Gianfranco Ferraro (ITA_10.11.19)
BERLINO. In due immagini, scattate ieri in un vagabondaggio serale per le strade di Berlino, mi è parso di poter cogliere quello che si è consumato in questi trent’anni, passati dalla caduta del Muro, il 9 novembre del 1989, ad oggi. Nella prima, le luci e la grande palla luminosa della Porta di Brandeburgo, in cui hanno risuonato il massimo dell’ufficialità musicale della Germania di ora e di sempre, i Berliner diretti da Daniel Barenboim, seguito dalla più trita musica da discoteca che ha accompagnato birre e bratwurst fino a tarda notte. Nella seconda, a Bornholmer Strasse, poco prima del ponte di ferro sulla Sbahn rinominato “Böserbrücke” (Ponte dei cattivi), un paio di centinaia di persone riunite intorno a qualche canzone e a qualche racconto di quel giorno. Nella prima, i cordoli della polizei, le camionette e le transenne a impedire che la folla occupasse tutta la zona una volta occupata dal Muro e dove proprio la sera di quel 9 novembre Rostropovich aveva sorpreso tutti con un concerto improvvisato, su una sedia improvvisata, in mezzo a un pubblico improvvisato. Nella seconda, i canti dei giovani e dei meno giovani, le luci, qualche fuoco d’artificio – stranamente mancante nella prima –, le corse improvvisate a “ripetere” quel giorno, due vecchietti abbracciati, un vecchio punk che ballava, e un tram che all’improvviso ha attraversato, in senso inverso, piano, quel ponte che la stessa folla, un po’ più giovane, quella notte di trent’anni fa, ha superato per la prima volta, svuotando così di senso la frontiera tra la DDR e la Repubblica Federale.
Importa poco, ovviamente, che a Bornholmer Strasse, io, insieme a qualche altro straniero, possa essermi commosso. Importa solo per il fatto che la biografia di una nazione, quella tedesca di oggi, tra i più giovani Paesi d’Europa con i suoi 29 anni d’età, a volte si confonde, in un singolo evento, con le biografie e i destini personali. Accade raramente, ma accade, che un passaggio storico segni per sempre la storia delle esistenze di alcune generazioni. E se c’è stato un evento di questa natura, in grado di segnare ad un tempo il computo di una fine e il respiro di un nuovo inizio, questo evento si è certamente consumato, quella sera di trent’anni fa, a Bornholmer Strasse, appena dopo che, rispondendo alla semplice domanda di un giornalista italiano dell’Ansa, Riccardo Ehrmann, il portavoce del governo tedesco-orientale, aveva affermato, un po’ indeciso, che le frontiere sarebbero state aperte a tutti i cittadini della DDR “ab sofort”, da subito.
Non è vero che qualcosa crollò quella notte. È vero, al contrario, che qualcosa sorgeva, come in quelle fratture che la storia, come anche ogni biografia personale, riserva: il desiderio a fare della propria esistenza qualcosa di profondamente diverso da quello che era prima, il ritrovarsi insieme ad altri laddove prima era impedito. Ad Alexander Platz, dove appena qualche ora si sono proiettati sui grandi palazzoni sovietici i video delle manifestazioni che avevano attraversato la Karl-Marx Allee, a più riprese ha campeggiato la scritta “Wir sind das Volk”, “noi siamo il popolo”, “we are the people”, che pronunciato in tedesco, confesso, provoca ancora un certo brivido lungo la schiena. Primo slogan inneggiante alla prossima unità, certamente, parola d’ordine al tempo stesso di un populismo anti-casta che anche in Italia trovava, e avrebbe trovato in seguito, rappresentanti giudiziari e politici in grado di abbeverarlo a piene mani.
Un popolo che, come aveva fatto crollare quel castello di carte che ancora si reggeva in Stato, ad Est, avrebbe consumato democraticamente l’unificazione nel nuovo Stato appena un anno dopo. Un’unificazione che è stata di fatto una nuova Anschluss, una vera e propria annessione di uno Stato da parte di un altro, se è vero com’è vero che l’Est è rimasto povero, tanto da votare oggi per ciò che trent’anni fa neanche da lontano avrebbe pensato di poter votare, e cioè un partito nazista come l’Afd.
Berlino è oggi, nelle cartine elettorali, una macchia rosa-rossa circondata, assediata, da una grande marea nera che a Dresda, appena pochi giorni fa, ha fatto vedere, senza troppe remore, centinaia e migliaia di svastiche e bracci tese. È capitale di un Paese in profonda crisi, d’identità prima ancora che economica, così come dimostrano, una dopo l’altra, le crisi industriali, dalla Volkswagen alla Thyssen. Un Paese che si è retto, per trent’anni, tentando di digerire compulsivamente mercati e capitali degli Stati progressivamente entrati nell’ordine europeo, senza tentare di fare, di questa digestione, un’opera di costruzione culturale e politica, una egemonia, in grado di far guardare con partecipazione, e non solo con terrore, o angoscia, al cuore del cuore dell’Europa.
Ma per capire cos’è non è andato in fondo nel progetto europeo che ha attraversato ormai tre generazioni di europei bisogna guardare proprio a quella sera. Alla violenza con cui si è risposto alla speranza riposta in quel muro crollato e alle fiumane di persone che si sono incrociate in quelle piazze e su quei ponti. Bisogna andare indietro a una generazione, quella che oggi, a quarant’anni, si appresta a dirigere fattivamente uno Stato che certo gerontocratico non è: una generazione cresciuta con dei ricordi di un mondo che è stato improvvisamente deciso fosse sbagliato in tutto, e dunque da cancellare insieme alle memorie e alle vite che lo avevano popolato. Dopo quel giorno, a Berlino Est come in tutta la Germania orientale, in centinaia si tolsero la vita, in migliaia persero il posto di lavoro, in tantissimi si videro privare di una solida dignità sociale per ritrovarsi ai margini della società, come accade al protagonista dell’agente della Stasi protagonista de “La vita degli altri”. I supermercati si svuotarono dei cetriolini dello Spreawald e si riempirono di marche e di prodotti dell’Ovest, e solo in quel piccolissimo spazio eterotopico pensato da Wolfgang Becker in una camera d’ospedale di “Goodbye Lenin”, il sogno di una riforma, di una trasformazione del comunismo stalinista in un mondo nuovo e diverso, poté avere cittadinanza nelle parole dell’astronauta Sigmund Jener, tutto ad un tratto, nella finzione, elevato a Presidente della DDR.
Bisogna andare indietro, e bisogna venire qui a Berlino, oggi, per capire perché qualcosa non ha funzionato, in Europa. Perché la Francia ha avuto, ben prima della Germania, ma forse proprio a causa di ataviche paure mai dismesse, paura di un quadro politico europeo. Perché la Comunità Europea, poi Unione sempre più mastodontica, si è rivolta a Est senza mai in fondo capirlo, quell’Est, schiacciato come sempre tra Germania, Russia e Turchia. A Berlino, città che venti anni fa accoglieva senza farsi troppi problemi chi capitava per caso o per curiosità, città scomposta, ribelle, così dissimile da tutto il resto della Germania, e oggi città invece sempre più uniformata, inquadrata, moralista, ossessionata, in una parola: tedesca.
E ancora più indietro, a quando Thomas Mann descriveva quella strana ossessione, moralista-economica, dei tedeschi, al sentirsi circondati da un’aurea di ostilità. Trent’anni dopo Berlino, come la Germania, potremmo dire, sembrano essere rientrati nella storia, mitica, e psicologica, che Mann descriveva. Per fortuna, potremmo dire, il baricentro del mondo si è ormai spostato ben lontano dall’Europa, periferia globale ossessionata da se stessa e dai suoi rimossi: troppo lontano per poter ancora incidere da sola nella storia del mondo, e al tempo stesso già abbastanza periferia per poter tornare a vivere, completamente afona, tragedie che solo un’assurdità ideologica può ritenere di poter sorpassare con una buona dose di individualismo economico.
Così, per parafrasare Max Weber, il mantello dei vecchi protestanti si è trasformato in un mantello di durissimo acciaio. E non diversamente, il respiro utopico di trent’anni fa, si è trasformato in un rimosso feroce che ha spazzato, con la possibilità di un’altra Germania, la possibilità di un’altra Europa.
L’epoca, che in quel muro spezzato e in quel ponte attraversato a Bornholmer Strasse ha avuto il suo vagito, sembra aver avuto anche il suo esito. Dopo, come altre volte è accaduto, è venuto il sistema, che come sempre accade, ma in questo caso forse più di altre volte, l’epoca l’ha sfiorata, senza toccarla. È per questo che ciò che è venuto dopo, ciò che accade oggi, si scopre allora necessariamente figlio di un sistema, senza più epoca.
La breccia, da cui un’altra epoca passerà, appare lontana, lontanissima. Difficile che passi da Berlino, la prossima volta.