Maurizio Zanardi [19_07_2018_ITA]
Far risuonare le passioni, lo stile di pensiero, le formule concettuali della sua tenace ricerca filosofica intorno alle cose politiche è, forse, il modo più giusto per ricordare Miguel Abensour a poco più di un anno dalla sua scomparsa. Per quel che è possibile, dare voce nella situazione politica attuale alla sua idea dell’agire politico come pratica collettiva irriducibile al governo, invenzione di una lotta infinita contro ogni forma di dominio. Conviene, allora, tentare di riportare in queste note i tragitti e i risultati concettuali della tensione teorico-politica espressa nelle dense, ma cristalline e appassionate, conversazioni tra Abensour e Michel Enaudeau pubblicate da Jaca Book. Conversazioni particolarmente preziose anche perché, segnalando il ruolo degli avvenimenti e degli incontri nella scelta di Abensour di dedicarsi alla causa della politica e dell’utopia, ci ricordano che si comincia a pensare grazie alla violenza di un incontro, a una destabilizzazione.
Alla domanda sulle circostanze che lo hanno spinto a dedicarsi alla causa del pensiero politico, Miguel Abensour rievoca innanzitutto l’esperienza infantile di uno “sconcerto”: la scoperta, in un mondo contadino per lo più solidale, di una divisione minacciosa. Al piccolo bambino ebreo, nato prima della Seconda guerra mondiale, i genitori indicavano “in quali case non bisognava entrare e con quali persone non bisognava parlare”. Il bambino ebreo scopriva che il mondo quotidiano era attraversato da una divisione incomponibile tra amici e nemici. In anni successivi: la visione con i propri occhi delle “umiliazioni che gli algerini subivano giorno dopo giorno da parte dei colonizzatori francesi” e il tradimento del progetto di emancipazione da parte della sinistra durante la guerra d’Algeria. Ma anche il tradimento dei comunisti nella rivolta ungherese. Ancora: l’esperienza del lavoro di redazione nelle riviste Textures, Libre, Passé-Present, del loro nascere e perire per conflitti insanabili, a causa di conduzioni burocratiche o dissensi teorici. Sono le riviste i luoghi che consentono ad Abensour di scegliere gli amici e di mettere a fuoco le forme di vita intellettuali da cui prendere congedo e le teorie da contrastare, ma anche i temi cui dedicare il proprio studio.
Inoltre, l’assunzione, su invito di Lyotard, per due anni della presidenza del Collège International de Philosophie permetterà ad Abensour la pratica di un’istituzione non statale, percorsa da “tumulti” non distruttivi, non pietrificata come l’istituzione universitaria, in grado di favorire non solo la libertà di ricerca, ma anche, e soprattutto, l’apertura della filosofia ai non-filosofi. E come non considerare un’avventura politica l’invenzione della collana Critique de la politique per l’editore Payot, dove Abensour si impegna a pubblicare finalmente in Francia i testi della Scuola di Francoforte, ma anche a rilanciare il Discorso sulla servitù volontariadi La Boétie? Infine, gli incontri con i filosofi e gli storici: Deleuze, “il grande professore”, relatore della tesi di dottorato; l’amato Pierre Clastres, autore dello “sconvolgente” saggio Copernico e i selvaggi; Maximilien Rubel che rifiutava lo smembrato althusseriano del pensiero di Marx; il Lefort studioso di Machiavelli e teorico del totalitarismo come volontà di distruzione dell’esistenza politica; Lyotard scrittore dei testi sulla guerra d’Algeria, pensatore dell’“intrattabile”.
Avvenimenti e incontri, più o meno cercati, che inducono, nella fedeltà alle tesi di Clastres, la passione per la “politica selvaggia”, per la lotta contro il dominio dell’Uno. Ma la politica selvaggia ha due grandi avversari: la filosofia politica e ogni forma di Leviatano. Si pensi a Hobbes: con l’ipotesi dello stato di natura come “assenza di società”, situazione di caos e guerra generalizzata cui solo l’istituzione dello Stato può mettere fine, Hobbes impedisce di pensare un altro tipo di guerra, quella che la società primitiva, sulla base delle indicazioni di Clastres, conduce preventivamente contro l’avvento del potere separato dello Stato. Dunque, non un “niente di società” ci sarebbe prima dello Stato, ma una società che si dispiega grazie ad una logica guerriera di frammentazione e divisione – con capi dotati di prestigio, in grado di pacificare solo grazie all’uso della parola – che ha il compito politico di preservare il molteplice, prevenendo l’avvento dell’Uno, la “sicurezza” prodotta da una macchina di governo che produce-impone l’unificazione del molteplice.
Sarà su questo punto che Abensour prenderà le distanze da Deleuze e Guattari, quando teorizzeranno ne L’Anti-Edipo (Deleuze e Guattari, 1975) che lo Stato, riferito al modo di produzione asiatico, “fa da orizzonte a tutta la storia”. No, “lo Stato non fa da orizzonte a tutta la Storia”. Lo Stato è una “forma non universale”, ribatte Abensour. Clastres ci aiuta a comprendere la distinzione, fino all’opposizione, tra politica e Stato. È la buona novella: “Per millenni l’umanità ha vissuto in società contro lo Stato”. Da questo punto di vista, il passaggio dalle società contro lo Stato alle società dello Stato, lungi dal rappresentare un progresso o un prodotto della razionalità della Storia, appare come un “tragico accidente”, un avvenimento improvviso che non risponde ad alcuna necessità. Lo Stato non è la forma universale e perfetta della politica, ma una forma “regionale”, particolare, contingente. Lungi dall’essere un fenomeno di evidente razionalità, l’esistenza dello Stato va considerata un vero e proprio enigma, l’effetto di una rinuncia alla libertà.
Per restare fedeli alla politica selvaggia di Clastres dopo l’instaurazione dello Stato, si tratterà allora per Abensour di costruire una macchina concettuale che operi contro Hobbes, contro l’idea che la politica sia l’imposizione di un ordine, fondato sulla ripartizione gerarchica di funzioni e cariche, volto essenzialmente a conservare la vita, a proteggere gli individui. Alla politica come produzione dell’ordine da parte dell’Uno, e produzione dell’Uno da parte dell’ordine, va contrapposto il pensiero e la pratica della politica come “legame”. Sia chiaro, il legame non va pensato come fusione, ma come accettazione della “divisione originaria del sociale”: il legame della guerra contro l’Uno (Clastres), il legame come discordia tra l’umore dei “grandi” e l’umore del “popolo” (Machiavelli), il legame della “vera democrazia” (Marx in Abensour 2008) come “estasi” della società civile contro la forma-Stato, ma anche il legame come l’“intrigo originario” di cui scrive Lévinas, vale a dire l’infinita “esposizione” agli altri, senza arché unificatrice, che precede quel conatus a perseverare nell’essere che legittima ogni forma di Leviatano. Machiavelli, La Boétie, Marx, Lévinas vengono così convocati per montare una macchina concettuale che pensi la politica non come potere sugli uomini, ma potere tra gli uomini e con gli uomini. Una politica che contrapponga la comunità dei tous uns al dominio del tous Un. Una comunità che non abbia, dunque, nulla di organico o fusionale.
Ma perché un tale pensiero si affermi è necessario rovesciare ciò che è stato pensato ben prima di Hobbes; affrontare ciò che, per dirla con Hannah Arendt, è “fondamentalmente sbagliato in tutta la filosofia politica occidentale” perché ha dato inizio a un processo di distruzione dell’esperienza della polis (Abensour 2010). Uno “sbaglio” riconducibile alla nascita platonica della filosofia politica, al primato politico della vita contemplativa sul bios politikos e, passaggio decisivo, alla trasformazione dell’idea in misura, norma dell’azione, così da contrastare l’autonomia all’agire (praxis) e fare della filosofia il principio di produzione (poiesis) dell’ordine. Riprendendo e trasformando la lettura heideggeriana di Platone, Hannah Arendt mostra nel mito della caverna l’origine di ciò che è “fondamentalmente sbagliato”: l’immagine degli uomini nella caverna come esseri privi di libertà e pensiero. Dopo la morte di Socrate, Platone pensa un ordine che protegga il filosofo dalla pluralità, non pensante e incatenata, costitutiva della polis; inaugura il conflitto tra filosofia e pluralità, tra quelli che “sanno senza agire” e quelli che “agiscono senza sapere”. Un conflitto che comporterà la necessità del “governo” di chi sa – dotato di forza, esterno all’azione dei molti – e l’identificazione, foriera di sviluppi disastrosi, della politica con la fabbricazione (poiesis) di un’opera, ossia di un ente stabile.
La macchina concettuale costruita contro-Hobbes e contro-Platone va però arricchita con l’innesto di due nuovi concetti: “democrazia insorgente” e “nuovo spirito utopico”. La presa di posizione a favore del nesso di legame e separazione, vale a dire di una totalità aperta, plurale, “improntata all’interconoscenza” come condizione ed effetto della libertà, non sembra sufficiente a contrastare il rovesciamento della “pluralità aperta” nel suo contrario: l’atto di darsi a un padrone, la produzione di dipendenza e co-appartenenza. La libertà non assicura la fedeltà alla libertà. È la libertà stessa ad aprire la possibilità di una libera scelta per la non libertà. La questione è quanto mai attuale. Con i concetti di “democrazia insorgente” e di “nuovo spirito utopico” Abensour tenta di evitare che la politica si riduca a una serie di effimeri atti di insurrezione contro la macchina governativa.
Il concetto di democrazia insorgente propone il carattere istituente, più che costituente, della politica, così da farle acquistare una “durata creatrice”. Insurrezione e istituzione, da questo punto di vista, non si escludono. L’insurrezione non si oppone all’istituzione ma, come ha mostrato Deleuze, alla legge e alla forma-Stato. L’istituzione può ben essere la piattaforma su cui l’insurrezione poggia per riprendere slancio. Si tratta, allora, di inventare delle istituzioni che, contrastando il governo, producano e tengano viva una specifica virtù: la disposizione all’insurrezione. Non basta il momento dell’insurrezione, è necessario coltivare la potenza insurrezionale. Le sezioni parigine durante la rivoluzione francese, la Comune di Parigi, i Consigli operai non sono forse esempi di istituzione di democrazia insorgente contro le istanze statali e governative?
Democrazia insorgente, dunque, ma perché anche utopia? Perché non si dà politica senza immaginazione, senza la produzione di immagini che sfuggano alla logica del presente e lacerino la trama della storia. Abensour annovera Marx tra i pensatori del nuovo spirito utopico, ritenendo del tutto fuorviante l’opposizione tra comunismo e utopia stabilita da Engels. Marx criticherebbe sì l’utopia, ma per salvarla attraverso un’operazione di transfert, proiettandola cioè verso il futuro e l’alterità. L’utopia marxiana si contrappone alle utopie parziali, che finiscono col riprodurre l’ordine esistente. L’utopia marxiana è un’utopia radicale e, quel che più conta, irriducibile a modelli, ideali, profezie, prescrizioni. Il “nuovo spirito utopico” inaugurato da Marx è immanente al processo di auto-emancipazione degli uomini, coincide con la capacità di desiderare, sognare (Benjamin) e sperimentare immagini di altri mondi. L’utopia: effetto e causa della politica come sperimentazione.
Il nuovo spirito utopico continua per Abensour in Ernst Bloch con la dottrina dell’essere come costitutivamente incompiuto e in tensione verso la propria realizzazione; nella Teoria critica come critica della trasformazione del progetto moderno di emancipazione in mitologia; nella filosofia di Lévinas che, diversamente da Bloch, pensa l’utopia come “evasione” dall’essere, fuga nel fuori-luogo, interruzione dei poteri e delle potenze istituite, sottrazione del pensiero al dominio del sapere. Come non inserire, per dirla con Benjamin, l’elaborazione teorica di Abensour nelle “tecniche del risveglio” dal sonno dogmatico in cui è caduto l’agire contemporaneo?
Riferimenti bibliografici
M. Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, a cura di M. Pezzella, Cronopio, Napoli 2008.
Id., Hannah Arendt contro la filosofia politica?, a cura di M. Pezzella, Jaca Book, Milano 2010.
Id., L’utopia da Thomas More a Walter Benjamin, Inschibboleth, Roma 2015.
Id., La comunità politica. Desiderio di libertà, desiderio di utopia. Conversazioni con Michel Enaudeau, Jaca Book, Milano 2017.
G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975.