[La redazione di Thomasproject pubblica un articolo di Marcello Musto uscito sull’inserto del Corriere della Sera “La Lettura” il giorno 7 marzo 2021]
[ITA_11/03/2021]
I borghesi avevano sempre ottenuto tutto. Sin dalla rivoluzione del 1789, erano stati i soli ad arricchirsi nei periodi di prosperità, mentre la classe lavoratrice aveva dovuto regolarmente sopportare il costo delle crisi. Bisognava ribaltare questo corso e, all’indomani della cattura di Napoleone III, sconfitto dai tedeschi nel settembre del 1870, e della nomina, cinque mesi più tardi, di Adolphe Thiers a capo del governo, il popolo di Parigi fu animato da un nuovo spirito di lotta. La prospettiva di un esecutivo che avrebbe lasciato immutate le ingiustizie sociali scatenò la ribellione nella capitale francese. Il 18 marzo 1871 scoppiò una nuova rivoluzione; Thiers e la sua armata dovettero riparare a Versailles.
Gli insorti decisero di indire subito libere elezioni. Una schiacciante maggioranza (190 mila voti contro 40 mila) approvò le ragioni della rivolta e 70 degli 85 eletti si dichiararono a favore della rivoluzione. Il 28 marzo una grande massa di cittadini si riunì nei pressi dell’Hôtel de Ville e salutò festante l’insediamento della nuova assemblea, che prese ufficialmente il nome di Comune di Parigi. La popolazione era stremata da mesi di stenti, ma questo evento fece rinascere la speranza. Nei quartieri sorsero club rivoluzionari, comitati e gruppi in sostegno della Comune. In ogni angolo della metropoli si moltiplicarono iniziative di solidarietà e piani per la costruzione di un mondo nuovo. La parola d’ordine fu condividere. Militanti come Louise Michel funsero da esempio per il loro spirito di abnegazione — Victor Hugo scrisse di lei: «Facevi ciò che fanno le grandi anime folli. Glorificavi coloro che vengono schiacciati e sottomessi». Tuttavia, la Comune non visse grazie all’impulso di un leader o di poche figure carismatiche. La sua principale caratteristica fu la diffusa consapevolezza di avere dato vita a un’inedita impresa collettiva. Donne e uomini si associarono volontariamente per un progetto comune di liberazione. L’autogestione non fu più considerata un’utopia. L’autoemancipazione venne ritenuta imprescindibile.
Tra i primi decreti di emergenza emanati per arginare la dilagante povertà ci furono il blocco del pagamento degli affitti e la sospensione della vendita degli oggetti che si trovavano presso il Monte di pietà. Il 19 aprile, la Comune redasse la Dichiarazione al popolo francese, nella quale furono conclamati «la garanzia assoluta della libertà individuale, di coscienza e di lavoro» e «l’intervento permanente dei cittadini nelle vicende comunali». Venne affermato, inoltre, che il conflitto tra Parigi e Versailles «non poteva terminare con illusori compromessi» e che il popolo aveva «il dovere di lottare e vincere!». Ben più significativi dei contenuti di questo testo furono gli atti concreti attraverso i quali i militanti della Comune si batterono per una trasformazione totale del potere politico. Essi avviarono un insieme di riforme che miravano a mutare profondamente non solo le modalità con le quali la politica veniva amministrata, ma la sua stessa natura.
La democrazia diretta della Comune prevedeva la revocabilità degli eletti. I magistrati e le altre cariche pubbliche non sarebbero stati designati arbitrariamente, come in passato, ma nominati a seguito di concorso o di elezioni trasparenti. Occorreva impedire la professionalizzazione della sfera pubblica. Le decisioni politiche non spettavano a gruppi ristretti di funzionari e tecnici, ma dovevano essere prese dal popolo. Eserciti e forze di polizia non sarebbero più state istituzioni separate dal corpo della società. La separazione tra Stato e Chiesa fu reputata una necessità irrinunciabile.
Il cambiamento politico non poteva, però, esaurirsi con l’adozione di queste misure. Doveva intervenire molto più alla radice. Bisognava ridurre drasticamente la burocrazia trasferendo l’esercizio del potere nelle mani del popolo. La sfera sociale doveva prevalere su quella politica e quest’ultima — come aveva già sostenuto Henri de Saint-Simon — non sarebbe più esistita come funzione specializzata, poiché sarebbe stata progressivamente assimilata dalle attività della società civile. Tutto ciò avrebbe consentito la realizzazione del disegno auspicato dai comunardi: una Repubblica costituita dall’unione di libere associazioni veramente democratiche che sarebbero divenute promotrici dell’emancipazione di tutte le sue componenti. Era l’autogoverno dei produttori.
Proprio per queste ragioni, la Comune riteneva che le riforme sociali fossero ancora più rilevanti dei rivolgimenti dell’ordine politico. Esse rappresentavano la sua ragione d’essere, il termometro attraverso il quale misurare la fedeltà ai princìpi per i quali era sorta, l’elemento di maggiore distinzione rispetto alle rivoluzioni che l’avevano preceduta. La Comune ratificò più di un provvedimento dal chiaro connotato di classe. Le scadenze dei debiti vennero procrastinate di tre anni senza il pagamento degli interessi. Gli sfratti per mancato versamento degli affitti vennero sospesi e si dispose che le abitazioni vacanti venissero requisite a favore dei senzatetto. Si organizzarono progetti per limitare la durata della giornata lavorativa e furono stabiliti minimi salariali accettabili. Venne sancita l’interdizione al cumulo di più lavori e fissato un limite massimo agli stipendi dei funzionari che ricoprivano incarichi pubblici. Si fece tutto il possibile per aumentare gli approvvigionamenti alimentari e per diminuire i prezzi. Il lavoro notturno nei panifici fu vietato e vennero create alcune macellerie municipali. Furono attuate diverse misure di assistenza sociale per i soggetti più deboli e venne deliberata la fine alla discriminazione tra figli legittimi e naturali.
Tutti i comunardi ritennero che la funzione dell’educazione fosse un fattore indispensabile per la liberazione degli individui e furono consapevoli che rappresentava la base per ogni serio e duraturo mutamento sociale e politico. Pertanto, si svilupparono molteplici e rilevanti dibattiti intorno alle proposte di riforma del sistema educativo. La scuola sarebbe stata resa obbligatoria e gratuita per tutte e tutti. L’insegnamento di stampo religioso sarebbe stato sostituito da quello laico e le spese di culto non sarebbero più gravate sul bilancio dello Stato.
Nelle apposite commissioni istituite e sugli organi di stampa apparvero numerose prese di posizione che evidenziarono quanto fosse fondamentale la scelta di investire sull’educazione femminile. Per diventare davvero «un servizio pubblico», la scuola doveva offrire uguali opportunità ai «bambini dei due sessi». Infine, doveva vietare «distinzioni di razza, nazionalità, fede o posizione sociale». Agli avanzamenti di carattere teorico, si accompagnarono prime iniziative pratiche e, in più di un arrondissement, migliaia di bambini della classe lavoratrice ricevettero gratuitamente i materiali didattici ed entrarono, per la prima volta, in un edificio scolastico.
La Comune legiferò anche misure di carattere socialista. Si decise che le officine abbandonate dai padroni fuggiti fuori città sarebbero state consegnate ad associazioni cooperative di operai. Inoltre, i teatri vennero collettivizzati e affidati alla gestione di coloro che si erano uniti nella «Federazione degli artisti di Parigi», presieduta dal pittore Gustave Courbet. La Comune fu molto più degli atti approvati dalla sua assemblea legislativa. Ambì persino ad alterare energicamente lo spazio urbano, come dimostra la scelta di distruggere la Colonna Vendôme che celebrava le vittorie di Napoleone I, ritenuta monumento alla barbarie e riprovevole simbolo della guerra.
La Comune visse grazie a una straordinaria partecipazione di massa e a un solido spirito di mutua assistenza. In questo contesto, le donne, pur se ancora private del diritto al voto, svolsero una funzione essenziale per la critica dell’ordine sociale esistente. Trasgredirono le norme della società borghese e affermarono una nuova identità in opposizione ai valori della famiglia patriarcale. Uscirono dalla dimensione privata e si occuparono della sfera pubblica. Costituirono l’«Unione delle donne» ed ebbero un ruolo centrale nell’identificazione di battaglie sociali strategiche. Ottennero la chiusura delle case di tolleranza, conseguirono la parità di salario con gli insegnanti maschi, rivendicarono pari diritti nel matrimonio, promossero la nascita di camere sindacali esclusivamente femminili. Quando, alla metà di maggio, la situazione militare volse al peggio, con le truppe di Versailles giunte alle porte di Parigi, le donne presero le armi e riuscirono anche a formare un loro battaglione. In molte morirono sulle barricate o vennero deportate in Nuova Caledonia dopo processi sommari. Il giovane poeta Arthur Rimbaud descrisse la capitale francese come una «città dolorosa, quasi morta».
Eppure, la Comune di Parigi incarnò contemporaneamente l’idea astratta e il cambiamento concreto. Divenne sinonimo del concetto stesso di rivoluzione, un’esperienza ontologica della classe proletaria. Mutò le coscienze dei lavoratori e la loro percezione collettiva. A distanza di 150 anni, il suo vessillo rosso continua a sventolare e ci ricorda che un’alternativa è sempre possibile.
L’immagine, opera di E. Rosambeau, apparve nel 1871 sulla rivista parigina «Actualités» ed è tratta dalla collezione della Fondazione Feltrinelli di Milano, che celebra la Comune nel suo Calendario civile come esempio del tentativo di fondare un nuovo ordine su principi egualitari oggi messi in discussione. Nel disegno la figura femminile con il berretto frigio rivoluzionario rappresenta la Repubblica, di cui i comunardi si sentivano gli autentici interpreti. E sta per sparare su Adolphe Thiers, capo del governo borghese di Versailles che schiaccerà la Comune. L’autore vuole associare il potere di Versailles alla monarchia: per questo sul palo c’è la corona e sulla testa di Thiers c’è una pera, il frutto divenuto nella satira il simbolo dell’ultimo re francese Luigi Filippo (caduto nel 1848), dopo che il disegnatore Charles Philipon, nel 1831, aveva realizzato una caricatura, intitolata Le pere, nella quale la testa del sovrano diventa appunto una pera.