[anticipiamo la recensione di Arianna Lodeserto al film “Sole” di Carlo Sironi che sarà pubblicata nel n. 2 di “Thomas Project” in uscita per dicembre 2019]
di Arianna Lodeserto [ITA_5/10/2019]
Tra gli Orizzonti di Venezia 76 è apparsa una sottile linea apparente. Una piccola alba, sorta contro natura sulla costa occidentale. Lena (Sandra Drzymalska) è una giovane polacca giunta nella periferia romana per vendere la bambina che porta in grembo (Sole). Di lei non si sa molto: non da dove viene esattamente, non chi sia il padre biologico, non i suoi precisi pensieri. Sappiamo che è convinta della sua scelta e tale resterà, nonostante gli incidenti del caso. Ermanno è un giovanissimo ragazzo di Nettuno, che vive di espedienti e di slot machine. Che non vive, occhi colmi di tirrenica tristezza e poco ardire. Per metter su qualche soldo acconsente alla richiesta dello zio, che ha organizzato un “affare” internazionale: tenere la gravidanza di Lena sotto stretta sorveglianza, far nascere Sole in Italia e poi adottarla legalmente, fingendo sia figlia biologica del nipote-complice. Quattordicimila euro è il prezzo immaginario per una famiglia da costruire e, per la madre biologica, la possibilità di un futuro d’autonomia, ancora soltanto immaginato.
All’inizio Sole ci appare come (e ancora meglio di) tutte le opere odierne che possano essere ben prodotte, ben finanziate e ben realizzate: la fotografia è impeccabile (Gergely Pohárnok), lo splendore compositivo del 4:3 è come un regalo per i nostri occhi, la musica e il disegno del suono ci seducono fin dall’inizio (Teoniki Rożynek e Michał Fojcik). Perfezioni della tecnica e del mestiere che in altri casi ci lascerebbero scettiche, se non fosse che, per una volta, la sceneggiatura non resta indietro.
La gestazione per altri (GPA), l’impossibilità di adottare e il desiderio di maternità a tutti i costi sono temi di cui è difficile parlare, nell’anno 2019. Ci auto-feriscono, ci mettono sempre in posizione scomoda, ci sottraggono anni di storie e di lotte. Il tema è stato portato al Lido anche da un altro film, il corto Labor di Cecilia Albertini (in concorso tra i Giovani Autori Italiani), ma fuori dalle sale è ancora dannatamente complicato, da donne, discuterne con gli amici, con gli sconosciuti, con i parenti, e soprattutto con gli uomini. Come se il desiderio di trasmissione biologica e di eredità del sangue fosse il più difficile da abbandonare, il più caro all’umano-maschio (ben più che alla donna-allattante).
Nel suo primo lungometraggio Carlo Sironi approccia la questione con gli occhi di un uomo lucido ma appassionato. Cosa vuol dire, precisamente per un uomo, un figlio “non tuo”? L’indagine è tutta lì, confessata con chiarezza nelle Note di regia:
Sin da giovane mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita se fossi diventato padre: cosa significa diventare padre, diventare genitori? Ovviamente non ha a che fare semplicemente con il mettere al mondo una creatura con il proprio corredo genetico, ma piuttosto con un cambio di approccio rispetto alle proprie prospettive, alle proprie aspettative. Cosa si prova a posare lo sguardo su una creatura appena nata di cui ti devi prendere cura, di cui ti senti responsabile? Mi sono chiesto se potrei mai diventare il padre di un bambino non biologicamente mio, un percorso forse meno usuale ma non per questo meno concreto. Sole è il tentativo di rispondere a questa domanda.
I personaggi di questo film incarnano tutto l’al di là e l’al di là di quel (non per tutti) ovvio “ovviamente”, le risposte possibili all’umana vicenda dell’essere/poter essere e voler essere genitori. La più utopica, la più inattesa, è la risposta di Ermanno, interpretato da Claudio Segaluscio, attore ancora inesperto e (volutamente) inconsapevole del suo destino: per meglio coincidere con la trama della sua finzione.
Al termine del suo spaesamento esistenziale e atarassia di provincia, Ermanno incarna una scelta. Non voleva un bambino perché l’età biologica lo imponeva, o la società lasciava dei vuoti nelle pareti piccolo-borghesi. Non cercava neanche una ragazza. Ma capisce presto che il prendersi cura coincide con l’essere padre, e allora perché non potrebbe, perché non dovrebbe lottare per questo, anche abbandonando “l’affare”, la sua famiglia biologica, e i vizi di quartiere. La sorveglianza della madre-ostaggio diventa così lentamente cura, affetto per la sconosciuta ospite e la sua forza sibillina. Non più villeggiatura per gli antichi dei del mare e i nobili romani, è una Nettuno tutta svanita tra madonnine e piazze vuote, tra retrobotteghe dei bar e dimenticato modernismo lo sfondo del loro incontro reale, del loro quasi sfuggire alle strette pareti (eugenetiche, burocratiche ed eterodirette) del vantaggioso business.
Nettuno, che anche d’autunno è bellissima, è stata salvata in questo film dalla terribile moda cinematografica del cosiddetto “nuchismo”, quello che vuole i figli under 30 delle periferie laziali tutti criminali nati, stupratori cocainomani e assassini improvvisati, buoni a nulla e maschilisti violenti e papponi. Anche questo è uno dei grandi meriti del film. Prendere i soldi del Lazio Cinema International e, per una volta, non restituirci un ritratto reazionario di giovani disadattati dalle teste incerte e il cuore inesistente, “pronti a tutto” solo perché nati fuori dal Grande Raccordo Anulare, o di ragazzi senza coraggio, tronfi di romanticismo d’accatto.
Ermanno nel film non ha ancora mai sorriso, ma la sua parabola ci incanta. Non sapeva molto della vita, non chiedeva niente, non osava nulla. Se il giudizio sugli altrui desideri resta fortunatamente sospeso (è giusto volere un figlio a tutti i costi? o vendere non volute parti di sé per andare avanti?), la sua figura è netta e concisa. Nel film, come nella vita, ancora non c’è scampo per l’amore, o per l’adozione senza denaro, ma una pagina di cinema ci ha detto (per un attimo) che si può essere dei buoni padri anche senza il sangue del proprio sangue da sé stessi generato, anche senza l’età opportuna e il mestiere sicuro. Non è un destino facile ad attenderci, ma solo la possibilità di cogliere la possibilità della cura, la volontà del cambiar rotta per il bene di chi è arrivato da lontano. Di chi, anche senza volerlo, ha ormai spalancato l’orizzonte delle nostre vite fragilissime.