristallizzarsi in una singola voce in certi momenti storici – come quando narrazioni e politiche omogenee sulla migrazione, la guerra al terrorismo e le catastrofi ambientali sono dispiegate per strutturare il modo in cui il “noi” concepisce e risponde alla minaccia. È in momenti come questi che il “noi” si trasforma in una consolidata «comunità immaginata». Proprio come sulla scia dell’11 settembre, una storia condivisa e un futuro comune vengono invocati per legittimare specifiche misure di emergenza: sulla base della sanzione politica e internazionale di un presunto “destino comune”, il “noi” può operare come dispositivo semiotico capace di sviluppare strategie convergenti e azioni comuni contro mostri e catastrofi.
Monsters, Catastrophes and the Anthropocene vuole contribuire a capire quando e come materiali culturali variamente assemblati alimentino le pratiche discorsive attorno alle quali si solidifica l’identità del “noi”. Oltre a ricentrare l’Europa e l’Occidente nell’immaginario postcoloniale, le narrazioni dominanti del nostro tempo li sollevano da ogni responsabilità per aver stabilito la loro supremazia attraverso la violenza. Le attuali costruzioni europee e occidentali del “noi”, insieme alle idee di mostruosità e disastro, mi hanno aiutato a ricostruire come l’ansia bianca e il panico morale verso “l’invasione” dei migranti, il “terrorismo” e la catastrofe finale ristabiliscono ancora una volta la bianchezza come il valore supremo e standard ideale.
Questo mio lavoro si è concentrato sull’Europa per almeno quattro ragioni. Prima di tutto perché la mia politica di posizionamento mi costringe a leggere questioni ed eventi dal luogo geografico e storico che occupo. Secondo, perché la crisi mediterranea è una delle cornici che modellano oggi la costruzione discorsiva del “noi” e i nuovi discorsi umanitari e securitari basati su misure di gestione del rischio che riguardano il controllo dei confini e la prevenzione del terrorismo. In terzo luogo, a causa della vicinanza geopolitica dell’Europa, e specialmente delle sue coste meridionali, alle aree da cui apparentemente hanno origine tanto le migrazioni di massa quanto il terrorismo. Infine, perché l’Europa è la culla delle idee di quella Storia, Geografia ed Umanità che negli ultimi cinque secoli hanno plasmato logiche e ontologie del “noi” antropocenico.
In contrasto con le definizioni tradizionali che fanno risalire l’inizio dell’Antropocene alla modernità europea e occidentale, io ritengo siano stati il Rinascimento e il cartesianesimo a creare il terreno fertile per le logiche e processi che hanno attraversato lo sforzo coloniale, il movimento di enclosures (recinzione), l’estrazione capitalistica del plusvalore, la schiavitù di massa e il moderno «contratto sociale» patriarcale (PATEMAN 1988).
Con logiche dell’Antropocene, mi riferisco a un insieme di principi basati su ontologie di sfruttamento, sterminio e su processi di esaurimento delle risorse naturali. Tali principi sono applicati indiscriminatamente alla vita organica e inorganica attraverso una panoplia di “tecnologie del potere” che servono l’ordine antropocenico delle cose e identificano chi è degno di trarre beneficio dall’estrazione di valore e di essere messo al sicuro dalla catastrofe (il “noi”), separandolo da chi è sacrificabile. Le logiche e le ontologie dell’Antropocene hanno fornito un fondamento alla violenza della Storia occidentale – con le sue concezioni del tempo e del progresso – e della Geografia, con i suoi confini e le sue identità naturalizzate, così come per le idee di Umanità volte a escludere o ad includere in modo differenziato. A partire dalla Modernità coloniale, l’Antropocene si è fondato su ontologie che discriminano la Vita umana dalla Vita non umana (animale e vegetale) e dalla Non-Vita (inorganica) (POVINELLI 2016), nonché sull’attribuzione differenziale dell’attributo di umanità (YUSOFF 2018). Diversi status e valori sono stati assegnati sulla base di quelle costruzioni di genere, razza, sessualità e classe che ho denominato «figure della razza» (GIULIANI 2015: 1) – cioè costruzioni intersezionali della razza al servizio di relazioni di potere globali e locali che, sebbene cangianti nel tempo e nello spazio, si sono sedimentate attraverso la Modernità. Geografia, Storia e Umanità partecipano alla «comune eredità europea» (MEHTA 1999; LINDQVIST 1997), che comprende le politiche coloniali sterminatrici e genocidarie che ritengono abbiano precorso, incubato e funto da “modello” per le tecnologie e i modi di pensare alla base (STOLER 2016: 73) degli Stati nazionali del “noi”.
Un certo numero di voci critiche verso la narrazione dell’Antropocene si sono levate dall’interno dei circoli di storia ambientale femminista e marxista, dai movimenti ecologisti nel Nord e nel Sud del mondo, dalle lotte indigene e da altre forme di resistenza ai confini globali razzializzati. Le loro esperienze e riflessioni mi permettono di rivelare non solo la violenza inerente il funzionamento dell’Antropocene, ma anche la parzialità e la situazionalità delle costruzioni di mostruosità e catastrofe. Un diverso approccio alla narrazione dell’Antropocene è fornito anche dai discorsi del Capitalocene e del Plantationocene. Donna J. Haraway (2015) e Jason A. Moore (2016, 2017, 2018) hanno sostenuto che sia stato il capitalismo – piuttosto che la semplice apparizione di cacciatori, raccoglitori e agricoltori – ad avere un impatto sostanziale sul pianeta attraverso le emissioni di CO2, l’estrattivismo, lo sfruttamento disumano, il genocidio, l’inquinamento di aria e acqua, e la devastazione della terra. Françoise Vergès (2017), in particolare, ha suggerito di usare «il termine “Capitalocene razziale” per sottolineare i modi in cui il colonialismo, la schiavitù e “l’uso globale della linea del colore” hanno portato a una svalutazione contemporanea sia della vita umana che del mondo non umano. Nella comprensione delle crisi ambientali contemporanee, è fondamentale rimanere in sintonia con i modi in cui “la distruzione nell’era coloniale diventa visibile nell’era postcoloniale”» (VERGES 2017: 77; DAVIS et al. 2019: 3). Il discorso del Plantationocene enfatizza il ruolo della piantagione come sistema di relazioni di potere antropoceniche, biolitiche e necropolitiche razzializzate, insieme a specifiche trasformazioni geologiche, ecologiche e biologiche causate dalla colonizzazione, dalle piantagioni intensive e dal lavoro schiavile (TSING 2015; HARAWAY et al. 2015; MITMAN, HARAWAY e TSING 2019; YUSOFF 2018; DAVIS et al. 2019; si veda anche DAVIS e TODD 2017; MIRZOEFF 2018; MOORE 2015; LEWIS e MASLIN 2015). È questo apparato teorico che mi permette di tirare il filo che connette le catastrofi ambientali, la cosiddetta crisi dei migranti, il terrorismo e la «guerra al terrore». Ciascuno di questi fenomeni è in modo diverso il risultato di ciò che viene descritto nella letteratura scientifica come “accelerazione” (neoliberale), che ha portato anche al cosiddetto landgrabbing, all’impoverimento di massa, alla devastante estrazione di combustibili fossili, all’inquinamento, alle epidemie e agli effetti estremi del cambiamento climatico e, per le stesse ragioni, ai conflitti globali innescati dalla crisi dei carburanti fossili.
La visione egemonica, tuttavia, non vede in questi problemi una stretta correlazione. Tale narrazione nasconde non solo le vere cause, senza affrontarle, bensì anche gli apparati di governance istituiti dal “noi” per gestire la crisi. Ciò di cui c’è bisogno è l’approccio proprio delle environmental humanities, capace di guardare alla relazione tra le dimensioni sociali, economiche, politiche e geologiche dell’Antropocene. Un «approccio più integrato e concettualmente sensibile alle questioni ambientali» (BIRD ROSE et al. 2012: 2) può aiutare a identificare l’intricato complesso di cause che sta dietro lo spostamento dei popoli e la scelta di migrare, quelle che Sandro Mezzadra (2001; 2004: 270) definisce come «cause oggettive»: violenza eteropatriarcale, razzista e classista, libertà limitate e forme di discriminazione tipiche dei regimi autoritari. Dal mio punto di vista, anche la limitazione delle libertà, le discriminazioni e la violenza strutturale sono conseguenza di logiche e ontologie antropoceniche che distinguono tra chi ha il «diritto di avere diritti» (Arendt 1951) e chi no. Non solo: queste “cause oggettive”, insieme alle misure antiterrorismo e alle pratiche neoliberali di securitizzazione e inclusione differenziale attuate dall’Europa e dall’Occidente per mitigare la “minaccia”, rientrano nell’ambito della biopolitica e della necropolitica, ma alimentano anche economie che si basano e riproducono la violenza dell’Antropocene.
Per una politica di posizionamento contro l’Antropocene
Al centro della mia riflessione più in generale c’è l’assunto epistemologico per cui tutta la produzione di conoscenza è situata, in quanto riflette non solo il contesto socio-storico, geografico e culturale in cui viene prodotta, bensì anche e soprattutto la “posizione” sociale di colui/colei che la produce. La mia epistemologia si fonda su una «politica dei luoghi» (RICH 1987) che determina «o lugar de fala» (KILOMBA 2018; RIBEIRO 2019), cioè la posizione di privilegio razziale, di genere e di classe da cui viene prodotta una particolare conoscenza. In questo caso, è la posizione del “noi”, così come la mia stessa posizione, a essere sotto esame. Entrambe sono il prodotto di un complesso insieme di elementi sintattici e di dinamiche (che costituiscono i loro quadri situati) che convergono per produrre sia il soggetto della conoscenza che la conoscenza stessa. Questa posizione epistemologica nasce dall’applicazione della nozione di intra-attività alla produzione di conoscenza, per la quale «sappiamo perché siamo del mondo. Siamo parte del mondo nel suo divenire differenziale» (BARAD 2007: 185). Ciò implica che il soggetto della conoscenza – nel mio caso tanto il “noi” egemonico quanto il mio “io” – così come le annesse strutture cognitive, sono il prodotto di una serie preesistente di intra-azioni tra gli umani, e tra la Vita umana, la Vita non umana e la Non vita.
Un ulteriore assunto epistemologico rilevante per la mia analisi delle attuali narrazioni egemoniche di mostruosità e catastrofe è quello per cui il successo di qualsiasi interpretazione di un dato momento della storia dipende tanto dalla posizione di privilegio occupata dal suo autore/dalla sua autrice (o dai suoi autori ed autrici) quanto dalle sue corrispondenze con concezioni preesistenti e inquadranti. Come sostenuto da Cyril Lionel Robert James in riferimento a Herman Melville e Moby Dick nell’ultimo capitolo di Mariners, Renegades and Castaways (1953: 122-131) e nella sua famosa intervista con Stuart Hall (2007), qualsiasi opera culturale non è solo il prodotto del suo contesto, ma anche una produzione collettiva, poiché la sua originalità dipende tanto dalla nuova conoscenza prodotta dal suo autore quanto dalla sua autorialità nell’assemblare le conoscenze già esistenti. Potremmo dire, allora, che i saperi, le narrazioni e le paure della mostruosità sono prodotti genealogicamente (FOUCAULT 1976b), poiché sono il risultato di assemblaggi di significati originati dai contesti sociali e culturali, dagli attori coinvolti e dalle relazioni di potere esistenti in un momento storico dato.
Il “noi”, in quanto formazione storica regolata da un sistema di valori, privilegi, pratiche sociali e idee, ha uno sguardo specifico, un right to look (nella doppia accezione di diritto a guardare e diritto ad apparire, MIRZOEFF 2011) legittimato dalla supremazia storica. Come in una relazione semiotica circolare, ciò a sua volta legittima tutte le distinzioni che hanno dato sostanza alla sua supremazia politica, economica e culturale nel passato. Le stesse distinzioni – per esempio, tra il “noi” e “l’Altro”, il “Qui” e il “Là Fuori”, il “buono” e il “cattivo”, il “degno” e il “sacrificabile” – operano oggi nelle narrazioni della mostruosità e nelle paure della catastrofe. Le concezioni del “Là Fuori” come luogo del “sacrificabile” sono rilevanti oggi come in passato, nonché profondamente radicate nelle percezioni moderne di una divisione tra l’Occidente e il resto del mondo e nella sensazione di essere «sotto assedio» (HAGE 2016). Fin dalla prima Modernità, l’idea di mostri e catastrofi come esseri ed eventi esterni ha tratto forza dall’assunto che l’Europa e l’Occidente siano isolati, sotto attacco e di fronte a una minaccia proveniente da ciò che è percepito come un esterno incommensurabile e ontologicamente pericoloso, luogo di oscurità (CONRAD 1899). Sebbene attraverso l’attribuzione di significati diversi nel corso del tempo – come luogo della natura imprendibile, dei disastri sistemici, degli infedeli e dei mostri indigeni –, il “Là Fuori” è sempre stato identificato con l’Alterità ignota e minacciosa.
Se lo spazio del “noi” è considerato libero dalla catastrofe (in virtù del fatto che la civiltà ha dominato la natura, riducendola a un deposito di risorse per l’estrazione di valore), ne consegue che il Fuori è il luogo “per” il disastro. La catastrofe, a differenza del disastro, è stata vista fin dal secolo dei Lumi come una crisi, un momento di rinnovamento che inaugura una nuova fase nella storia dell’umanità. Nella tarda modernità, come sosteneva Benjamin (1940), gli uomini non hanno lasciato che la catastrofe offuscasse le loro speranze per il futuro. Secondo la studiosa umanista ambientale Miriam Tola, questo atteggiamento era un riflesso della «narrazione principale dell’Antropocene in cui un Anthropos indifferenziato è contemporaneamente la causa della catastrofe e il suo rimedio» (TOLA, comunicazione personale, 8 marzo 2020). In questa narrazione, che oggi permea l’ecomodernismo[2], la catastrofe era un marchio dello “spazio civilizzato” dell’Occidente, mentre i disastri erano visti come eventi distruttivi strutturali e, come tali, identificati con il “Là Fuori”. Questa credenza antropocenica ha alimentato la modernità coloniale (SAID 1978, 2003) riproducendo le idee occidentali del “Là Fuori” come intrinsecamente caotico, pericoloso, violento, arretrato e incapace di prevedere i rischi e gestire le crisi. Come sostenuto da Edward Said nel descrivere il farsi dell’Oriente nell’immaginazione imperiale britannica (1978), e più recentemente da Achille Mbembe, quando riflette sull’Africa e gli africani nei discorsi postcoloniali occidentali (2001: 9), l’Altro mostruoso e il suo “Là Fuori” sono stati interpretati come responsabili della loro stessa apocalisse.
L’Altro, sia che provenga da un “Là Fuori” geograficamente separato o segregato internamente, è sempre una minaccia agli occhi del “noi” – un agente di corruzione che può alla fine portare all’annientamento del “corpo” della nazione, dell’Europa o dell’Occidente. I migranti che arrivano a Lampedusa, Malta o Lesbo (GIULIANI 2016a, 2016b, 2017; GIULIANI-VACCHIANO 2019) sono accusati di determinare il graduale collasso economico e sociale dell’Europa, di diffondere malattie mortali e di tramare attacchi terroristici. L’Altro e il “Là Fuori” sono rischiosi, per definizione (ARADAU 2004; SALERNO 2016: 374).
Come affermato da Judith Butler in relazione al cambiamento delle condizioni e delle percezioni negli Stati Uniti e in Occidente dopo l’11 settembre, la definizione del rischio oggi è parte integrante della rivelazione della nostra «dipendenza fondamentale dagli altri anonimi […]. Nessuna misura di sicurezza precluderà questa dipendenza; nessun atto violento di sovranità libererà il mondo da questo fatto». E sebbene «ci siano modi», come aggiunge Butler, «di distribuire la vulnerabilità, forme differenziali di assegnazione che rendono alcune popolazioni più soggette di altre alla violenza arbitraria» (2004: XII), non c’è stata fino ad oggi una sufficiente consapevolezza pubblica e politica del fatto che la violenza e la reciprocità colpiscono necessariamente, per primi e in modo massiccio, i più vulnerabili. Né c’è stato un riconoscimento istituzionale delle questioni sollevate da Sara Ahmed nel 2004: «Qual è il soggetto che viene contrastato attraverso il terrore? Di chi è la vulnerabilità in gioco?», questioni con cui indicava chiaramente l’economia differenziale della “paura” e “dell’ansia”, fondata su relazioni di potere postcoloniali basate sulla razza e sul genere.
Il contesto in cui la “cornice di guerra” è stata introdotta dopo l’11 settembre è quello che Ulrich Beck, nei primi anni Novanta, ha chiamato la società del rischio, in cui la “nuova modernità” della globalizzazione rende la vita dei privilegiati vulnerabile e precaria, esposta com’è ad eventi imprevedibili (1992: 13). Ciò a cui Beck si riferisce è una nuova “accelerazione” – riconosciuta anche dalla letteratura scientifica sull’Antropocene – che mette a dura prova la capacità della natura di contenere i rischi inerenti alla modernità globalizzata. Questi non sono “effetti collaterali”, continua, ma i risultati stessi della società del rischio post-industriale. L’intuizione di Beck sarebbe corretta, se non fosse per il fatto che non tutte le società hanno raggiunto lo stadio post-industriale allo stesso tempo e nello stesso modo, e alcune non lo hanno raggiunto affatto. La sua argomentazione presuppone un’universalità che non esiste e una vulnerabilità comune agli effetti del capitalismo globale che molti “Altri” hanno in realtà già sperimentato. Chi sta diventando vulnerabile? Chi lo è sempre stato? In ogni caso, trent’anni dopo, le narrazioni mainstream e i resoconti ufficiali degli impatti del cambiamento climatico e delle catastrofi ambientali si riferiscono ancora ai rischi collocati dall’ultima accelerazione neoliberale dell’Antropocene tra gli “effetti collaterali”. La spersonalizzazione della responsabilità liquida l’Antropocene come prodotto della “natura umana” nel suo complesso, mentre è, invece, un insieme di «processi storici interconnessi messi in moto da una piccola minoranza» (DAVIS et al. 2019: 4).
La colpevolizzazione generalizzata dell’umanità nel suo complesso, senza distinzione di razza, genere, classe o nazionalità, ha portato a una generale mancanza di responsabilità, nonché alla depoliticizzazione e alla graduale normalizzazione della crisi (BETTINI 2013), per cui le proteste vengono messe a tacere e chi fugge dal disastro viene criminalizzato, trasformato in un mostro che non accetta una vita di sottomissione e sacrificio e che attraversa muri, confini e spazi segregati per raggiungere lo spazio (più) “protetto” del “noi”, mettendolo in pericolo. In questa cornice, sono coloro che hanno beneficiato meno dell’estrazione di valore e dell’estrattivismo a essere sacrificati per primi nel caso di un’apocalisse che viene presentata come nient’altro che una crisi, un periodo di transizione verso un mondo post-apocalittico in cui logiche e ontologie dell’Antropocene torneranno a prevalere. Oggi, come nel passato coloniale moderno, le costruzioni razziali della mostruosità e della catastrofe sono utilizzate come dispositivi per ostracizzare coloro che sono percepiti come minacciosi (FOUCAULT 1976b; NUZZO 2013: 56) e distogliere l’attenzione dal vero mostro.
Un’epistemologia femminista contro il panico morale e fondata sulla cura
Oltre ad un apparato decostruttivo che permette di individuare le sorgenti del panico e le costruzioni del mostruoso, Monsters, Catastrophes, and the Anthropocene propone un progetto politico femminista contro il panico morale, l’autoritarismo che esso legittima e l’estrattivismo che esso nasconde e riproduce. Tale progetto politico si fonda su di un’epistemologia politica della cura, della cura di sé e della cura della terra, inquadrata all’interno dell’ecofemminismo, della “natureculture” femminista e della teoria della riproduzione sociale. Esso si propone di abbracciare le crisi globali poste dal cambiamento climatico, dai disastri ambientali, dalle migrazioni e dal terrorismo, nonché di suturare le ferite storiche che generano mostri e catastrofi. Attingendo alle prospettive anticapitaliste dei movimenti della decrescita e del post-sviluppo (KOTHARI et al. 2019), sia la critica femminista dell’Antropocene sia l’epistemologia politica che propongo sfidano la logica neoliberale dell’accelerazione, rivendicando la necessità di nuovi concetti di “riproduzione” e cura basati sulla necessaria interdipendenza tra cura, cura di sé e cura della terra. In linea con la teoria queer occidentale (SEYMOUR 2013), afroamericana e femminista africana (vedi LORDE 1988: 227; AHMED 2014; MCFADDEN 2020) e allontanandomi dai concetti patriarcali ed eteronormativi di “cura”, ipostatizzo la cura di sé come cura limitante e sostanziale. Il passo successivo verso la comprensione del fatto che la cura di sé e la cura della terra sono complementari e inseparabili a causa della materialità interconnessa della terra e del sé attinge dai concetti di trans-corporeità (ALAIMO 2010) e intra-attività (BARAD 1995, 2007, 2008) sviluppati dal femminismo materiale per rivelare l’estrema vicinanza e interdipendenza della Vita umana, della Vita non umana e della Non-vita. Poiché la agency umana nasce dalla materia intra-agente, la trans-corporeità e l’intra-attività diventano allora valori politici che, in linea con la “natureculture” femminista e le cosmogonie indigene, informano nuove definizioni della soggettività e del politico, includendo la vita umana e non umana, la Terra e la catastrofe ambientale.
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NOTE
[1] Il presente testo riassume l’introduzione al volume Monsters, Catastrophes and the Anthropocene. A Postcolonial Critique pubblicato dall’autrice nel 2021 per i tipi di Routledge. Questo contributo è stato reso possibile attraverso il sostegno della FCT – Fundação para a Ciência e a Tecnologia – attraverso il progetto: (De)Othering: Deconstructing Risk and Otherness: hegemonic scripts and counter-narratives on migrants/refugees and ‘internal Others’ in Portuguese and European mediascapes (Referenza: POCI-01-0145-FEDER-029997).
[2] http://www.ecomodernism.org/