Come raccontare le giornate di Genova? Come fare di “Genova”, quello che a Genova si ritrova e quello che ne nasce, una narrazione che non sia solo biografica, ma storica, utile a questo presente e al presente che verrà solo tra anni? Come non eludere i suoi fantasmi, facendo emergere invece i suoi spettri? Dagli eventi che precedono a quelli che seguono le giornate di luglio, sulle tracce e le pratiche della “disobbedienza” e di quelle dei capi di polizia che, dopo aver depistato le indagini su via D’Amelio si ritrovano a decidere l’ultimo atto della Diaz, quel che proviamo a scrivere è un memoriale. Necessariamente non finito.
di Gianfranco Ferraro ITA_22.07.2021
Il 22 luglio 2001 Genova si risvegliò una città ferita, rintontita, svuotata. Chi era riuscito a scappare era scappato. I “Grandi”, anche loro, se ne andarono alla chetichella, sparirono dalla scena, occupata dalle macerie, da uno sparo, da un morto, e dalle immagini dei feriti della incursione poliziesca, o squadrista, per parlar chiaro, della Diaz, quella che uno dei suoi autori (Michelangelo Fournier) definì “macelleria messicana”, e dai racconti del Garage Olimpo di Bolzaneto. In ogni città, il giorno dopo, ci si era dati appuntamento, in una piazza, una strada. Nacquero quei Social Forum locali che, nei mesi successivi, furono il perno su cui si incanalò il movimento contro le guerre che vennero da lì a poco, pochissimo. Un mese e mezzo e l’ombra lunga di “Genova” dovette fare i conti con l’afasia provocata da un attacco mortale contro uno dei simboli di quell’Occidente che, da sinistra, avevamo criticato proprio fino a Genova. A nessuno – e principalmente all’ideologia dominante – sfuggì il nesso simbolico tra l’obiettivo della contestazione degli anni precedenti e l’obiettivo dell’islamismo armato. Nesso pericolosissimo. Un movimento fragile ne sarebbe stato travolto, eppure non fu così. Un altra parola, un altro discorso, e quindi altre persone e altri mondi sembravano possibili. Annosi conflitti della sinistra parvero comporsi là dov’erano più forti. Ricordo, a Pisa, delle mirabolanti riunioni in cui prendevano la parola i “compagni” del Newroz – il centro sociale nato dall’autonomia sopravvissuta agli anni ’80 – i collettivi studenteschi, nati all’epoca della contestazione della “Pantera”, e – con un fil di voce, parlavano così – i “giovani della Margherita” (il Pd era ancora di là da venire). Anche questo fu un effetto di Genova: l’anno dopo, la CGIL di Cofferati (chi se lo ricorda) chiamò in piazza a Roma tre milioni di persone a Roma contro l’abolizione dell’articolo 18. Tre milioni, non bruscolini, senza nessun incidente. La stessa estate, sempre nel 2002, si tenne a Firenze il Forum sociale europeo. Riuscitissimo, allegro: i commercianti che avevano chiuso, cedendo alle paure e spendendo vagonate di denaro per non farsi distruggere le vetrine collocando corazze improvvisate e strutture di legno di fronte ai vetri, si mangiarano le mani. Non ricordo una Firenze così incantata come in quell’estate del 2002. Vennero le guerre, dicevamo, prima in Afghanistan, poi contro l’Iraq. Come Saturno coi propri figli, i neocons di Washington approfittarono del momento per fare a pezzi due creature ribelli – il Saddam Hussein che per gli americani aveva combattuto contro l’Iran negli anni Ottanta, e i talebani che loro stessi avevano scatenato contro i sovietici – per inaugurare quello che avrebbe dovuto essere il “Nuovo secolo americano”.
Secolo ancor più breve del Novecento, si dovrebbe dire, stando alle cronache di questi giorni, con le armate occidentali in fuga precipitosa da quei teatri, una latente guerra civile interna ai Paesi occidentali, e la Cina prossima a diventare nuovo dominus mondiale. Vennero le guerre, dopo Genova, e quello che a Genova era accaduto servì, per qualche anno ancora, ad opporsi. Qui veniamo a un altro punto, cruciale. Perché la storia dei movimenti politici è innanzitutto la storia delle sue pratiche. Intorno a Genova nacque il paradigma della “disobbedienza”, ben radicato nel Nordest, e con un testo sacro pubblicato da pochi anni appena, Impero di Negri-Hardt (un grande libro, da rileggere, per inciso). Molto sinteticamente, la tesi era questa: l’Impero unipolare e governamentale creatosi nel decennio inaugurato dal Crollo del Muro di Berlino, doveva specchiarsi in una contestazione dialettica, le “moltitudini”, dotate di tattiche, più che di strategia. Se il paradigma (foucaultiano) della governamentalità chiariva come il potere si radicava nei corpi e nella maniera di gestire i corpi, era con i corpi, innanzitutto con quelli, che bisognava opporsi. I vecchietti della festa di Liberazione e dell’Unità, i capi partigiani ancora in vita, e i giovani ortodossi, non capivano bene, all’epoca, questa storia dei corpi e delle moltitudini. Neanche io per la verità. Anche se mi sembrava assodato che lo Stato-nazione non fosse più il perno principale su cui fondare un’analisi politica, la ricaduta della teoria delle moltitudini sulle pratiche di piazza mi stava un po’ stretta. Come il Partito (c’era, all’epoca la grande Rifondazione di Bertinotti, al 10%). Sarà che nel Partito intravedevo rituali senza troppa presa su gente della mia età, qualcosa non mi tornava. E non mi tornava però neanche nella “disobbedienza”, nei suoi rituali troppo presto formalizzati, nell’opposizione dei corpi, appunto. Non aveva funzionato granché a Genova, per la verità, dove dei corpi che si erano opposti erano stati sì massacrati, ma erano quelli di chi aveva deciso di stare in piazza alzando semplicemente le mani o quelli di chi si era riparato in una scuola a dormire. E non aveva funzionato neanche prima. Perché c’è stato un “prima”: le giornate di Genova non erano arrivate all’improvviso. C’era stato il Global Forum di Napoli, nel marzo del 2001, e ancor prima due manifestazioni, una dietro l’altra: l’11 dicembre, a Nizza, dove il Consiglio europeo aveva firmato un trattato in vista dell’approvazione di una Costituzione europea, e il 16 dicembre, a Roma, contro l’allora Governatore neonazista della Carinzia, Haider, in visita di cortesia a Papa Woityla. Nel primo caso, ricordo, la Francia chiuse paradossalmente le frontiere, proprio nel momento in cui si voleva firmare un trattato politico che sancisse l’inizio di una unificazione europea: il treno dei manifestanti venne così fermato a Ventimiglia. Senza molta strategia, le avanguardie disobbedienti trascinarono le moltitudini allo scontro con la polizia prima sui binari e poi in una galleria autostradale tra Ventimiglia e Mentone. A parte qualche corpo vagante, che decise di passare la frontiera in ordine sparso, le moltitudini in ritirata vennero massacrate, prima davanti alla galleria e poi, quando si risistemarono sul treno alla stazione di Ventimiglia, dove vennero agilmente attaccate dalla polizia. Pochi giorni dopo, a Roma, lo schema si ripetè quasi identico. Accordi tra polizia e manifestanti prevedevano qualche piccola pressione al limite tra via della Conciliazione e l’imbuto di Castel S. Angelo. Era chiara la discrepanza tra il “detto” e il “non detto”: il primo implicava che si sarebbe dovuto portare una immagine di Auschwitz più vicino possibile a Piazza S. Pietro; il secondo che si sarebbe fatto fino a un certo punto, per la salvezza d’immagine di polizie e disobbedienze. Quello che andò storto fu che il “non detto” non venne rispettato, anche qui, però, senza strategia: la testa di corteo decise di avanzare senza minimamente pensare all’assenza di vie di fuga dei corpi che stavano dietro. La polizia caricò, per poi perdersi in assurde rincorse corpo a corpo per i giardini sotto Castel S. Angelo.
Avevo meno di venti anni, all’epoca, e no, non mi convinceva la “disobbedienza”. Soprattutto una cosa non mi convinceva: la discrepanza tra il dire e il fare. Anzi, l’ossessione per non dire tutto, a chi per lo meno stava dalla stessa parte, su quello che si sarebbe dovuto fare. Il partito, per così dire, aveva per lo meno le sue regole, anche democratiche, che si accettavano da subito, e le scelte potevano anche non essere condivise: la disobbedienza, in nome della sua stessa strategia informale, mi sembrava dimenticare che la democrazia aveva bisogno di regole di autogoverno. Insomma, se dovevo mettere a disposizione il mio corpo, mi si doveva far partecipare alle scelte, politiche e militari. Credo sia questo, al netto della repressione e della sospensione di diritto che ebbe luogo prima di Genova e a Genova, il grande fallimento di piazza che può ben essere rappresentato come il fallimento delle pratiche di quella disobbedienza. La disobbedienza, prima quella del Nordest e quindi quella Toscana, si ridusse ad un obbiettivo, pian piano neanche troppo nascosto, di riprodurre un ceto politico giocando sull’ambiguità delle stesse regole informali con cui si stava in piazza. Un principio puramente e semplicemente estetico della politica, per cui far vedere il “corpo” del manifestante si riduceva all’unico obiettivo strategico, sostituì per così dire il principio di responsabilità, per cui un “segno” dev’essere incluso in un vocabolario, comune, per lo meno, a tutti quanti partecipano. Il momento finale e drammaticamente chiarificatore di questa trasformazione avvenne cinque anni dopo Genova, quando, nel 2006, dopo aver incluso molti “ex-disobbedienti” tra le liste di Partito, Bertinotti, allora Segretario di Rifondazione Comunista, venne eletto Presidente della Camera dei Deputati, evento che sanciva, a detta sua, l’ingresso dei movimenti nelle istituzioni. A seguire i destini istituzionali di molti dei disobbedienti di pochi anni prima, qualche ragione di diffidenza, per il ventenne del 2001, era più che giustificata.
Non che in quei cinque anni non ci sia stato altro. Ma la trasformazione della politica in atto puramente estetico era qualcosa che avrebbe scarnificato, a lungo termine, lo stesso contenuto politico e reciso l’atto dalla sua mise en forme a lungo termine. Più che resistere alla governamentalità, la disobbedienza – nella stragrande maggioranza dei casi – si è integrata in una politica dello spettacolo, identificando l’atto politico con la rappresentazione di un atto individuale, e quest’ultimo, infine, banalmente, con il proprio destino personale (così non può stupire che un disobbediente come Gennaro Migliore sia oggi seguace di Matteo Renzi).
Ma, appunto la diffidenza. Come ha detto uno dei pochi artisti geniali della mia generazione, Zerocalcare, a Genova si consuma in modo irreversibile il rapporto di fiducia tra una certa generazione e il fondamento democratico delle istituzioni. Un rapporto già incrinato, ma che a Genova si consuma del tutto: il tentativo di depistaggio sulla morte di Carlo Giuliani, il falso ritrovamento di molotov e armi nella Diaz, solo per giustificare l’irruzione della PS ai sensi del 41bis, la stessa incapacità delle forze di polizia di autogovernare la propria stessa azione – ciò che portò poi alla tragedia di Piazza Alimonda, con il tentativo ingiustificato di assediare i manifestanti senza forze adeguate, prima, e con la fuga tanto disordinata da lasciare isolati due defender di carabinieri, dopo –, l’omertà istituzionale durante i processi successivi, tutto questo insomma ha fatto della diffidenza una delle cifre con cui leggere il dopo Genova.
Del resto, attraverso un nome, quello di Arnaldo La Barbera, una delle figure più inquietanti della storia della seconda Repubblica, le pagine più buie di Genova si legano a quelle della storia seguita alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nel novembre del 1992, parecchi mesi dopo l’uccisione di Borsellino, in particolare, l’allora capo della squadra mobile di Palermo riconsegnava alla famiglia la borsa bruciacchiata del giudice, rimasta nel suo ufficio per tutti quei mesi: davanti alla richiesta della famiglia di restituire tutto il suo contenuto, e principalmente l’agenda rossa su cui Borsellino annotava i suoi appunti personali, il funzionario non riuscì a far di meglio che dare della folle alla figlia del giudice, Lucia Borsellino. Quel funzionario era Arnaldo La Barbera. Il quale, da lì a poco, si superò: nominato nel 1993 a capo del neonato “gruppo d’indagine Falcone-Borsellino”, La Barbera, che si scoprirà in seguito essere stato collaboratore del Sisde – con il beneplacito del magistrato Tinebra, di Caltanissetta, lo stesso che non aveva mai chiamato Borsellino a deporre nelle settimane successive alla strage di Capaci –, convinse Vincenzo Scarantino, un personaggio completamente estraneo alla mafia, ad autoaccusarsi della strage, avviando così un lungo depistaggio, che costò la prigione per diversi anni a vari innocenti e a cui solo il pentimento di Gaspare Spatuzza e il Borsellino Quater riuscirono a porre fine.
È lo stesso Arnaldo La Barbera che, ormai a capo della Direzione centrale della polizia di prevenzione e presidente del Comitato di analisi strategica antiterrorismo, presiede le operazioni di polizia a Genova, decidendo, infine, proprio la sera del 21 luglio, e quando ormai il peggio sembrava alle spalle, di fare della scuola Diaz, centro operativo del Genoa Social Forum da una parte la valvola di sfogo della sete di vendetta di una parte delle truppe, e dall’altra, il momento culminante – da spendere politicamente – della criminalizzazione del movimento. Pazienza se, per giustificare l’operazione “antiterrorismo”, occorrerà – come avvenne puntualmente – costruire delle prove posteriormente. Da ricordare, in quell’occasione, come sempre nelle pieghe feroci della storia, la presenza di un “giusto”, il vice-capo della polizia Ansoino Andreassi, che si oppose all’operazione, subendo ritorsioni lungo il corso della rimanente carriera. La Barbera e Andreassi sono entrambi morti, ciò che contribuisce a fare di Genova, più che un fatto politico e giudiziario, un fatto storico. Ma che La Barbera sia morto non impedisce allo sguardo storico di vedere quello che lega nella prassi di questo grigio e tristo servitore non dello Stato e neanche del suo miglior reggitore, Genova a via D’Amelio: un certo modo di ridurre la forza pubblica a serva di un particulare. Una tendenza di lungo periodo del potere italiano che, sotto l’aura, pur discutibile, della “ragion di Stato” si incarna in realtà in feroci macchiette incapaci di qualunque visione prospettica.
Dunque, la diffidenza. Ha poco senso ricordare Genova come la fine o l’inizio di qualcosa. A venti anni di distanza, con molti dei protagonisti di quei giorni passati a miglior vita o dimenticati dalla storia, con le sentenze contro una parte della polizia passate in giudicato, l’Italia condannata per tortura, e uno scenario politico radicalmente modificato, “Genova” e tutto quello che l’ha preceduta o seguita, sembra davvero un altro mondo. La breccia, certo, di un altro mondo possibile. Ma una breccia il cui senso storico e, in modo lievissimo, politico, si può riprendere solo a partire dal presente. Serve pensare cosa è accaduto, e come è accaduto, per ritrovare i fili dispersi che ci hanno fatto quello che siamo adesso, a venti anni di distanza. Per ritrovare i fili di quel che è accaduto in mezzo: la stagione dell’Onda o dei Beni comuni o ancora le buone pratiche di supporto ai diritti dei non cittadini, dei migranti. Magari per ritrovare anche solo un filo giusto, che possa essere utile alle lotte e alle pratiche di chi viene o verrà un giorno e avrà bisogno di dare prospettiva a quello che fa. Per questo, occorre trovare il vocabolario giusto non solo per chi ha vissuto quei fatti venti anni fa: la biografia di chi oggi ha almeno quarant’anni deve essere distinta dalla storia e dalla politica. Non che le tre cose non s’incrocino: ma nessuna può essere ridotta l’una all’altra.
Genova, se ha avuto senso, dovrà avere senso domani. Per un domani che possa interrogare quell’oggi a partire dal suo presente. Anche se i fili sono spezzati, la storia ritorna sui fili passati, se ne appropria: bisogna indicare allora quali di quei fili abbiano senso.
Ricordo quanto diceva uno dei miei antichi maestri: “vuoi capire qual è stato il problema, l’ossessione di una persona, di una generazione? Chiediti cosa accadeva quando aveva venti anni”. Nel luglio del 2001 non avevo ancora venti anni, nel settembre del 2001, sentendo per radio – al momento non avevo né tv né connessione internet – degli aerei che precipitavano sulle Torre Gemelle, venti anni li avevo compiuti da poco.
Genova è stato un trauma, un “trauma psicopolitico“, cui ne sono seguiti altri. Ripensandoci, venti anni dopo, non riesco a dare torto a quell’antico maestro: tutto il resto, tutto quello che è accaduto “dopo”, è stato vissuto nell’ombra lunga di quello che è accaduto in quei giorni. Ma chiariamo un’ultima cosa: chi ricorda Genova è una parte della società italiana – e internazionale – che definire oggi minoritaria è dir poco. “Genova”, quello che l’ha immediatamente preceduto, e quello che l’ha immediatamente seguita – altro non è stato che un ultimo guizzo del grande Novecento, quello della massa di Canetti e quello che della grande politica al tramonto, come diagnosticava allora Mario Tronti. È stato lo spartiacque che ha come fotografato paradigmaticamente – e in anticipo – la crisi di sistema delle istituzioni democratiche che oggi viviamo, il sentimento di diffidenza, giustificato e comprensibile, visto lo iato tra cosa si dice e cosa si fa pubblicamente. Non sarebbe esistita la crisi della sinistra – per come è avvenuta – senza Genova, l’esigenza di “protezione” da parte dei ceti impoveriti piccolo-borghesi non si sarebbe rivolta in modo così massiccio ai bonapartismi berlusconiani e poi parafascisti di destra, non avremmo avuto l’antipolitica, così come l’abbiamo conosciuta. A Genova – e per “Genova” intendo tutto ciò che a Genova si è rappresentato – troviamo un compendio delle utopie così come delle ferocie, delle ipocrisie, delle possibilità tradite, dimenticate o semplicemente uccise degli ultimi venti anni. La dura lotta, e la vittoria, della sorella di Stefano Cucchi contro le omertà dei carcerieri in divisa, la repressione delle carceri nei primi mesi di pandemia, tutto questo, a Genova, è stato presente. Era presente persino il rischio implicito in ogni potere svincolato dal suo controllo, in ogni potere che fa semplicemente perché può, il rischio di autoritarismo che alberga nelle nostre società. Un teatro, Genova: l’ultimo teatro politico del Novecento e il primo del Ventunesimo secolo. Di quel teatro, bisogna far transitare tutto il possibile, quel che può essere utile, oggi e in futuro, senza dimenticare tutto il resto. Leggere il filo rosso, ma anche le carte ingiallite, i video amatoriali, tutto il grigio con cui le biografie hanno disegnato una storia. Fare in modo che le biografie, anche quelle dei viventi, non si sostituiscano alla storia, né tantomeno alla politica, come troppo spesso si è fatto, mandando all’aria la poca politica e la poca storia, in nome di una salvezza solo personale. Un memoriale non è più cronaca, è una genealogia critica, che può passare, anche, dove serve, per le biografie. Il resto è storia, e non è poco. Per questo, Genova è la traccia di un memoriale ancora non finito.