FRANCESCO BIAGI [ITA_16/10/2018]
1. La ricezione filosofico-politica dell’eredità intellettuale di Hannah Arendt ha – ancora – qualcosa di “fondamentalmente falso”: dal campo conservatore è stata strumentalizzata come sostanzialmente una filosofa “tifosa” dell’American Way of Life, dato che le sue riflessioni sul totalitarismo confermerebbero delle posizioni organiche alla politica di potenza statunitense, contro il Blocco sovietico; il campo liberale, con sfumature diverse, l’ha relegata a pensatrice dei “diritti umani” e del regime occidentale democratico-rappresentativo; infine, una parte della sinistra radicale accoglie con fastidio il suo contributo filosofico per non aver aderito così chiaramente al recinto del marxismo. Questi tre punti di vista hanno dominato gran parte del dibattito arendtiano, tanto che sono menzionati anche da Miguel Abensour nel momento in cui si accinge a definire Arendt come una pensatrice della “politica radicale” (Cfr. Hannah Arendt contro la filosofia politica?, Jaca Book, Milano, 2010). Per Abensour, infatti, Arendt è un’autrice che pensa la politica “direttamente”, con gli occhi “puri” da ogni filosofia, e tale scoperta è l’anticamera per ridefinire completamente l’intero corpus intellettuale arendtiano.
È dentro questa Arendt renaissance avviata da Abensour, che colloco il libello di Eugenia Lamedica dal titolo “Hannah Arendt e il Sessantotto. Tra politica e violenza” (Jaca Book, Milano, 2018, 124 pp., numeri di pagina fra parentesi nel testo). Lamedica non cita Abensour, ma è la collocazione naturale per comprendere il quadro entro cui la stessa casa editrice Jaca Book, da diversi anni, promuove nuove piste di ricerca sul pensiero arendtiano.
L’ottimo libro di Lamedica ha il merito di scartare gran parte della letteratura secondaria per tornare direttamente ai testi arendtiani, al periodo storico in cui sorgono e al dibattito entro cui si inseriscono al fine di dedurre e ricostruire la relazione che intercorre fra la filosofa ebrea e il Sessantotto. Va ricordato che il “Sessantotto di Arendt” è quello descritto nel romanzo di Philip Roth dal titolo Pastorale americana: l’opposizione al conflitto in Vietnam, il pericolo della bomba atomica, i movimenti sociali dei neri e le università in subbuglio contro i valori “dei padri”. È con questi giovani statunitensi che Arendt discute e – nella libertà di pensiero che la contraddistingue – non farà loro nessun sconto, nonostante il suo volume Sulla Rivoluzione fosse sul comodino di ogni studente ribelle accanto all’Uomo in rivolta di Albert Camus (p. 19).
2. Per Arendt il Sessantotto nasce “dalla crisi della politica” (p. 28), ovvero dall’incapacità dell’architettura istituzionale americana di comprendere il fermento sociale che investe le università, le strade e le piazze. Con una metafora, potremmo dire che la crisi e l’incomprensione dello Svedese (Seymour Levov) nei confronti della figlia ribelle, Merry Levov, immaginate da Roth è l’archetipo entro il quale si inseriscono le riflessioni di Arendt. Oltre lo stigma di “criminali” che il governo indirizzava agli studenti, la filosofa ebrea partecipa alle assemblee, discute politicamente con il movimento e ogni giudizio che pronuncia è dato nello spazio “fra pari” della politica. Nessuna lezione dall’alto della cattedra sarà elargita da Arendt e proprio per questa attitudine i suoi corsi saranno molto frequentati e mai cancellati nelle ore di sciopero. Un atteggiamento, ad esempio, molto diverso dai filosofi francofortesi spesso in aperto scontro con i movimenti studenteschi.
Così Arendt scrive del “miracolo” della politica sessantottesca: “La questione di fondo è? Che cosa è realmente accaduto? Secondo me, per la prima volta dopo tanto tempo è sorto un movimento politico spontaneo che non ha fatto soltanto una semplice azione di propaganda, ma ha agito e, per di più, ha agito sulla spinta quasi esclusivamente di motivazioni morali. Oltre a questo fattore morale, piuttosto raro in quello che è in genere considerato un mero gioco di potere o di interessi, un’altra esperienza nuova per il nostro tempo è entrata nel gioco politico: ci si accorse che agire è divertente. Questa generazione ha scoperto quella che il Diciottesimo secolo aveva chiamato la “felicità pubblica”, il che vuol dire che quando l’uomo partecipa alla vita pubblica apre se stesso a una dimensione di esperienza umana che altrimenti gli rimane preclusa e che in qualche modo rappresenta parte di una “felicità” completa”.[1]
L’agire politico messo in luce da Arendt è un agire di concerto nelle assemblee – i luoghi sovrani della decisione politica collettiva – e negli atti di disobbedienza, negli scioperi e nei cortei: l’agire collettivo è frutto di un’intelligenza comune che si dà direttamente nella partecipazione politica di ognuno. L’agire di concerto è frutto del pensare di concerto. Questa pratica all’autrice ricorda le “repubbliche elementari” di Jefferson e dei padri costituenti americani, i club rivoluzionari del 1789 e la Comune di Parigi del 1871in Francia, i primi Soviet della Rivoluzione Russa (di cui, ad esempio abbiamo una lucida descrizione anche nel Dottor Zivago di Boris Pasternak), il modello consiliare di operai e soldati sviluppatosi nella Germania di Rosa Luxemburg, nell’Italia del biennio rosso, nelle Comuni della Spagna del 1936, nei consigli che deliberavano gli atti di disobbedienza al regime sovietico nel Sessantotto ungherese.
3. L’idea che “agire è divertente” è un file rouge che ricorre anche in Guy Debord, nel movimento situazionista e in Henri Lefebvre: la rivoluzione è concepita come un’autentica “festa” che rovescia l’oppressione e apre nuove possibili vie d’emancipazione socio-politica. Anche il germanista Furio Jesi riflettendo sulla poesia di Rimbaud giunge alle medesime conclusioni in riferimento alla Comune di Parigi del 1871 e al gruppo di Spartakus fondato da Luxemburg e Liebknecht.[2] Nonostante Arendt spesso critichi il marxismo o se ne discosti apertamente, di fatto, ne condivide gli assunti principali con i suoi esegeti più eretici ed eterodossi: il punto di congiunzione rimane la figura di Rosa Luxemburg e l’amicizia con Walter Benjamin. Infatti, la pensatrice tedesca è in sintonia con le tesi più radicali e anti-autoritarie della storia del pensiero politico marxista. In realtà, il marxismo attaccato da Arendt è l’ortodossia marxista-leninista, che – purtuttavia – non ha nulla a che vedere con i “marxismi eretici” sviluppatisi in chiave anti-autoritaria e in aperta critica delle burocrazie sovietiche o maoiste. Dal libro di Lamedica è possibile tracciare un parallelo diretto fra la tradizione democratico-radicale e anti-statalista dei marxismi eterodossi e le esperienze politiche analizzate da Arendt nel Sessantotto americano. Tale pratica dell’agire di concerto è alla base della filosofia politica stessa di Abensour che opera una sintesi fra il pensiero di Arendt e le intuizioni migliori di Marx, Engels e della teoria critica marxiana.
4. Tuttavia, giunti a questo punto è lecito chiedersi: dove Arendt è in aperto dissenso con il movimento? Da un lato, è innegabile che l’aspra analisi della società dei consumi conduca l’autrice a sviluppare una originale “critica della vita quotidiana” nel mondo moderno che ha molti tratti in comune con Debord e Lefebvre e non fa nessuno sconto allo “stile di vita borghese”; dall’altro lato, il vero nodo centrale da sciogliere è il rapporto fra “politica” e “violenza” nel movimento. Arendt non è così superficiale da cadere nel moralismo di una nonviolenza astratta e fuori dal contesto storico. Tale problema è affrontato filosoficamente nella discussione del rapporto fra “mezzi e fini” nell’ambito politico. La politica per Arendt infatti riguarda, com’è noto, “l’agire” e non il “fabbricare”: con questo intendiamo evidenziare come l’autrice sostenga che la giustezza dei fini deve essere già contenuta nella pratica dei mezzi per il raggiungimento di tali fini. L’agire (praxis) salda indissolubilmente il rapporto mezzi-fini, mentre nel fabbricare (poiesis) i due termini sono separati: “La vita è praxis, non poiesis”, dice Aristotele in un celebre passo della Politica. Praxis e poiesis sono le due pratiche di vita proprie degli uomini. La poiesis ha come proprio fine la produzione di un oggetto che, una volta arrivato a esistere, è qualcos’altro di estraneo rispetto all’attività che lo ha prodotto. Un armadio, un vestito, una macchina, quando giungono al termine del processo che li ha realizzati assumono una vita propria, infatti non dipendono più dal falegname, dal sarto o dal metalmeccanico che gli ha dato esistenza. Più radicalmente, l’oggetto esiste solo quando l’azione finalizzata alla sua produzione trova il proprio termine. Finché l’azione produce non c’è ancora “oggetto” e quando l’oggetto è realizzato l’azione viene meno. La praxis, invece, è secondo Arendt quell’azione che trova il proprio fine in sé stessa, che si compie svolgendosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo compimento in un oggetto, ma, appunto, nell’agire medesimo.
L’uso della violenza, per Arendt, molto spesso rientra nel circolo vizioso della poiesis, ovvero di una subalternità fra mezzi e fini. Un certo grado minimo è impossibile da eliminare nelle rivoluzioni e nei grandi sommovimenti sociali (p. 73 e seg.), tuttavia l’autrice nota come l’uso della violenza da parte del movimento sia un uso “disperato” dato dalla frustrazione del fatto che esso prevede la propria incapacità di incidere nella società e di essere ascoltato (p. 88). Il Sessantotto americano si scontra con un’istituzione granitica e il suggerimento di Arendt è quello di dimostrare come tali autorità abbiano tradito le intenzioni antiche dei padri fondatori (p. 118): ella crede fino in fondo in un uso sovversivo degli ideali di democrazia radicale che hanno originato l’unione delle repubbliche degli Stati Uniti, i quali ebbero l’occasione di ricostruire daccapo una nuova società dall’altra parte dell’oceano, lontano dalla “Vecchia Europa”.
Una ulteriore intuizione che vale la pena di menzionare riguarda la profonda difesa delle pratiche di disobbedienza da parte di Arendt: tali azioni di manifesta e collettiva violazione della legge ingiusta, seppur represse, forgiano il movimento e l’opinione pubblica meno coinvolta negli affari politici allargando a macchia d’olio un processo pedagogico di coscientizzazione politica. In nome di tale azione nello spazio pubblico, nella maggior parte dei casi, Arendt sconfessa la violenza in favore di una concezione politica positiva di “costruzione di potere popolare” attraverso gli scioperi, le occupazioni e altre pratiche molto diffuse di disobbedienza.
Infine, la dicotomia “politica/violenza” non va affrontata da un punto di vista moralistico, ma problematizzata verso due nuove piste di ricerca: (1) nella riflessione più profonda (e filosofica) del rapporto fra mezzi e fini, cosa su cui si è interrogato anche Benjamin in Per la critica della violenza (Gewalt); (2) nella capacità di assumere fino in fondo l’aporia in cui è finita la democrazia americana (e, contro Raymond Aron, tutte le democrazie occidentali tout court): ovvero la totale (e totalitaria?) impenetrabilità della sua architettura politica da parte dei movimenti sociali, da parte di chi si associa di concerto per fare politica. Impenetrabilità che porta molto spesso parte degli attori politici ribelli ad assumere pratiche di violenza disperate e di pura reazione alla frustrazione di un mancato riconoscimento. Cosa vi è oggi, cinquant’anni dopo il Sessantotto, di più attuale se non l’incancrenirsi di istituzioni statali impermeabili ai bisogni sociali dei propri cittadini? Cosa vi è oggi di più attuale se non l’intuizione di Arendt di abbandonare le forme di sovranità statale verso inedite forme di comunità politiche democratico-radicali dentro il quadro di un rinnovato repubblicanesimo? Infine, cosa vi è oggi di più attuale se non lo smetterla con l’ossessione leninista del partito, creando al contrario reti di “militanti politici di base” (utilizzando un vocabolario caro a Danilo Montaldi) che disobbediscano – organizzate e di concerto – nella prassi della vita quotidiana ai soprusi delle istituzioni e del neoliberismo?
[1] H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, a cura di P. Flores D’Arcais, SugarCo, Milano, 1985, p. 257.
[2] Henri Lefebvre, La proclamation de la Commune, Gallimard, Paris 1965; G. Debord, A. Kotanyi, R. Vaneigem, Sulla Comune, in Internazionale Situazionista 1958-1969, a cura di M. Lippolis, Nautilus, Torino, 1994, pp. 111-115; G. Debord, Nelle pattumiere della storia!, in Internazionale Situazionista 1958-1969, cit., p. 112; F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino, 2000; Id., Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, in Il tempo della festa, Nottetempo, Roma, 2014; Kristin Ross, The Emergence of Social Space. Rimbaud and the Paris Commune, Verso, London-New York 2008.