di Gianfranco Ferraro
Lisbona, 22.09.2018
Inquilini sfrattati da un giorno all’altro, un mercato immobiliare – tra affitti e prezzo delle case – ormai completamente impazzito, preda della speculazione di fondi immobiliari e di capitali stranieri che hanno trovato nella capitale portoghese la nuova torta da dividersi, un turismo di massa che sta cancellando le vecchie botteghe e i ristorantini di quartiere che hanno fatto per anni di Lisbona e del Portogallo una strana eterotopia tra Europa e Atlantico, per sostituirli con lounge bar, fast food e bed & breakfast che, grazie alle piattaforme online, stanno svuotando la città dei suoi naturali abitanti per fare dei quartieri semplici tendopoli turistiche. È accaduto tutto in poco più di due anni, ma gli abitanti di Lisbona stentano ormai a riconoscere la propria città, consegnata al mercato della gentrificazione che, come un parassita, vende la città per poi svuotarla di quella stessa forma di vita che era stata pubblicizzata. Un tempo minimo, forse neanche sufficiente per metabolizzare quello che accade e per proporre una resistenza: è così che solo oggi diverse associazioni e sigle riescono a organizzare la prima vera manifestazione di piazza per il diritto all’abitare, con uno slogan preciso: “L’abitazione non è un affare. Lottiamo per le nostre case, per le nostre vite”.
Una manifestazione rigorosamente “apartitica”, come viene specificato in un comunicato degli organizzatori, tra cui la storica associazione Habita, particolarmente vicina in questi anni, con sportelli e con picchetti, ai cittadini sfrattati dei centri storici, così come a quelli dei quartieri popolari e delle baraccopoli che circondano la capitale portoghese, e tra le promotrici, l’anno passato, della Caravana pelo direito à habitação di cui ci ha parlato Luca Onesti. Un lungo corteo, dal vecchio quartiere, ora al centro di una spietata gentrificazione, di Intendente, sino a Cais do Sodré, l’affaccio sul fiume nei pressi della Câmara Municipal (il Municipio della città).
Lisbona vive un’agonia simile a quella che ha colpito le grandi capitali e le città d’arte: se a Venezia c’è – vicino ad una delle ultime antiche librerie della città – un orologio che conta impietosamente il numero dei residenti del centro storico, e a Berlino appena dieci anni era ancora possibile scegliere in quale quartiere vivere, per Firenze, Parigi, Praga, Barcellona, dove la sindaca Ada Colau è stata eletta proprio grazie alle sue battaglie per il diritto alla città, e adesso anche per Napoli, il turismo ha assunto i tratti della grande industria pesante del XXI secolo. Un turismo dai caratteri predatori che cancella la vita delle città in molti modi: aumentando esponenzialmente il prezzo delle abitazioni e riempiendo i luoghi pubblici di tutta una borghesia incolta ed estranea ai luoghi, che, per i pochi spiccioli richiesti ormai dalle compagnie low cost, riesce ancora a catapultarsi da un posto all’altro d’Europa al solo scopo di comprarsi, di fatto, il prossimo selfie da mostrare su facebook.
Lisbona entra in questo mercato immobiliare e turistico globalizzato grazie alle misure della Troika che, dieci anni fa, ha di fatto costituito il Portogallo in un suo protettorato, grazie soprattutto all’appoggio incondizionato del precedente governo di centrodestra di Passos Coelho e del presidente della Repubblica Cavaco Silva – e nonostante una storica mobilitazione di massa dei portoghesi – i quali hanno eseguito senza colpo ferire gli ordini di Bruxelles e del FMI, adottando una politica di selvaggia liberalizzazione del mercato immobiliare, e investendo in modo massiccio sulla presenza turistica.
Poco o nulla, in realtà, è cambiato dopo l’avvicendamento governativo che ha portato alla guida del Paese il nuovo leader del Partito Socialista António Costa, sindaco di Lisbona negli anni precedenti, sostenuto da una coalizione che comprende anche, per la prima volta dopo il 1975, la sinistra radicale del Paese: il Partito Comunista guidato dall’anziano segretario Jerónimo de Sousa, e il Bloco de Esquerda, guidato da Catarina Martins, un partito questo che nasce dalla giunzione tra troskisti e tutta una serie di realtà della sinistra che non si riconoscono nel Partito Comunista. Con un capitombolo politico che ha – insieme – salvato la sua segreteria e lo ha portato alla guida del Paese, Costa ha scelto, dopo le elezioni del 2015, di spostare decisamente a sinistra l’asse politico del Portogallo, rompendo con gli schemi di bilancio previsti dai governi precedenti: il risultato è stato una politica di graduale ridistribuzione del reddito, con provvedimenti sulle pensioni e sui concorsi pubblici particolarmente apprezzati dopo gli anni di crisi, e una impennata del Prodotto interno lordo che negli ultimi anni ha fatto dell’economia portoghese la grande scommessa vinta delle politiche di austerity europee oltre che l’unica del bacino meridionale con indici sistematicamente positivi. Una crescita che ha trascinato l’attuale ministro dell’Economia, Mario Centeno, al vertice dell’Eurogruppo e che ha portato indubbi vantaggi elettorali al Partito socialista, ormai vicino al 40%, percentuale che lo renderebbe autonomo per la formazione di un governo, in previsione delle elezioni europee del 2019 e politiche del 2020, come anche in realtà agli alleati, Pcp e Bloco de Esquerda, che hanno visto stabilizzarsi il loro monte voti elettorale intorno al 10% ciascuno.
A questo panorama nazionale, corrisponde a Lisbona un’alleanza elettorale tra Partito socialista e Bloco de Esquerda che ha portato alla sindacatura della città il socialista Fernando Medina, quarantenne rampante e pupillo di Costa. Una sindacatura che però non solo non ha impedito la guerra di tutti contro tutti del mercato immobiliare, ma che al contrario ha proseguito lungo le linee tracciate in precedenza, rinunciando a qualunque politica di gestione e di controllo. È solo di pochi mesi fa lo scandalo che ha coinvolto – e costretto alle dimissioni nonostante una strenua difesa da parte del suo partito – il giovane leader del Bloco Ricardo Robles, vereador (assessore) della città, e al centro di un drammatico conflitto di interessi a causa di un palazzo in pieno centro storico venduto dalla sua famiglia sull’onda della speculazione che colpisce la città. Ed è di poche settimane fa anche la notizia della chiusura al pubblico di uno degli storici luoghi di incontro per generazioni di giovani e meno giovani portoghesi, il miradouro di Santa Catarina, meglio conosciuto come Adamastor, per via della statua che lo domina, e che rappresenta la figura mitica raccontata da Camões nei Lusiadi. La causa? Il fastidio provocato dalla presenza di “popolo basso” e di giovani per i clienti di un lussuoso hotel a cinque stelle di recente costruzione. Una causa nascosta con vari slalom verbali dall’amministrazione cittadina, che si nasconde dietro la necessità generica di “recupero dello spazio pubblico”.
Luoghi pubblici interdetti ai cittadini, palazzi storici comprati dal miglior acquirente, anziani – emblematico il caso del quartiere di Castelo – costretti di fatto a spostarsi nell’estrema periferia della città, senza alcun contatto con il mondo in cui sono vissuti per anni. Certo, le città cambiano, e sono sempre cambiate. Cambiano i progetti e le visioni, come testimonia una recente, bella mostra sui “futuri” di Lisbona, ospitata dal Museo della Città e che raccoglie i diversi progetti che nei secoli successivi al grande terremoto del 1755 hanno cambiato il suo volto. Eppure, non sembra un bel futuro quello che si prospetta oggi per la capitale portoghese: manca una visione, che non sia quella di una industria immobiliare privata e turistica che spinge il Pil e sembra così legittimata a permanere come la principale industria del Paese. Questo, mentre tutto l’interno del Portogallo raccontato da Saramago nel suo Viaggio è praticamente abbandonato al suo destino, con paesini al limite del raggiungibile, abitati da (sempre meno) anziani e dove le forme di vita che hanno prodotto tra i migliori vini e formaggi d’Europa, completamente privi di un sostegno statale necessario per poter competere sul mercato internazionale, si vanno rapidamente estinguendo.
Certo, la Lisbona decadente di qualche anno fa, con edifici in rovina e interi quartieri abitati da anziani, non si poteva dire priva di problemi: la piccola e media borghesia portoghese, per prima, si è andata spostando nei quartieri-bene della periferia, lasciando al suo destino il centro della città. Oggi questo centro appare, come appariva Berlino negli anni scorsi, un cantiere a cielo aperto: palazzi puliti, piazze rinnovate, appartamenti comprati, a volte da stranieri, e subito affittati come b&b a volte rinunciando a quel minimo contatto umano tra inquilino e proprietario che passa per la consegna delle chiavi (l’ospite trova le chiavi dentro una cassetta la cui apertura avviene attraverso un codice consegnato via mail), immobili investiti dai capitali di pensionati francesi, italiani, inglesi e tedeschi, attratti spesso solo dalle misure di detassazione previste dal Memorandum della Troika, e poi sempre, pervasiva, incombente, la folla del turismo mordi e fuggi che evita accuratamente di mischiarsi con l’asprezza della città e che distrugge, giorno dopo giorno, quello che era il fascino della capitale portoghese: la quiete, popolata e multiforme, di una collina quasi dimenticata dallo scorrere secolare del suo fiume, il Tago.
La manifestazione di oggi cerca quindi di mettere un punto fermo: un dito sulla piaga di una città che sta perdendo l’anima, e che sembra ormai completamente impotente di fronte all’ultimo maremoto che l’ha travolta (un recente documentario porta, non a caso, il titolo di “Terramotourism”). Si poteva fare diversamente, forse ancora si può, seppure in parte, qualcosa. Perché almeno Lisbona non si consegni definitivamente al destino di tutte le nostre città turistiche: “un guscio vuoto, un fondale di teatro”, come ha scritto recentemente Marco D’Eramo in “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo” (Feltrinelli, 2017). E sulla stessa linea questo inquietante ospite che invade neppure tanto lentamente la città, simile al Nulla della Storia infinita, è stato diagnosticato da uno degli intellettuali più riconosciuti tra la nuova leva di scrittori portoghesi, Valerio Romão: “Tutto quello che è vivo e libero dev’essere ricondotto alla logica del parco di divertimenti tematico. Sino a che, di intere città, restino solo gli edifici – rinnovati e silenziosi – e una manciata di figuranti pagati per passare come locali”.
È contro questo destino che la manifestazione di oggi, con migliaia di persone in piazza, ha segnato il primo momento di discontinuità, e forse l’inizio di una battaglia tutta portoghese, ma la cui sfida è globale, per il diritto alla città e all’abitare, uno dei diritti più mistificati e disconosciuti dalle politiche economiche di questo primo quarto di secolo.