La redazione di Thomasproject riprende dalle pagine culturali de “Il Manifesto” di mercoledì 21 novembre 2018 la recensione di Roberto Finelli all’ultimo libro di Marco Gatto.
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SCAFFALE. «Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, di Marco Gatto» per manifestolibri
ROBERTO FINELLI [ITA_21/11/2018]
L’ultimo libro di Marco Gatto, Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura (manifestolibri, pp. 352, euro 24), approfondisce e conferma la maturità e la risolutezza teorica di un giovane autore, che si muove a mezzo tra critica letteraria, estetica, sociologia del moderno e antropologia politica, e che già ha scritto, in tale ambito, opere significative come Frederic Jameson. Neomarxismo, dialettica e politica della letteratura (2008), Glenn Gould. Politica della musica (2014), Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento (2016).
LA TESI DI FONDO che anima la ricerca di Gatto, confermata in questo nuovo libro, è che il congedo dalla soggettività che ha caratterizzato le presunte filosofie dell’emancipazione degli ultimi decenni, come in primo luogo quella dell’anarchismo rizomatico di Gilles Deleuze e di quelle iscrivibili nell’orizzonte di una valorizzazione postmodernista della soggettività liquida e relazionale, anziché essere prospettive di critica e di superamento del capitalismo, ne siano state, al contrario, «fattori di legittimazione sul piano del senso comune e della coscienza intellettuale più diffusa». Non perché Gatto, con la sua sensibilità articolata e sottile, non riconosca positivamente il lavoro critico svolto dal postmodernismo nei confronti delle precedenti valorizzazioni moderne delle filosofie dalla forte e inconcussa identità: tra cui in primo luogo quella del marxismo classico, con la sua celebrazione della classe produttrice, quale soggettività storica a forte base identitaria, capace per definizione di universalità d’interessi e di trasformazione emancipativa.
Ma perché la credenza fondamentale del postmodernismo – che non si diano, ne debbano più darsi, «strutture dialettiche di profondità e differenziazione del reale» (quali differenze ed opposizioni di classe, dualismo tra inconscio e conscio, esteriorizzazione dell’agire e venir meno dell’interiorità rispetto a un mondo, «che, come vogliono i più, dovrebbe coniugarsi in una dimensione solo orizzontale», fatta di scambio e circuiti di comunicazioni, di reti e intelligenze diffuse, di circolazione di denaro, merci ed esseri umani) -rispecchia, senza rendersene conto, la superficializzazione del mondo, che deriva dallo svuotamento della vita umana e della vita naturale a seguito dell’imporsi sempre più esteso del capitale come accumulazione di una ricchezza astratta.
QUANTO PIÙ il capitalismo diventa sistema generalizzato di vita, identico di fondo in ogni luogo quanto a sue leggi e protocolli costitutivi, tanto più ogni contenuto di realtà viene svuotato e assimilato alla logica accumulativa dell’astratto, lasciando apparire solo una veste superficiale di sé, solo un residuo esteriore e frammentato di apparenza, che per compensazione viene sovrastimato e inflazionato di valore e di ridondanza. È quello che l’autore definisce nuovo «impressionismo capitalistico», quale rappresentazione della realtà da parte di una soggettività che non è più abilitata a pensare e a percepire secondo profondità di sguardo e secondo interiorità di emozioni.
Ma che vive, il mondo e sé medesima, secondo la dimensione dell’esteriore, condannandosi a una estetizzazione della propria esistenza che caratterizza sia il suo conoscere che il suo consumare-godere. Di questo processo di svuotamento da parte dell’economia del capitale del mondo concreto e, contemporaneamente, di ridondanza della superficie è effetto passivo e subalterno, secondo Marco Gatto, un’intera generazione di intellettuali, in buona parte di origine marxista, che, rimuovendo ogni precedente familiarità con la tradizione dialettica (imperniata sul rapporto tra essenza profonda dei rapporti sociali e loro apparenza ideologica di nascondimento), si è rivolta alla cultura soprattutto francese contemporanea, caratterizzata, com’è noto, nei suoi tratti fondamentali da una battaglia senza residuo contro la dialettica d’ispirazione tedesca.
LA CULTURA in questo modo è divenuta fondamentalmente un universo di segni e di pratiche comunicative, di destrutturazioni e moltiplicazioni rizomatiche, che non attingono mai un contenuto e una significazione materialistica, ormai scomparsi da ogni possibile orizzonte di senso, ma che rimandano ad altri segni e ad altre connessioni simboliche. In tal modo il linguaggio e il pensiero di molti intellettuali, che sono caduti davanti ad Heidegger come Saul davanti a Cristo, è divenuto un insieme di linguaggi gergali, separati nella loro raffinatezza ed estenuazione estetica da ogni riferimento alla pratica materiale dei corpi e delle menti, e chiusi nel loro riconoscimento circolare e reciproco: quali adepti di un’ermeneutica universale, fatta di invenzioni simboliche, sovente incomprensibili (si pensi a Jacques Lacan), costruite su miti teologici dell’inoperosità (si pensi a Giorgio Agamben), così come di ridisegnazione del reale, non secondo essenza-apparenza, ma secondo il dentro/fuori (si pensi a Roberto Esposito).
Come se insomma, una cultura che rifiuta ogni «prospettiva fatta di totalità e di sistemi di permanenza» – che rifiuta cioè la categoria stessa di soggettività, appunto, sia nel verso di fattori universalizzanti di natura storico-sociali, sia nel verso di strutture invarianti della persona individuale – non sia che l’altra faccia di un’unica medaglia: quella, appunto, dell’ipermodernità del capitale che, attraverso la rivoluzione informatica, ha messo in campo la vera intellettualità, reale e diffusa, secondo Gatto, dei nostri tempi. Ossia quella di una forza-lavoro mentale a cui, nell’esposizione costante all’informazione e ai comandi delle macchine computerizzate, è venuta progressivamente meno la capacità di sentire se stessa, di esperire cioè una propria profondità e individualità di emozioni.
COSÌ attraverso il confronto con una serie molto ampia di intellettualità critiche (Jameson, Harvey, Sartre, Lacan, Fortini), Marco Gatto dimostra in questo testo di saper stringere insieme critica dell’estetica culturale e critica dell’estetica reale, intesa come complesso di modi del comune sentire, e testimonia, nello stesso tempo, tutta la necessità e la drammaticità di prendere sul serio il capitalismo contemporaneo, quale «soggetto capace di neutralizzare e inglobare le contraddizioni e di degradare la vita civile, le relazioni umane, le possibilità di rappresentazione del conflitto».
[L’immagine è un’opera di Ethan Murrow]