Il caleidoscopio del tempo: a partire da Massimiliano Tomba, Attraverso la piccola porta, (Mimesis, Milano-Udine, 2017)

ORSOLA GOISIS [ITA_23_03_2018]

 

“Il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti), mi suggerivano l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio […] in tutte le opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui PenX, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano”[1].

 

La memoria del curioso giardino descritto da Borges in un noto testo del 1941, mi ha accompagnata, come un adagio, nel corso della lettura dei quattro saggi su Benjamin che compongono Attraverso la piccola porta di Massimiliano Tomba.

È, infatti, a partire dal tempo e attorno al tempo, nelle sue pieghe anacronistiche, nei suoi iati e nelle sue aritmie, che si snoda la domanda filosofica dell’autore[2].

È la modernità capitalista ad aver profondamente modificato la natura della temporalità, ad averla assolutizzata nei termini di una linearità cieca e tirannica, lungo la quale tutti i fatti sembrano equivalersi, e non saranno né lo storicismo, né le contromosse automatiche di un mal inteso materialismo storico a ricucire le vestigia dell’individuo, giacente in frantumi, spogliato della possibilità di fare esperienza, annientato nella sua capacità di sintesi.

Ed è dunque, conseguentemente, dall’antropologia che occorre ripartire, provando a ipotizzare che anche la profonda crisi dell’esperienza e la distruzione del “vecchio soggetto”, se visti dal punto di vista del collettivo, possano rivelarsi occasioni di liberazione di una nuova coscienza politica, a patto che si cominci a pensare nei termini di una temporalità altra, come suggerisce Benjamin, a condizione che si ammetta un elemento di trascendenza capace di funzionare da contropeso alla struttura religiosa che il capitalismo va assumendo.

Trascendenza, si è detto, e non “irrazionale”: diverse geometrie, diversi possibili, sono da pensarsi a partire dal reale, dalla “crisi” nelle sue molteplici forme.

Come un caleidoscopio, intrappolando la luce in sconnessi frammenti di vetro, è capace di restituirci sempre nuovi armonici arazzi, così il pensiero filosofico di Walter Benjamin, come riconsegnato nel libro di Tomba, diviene prisma attraverso cui scintillano trascurate facce della nostra modernità.

Non è un caso, io credo, che la bella copertina di Attraverso la piccola porta ci regali diverse prospettive sull’autore, suggerendo dal principio il contenuto dell’opera: come in un caleidoscopio, si dischiudono variopinti petali, inediti disegni, geologiche sovrapposizioni di stoffe colorate.

In cosa risieda l’elemento di trascendenza capace di far saltare il continuum temporale e di frenare il culto senza sosta del capitale è il tema del primo saggio: nel frammento del 1921 “Capitalismo come religione”[3], Benjamin definisce il capitalismo un “culto permanente” (sans trêve et sans merci), colpevolizzante, indebitante. La netta distinzione che Franz Rosenzweig proponeva in La stella della redenzione[4], fra il ticchettio del pendolo e il tocco della campana, ove il primo simboleggiava lo scorrere regolare dell’ordinario, il secondo la sospensione dell’ordine e l’avvento della festa, è venuta pian piano meno, scaraventando l’uomo in una tensione permanente senza vie di salvezza. La rottura dell’ordine e la sua sospensione sono divenuti meri esercizi retorici, artifici tutti volti al mantenimento del regolare assetto del mondo; Benjamin, osservando la grandiosa sfilata dei carri sul Corso di Nizza, annotava: “Il Carnevale è uno stato eccezionale in cui ciò che è infimo diventa supremo e gli schiavi si fanno servire dai loro padroni”[5]; in quel breve scritto, il filosofo berlinese sottolineava già, con rammarico, come il “vero carnevale” e la “vera eccezione”, avessero ceduto il passo al “cirque et à la foire” e lo  straordinario fosse divenuto “pane quotidiano”.

Pensare, con Benjamin, una “temporalità della giustizia”, significa invece, in primo luogo, mettere in discussione il dogma fondamentale della relazione giuridica comune: il rapporto fra “mezzi” e “fini”; guerra santa, guerra umanitaria, guerra per la democrazia: il vessillo della legittimazione sventola con furia, di assoluto in assoluto, trascinando in un gorgo di violenza vittime e carnefici indistintamente.

“Fini giusti giustificano i mezzi; mezzi legittimi realizzano fini giustificati”[6]: un rapporto, quello fra diritto e violenza, che si estrinseca mediante un nesso poliziesco, tanto più dispotico e aggressivo quanto più agisce in nome del popolo tutto, e, dunque, nelle nostre democrazie.

Che si abbia a mente la relazione violenza e diritto naturale, o quella fra violenza e diritto positivo, il risultato non cambia: la giustizia appare come un concetto vuoto, capace di esonerarci definitivamente da ogni compito di riflessione.

Gli esempi in queste pagine si rincorrono: vi sono i riferimenti storici di Benjamin, dalla repressione dell’esperimento spartakista (1919) al soffocamento della sollevazione comunista della Ruhr; ma vi è anche l’attualità palpitante dei provvedimenti d’emergenza emanati dall’attacco alle Twin Towers fino ai giorni nostri. L’attualità torna a bussare nel ricorrere dell’immagine della definizione di confini come manifestazione paradigmatica della violenza mitica; la violazione di un confine è al tempo stesso “violazione di un destino” e reca dunque con sé colpa e punizione. La violenza mitica, unica verità della violenza giuridica e del “soggetto giuridico”, svela allora il suo paradosso: i diritti della persona umana divengono subalterni ed esclusivamente dipendenti da quella forza che, in un sol movimento, li impone e li sospende.

Alla violenza mitica Benjamin oppone la violenza divina: “se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti, quella distrugge senza limiti”. “Di che cosa la violenza divina è il nome?” è infatti il titolo del secondo saggio, in cui la scrittura di Tomba, che ha ormai instaurato con il pensiero del filosofo berlinese un dialogo profondo e per quasi dire “fraterno” su questi temi[7], si muove con agilità fra testi diversi degli anni giovanili.

Al di sopra della nuda vita, quella che la violenza mitica abbruttisce e castiga, vi è, per Benjamin, l’esistenza giusta, la quale, però, può manifestarsi solo nella comunità e non nelle istituzioni terrene se non come distruzione e tramonto. L’esistenza giusta è, in definitiva, quella che s’istituisce come “compito” e non come “fine”, che matura e si manifesta mediante “la parte etica della lotta”, quella che promuove una sospensione che trova in sé il criterio della propria giustizia: non il fine (Ziel), ma la fine (Ende).

Uno scenario utopico quello che sembra delinearsi: immagini di sogno, ricordi d’infanzia s’intrecciano indissolubilmente con la politica, ma, come osservava Adorno, le immagini benjaminiane “non sono né idilliache né contemplative. Su di loro si stende l’ombra del Reich hitleriano. Come in sogno congiungono l’orrore che questo suscita con ciò che è stato. Di fronte alla dissoluzione del suo passato biografico, l’intellettuale borghese, con terrore, panico, prende consapevolezza di sé come parvenza”[8].

Eppure non tutto è perduto: alla crisi profonda dell’individuo borghese corrisponde la possibilità di un risveglio e di una riattivazione della lotta di classe che elegge la trasformazione dell’arte a suo campo di battaglia: L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica,[9] testo dal quale prende le mosse il terzo saggio, si apre con il nome di Marx e si conclude con il compito del Comunismo: com’è noto, la “politicizzazione dell’arte”. Fra Marx e la politicizzazione dell’arte è contenuto il dovere urgente e imprescindibile della “ridiscussione dei rapporti di proprietà”. Non sarà, insomma, la fasulla e sintetica ribellione dell’arte contemporanea a indicare la via per un cambiamento reale; questa infatti rimane, nella disobbedienza, fedele ai suoi comodi salotti.

Sarà solo un’arte abbastanza coraggiosa da spezzare la logica propria del mondo delle merci, ad inaugurare il veramente nuovo. È una sfida che non può essere rimandata: una partita da giocare proprio quando la materia, nella sua drammatica trasparenza, cessa di essere un ostacolo, lasciando intravedere attraverso lastre translucide altre porte: allora l’uomo, come un “disegno trigonometrico, esposto da tutti i lati al vento”, artista e fruitore al tempo stesso, dovrà rivelarsi capace di estrarre dal momento critico il potenziale politico nascosto. Scheerbart questa trasformazione del mondo l’aveva immaginata nel dettaglio maniacale della sua più nota fantasmagoria, e riteneva che alla trasparenza e quindi a un’arte spogliata dell’aura, sarebbe corrisposto un uso più massiccio del ferro, e, di conseguenza, lo sviluppo grandioso dell’industria pesante[10]. Figuratamente, si può dire che anche l’arte, ormai irrimediabilmente organica alla nuova “civiltà del vetro”, è chiamata alla guerra: con il coraggio che accompagna ogni distruzione, essa dovrà farsi ricettrice di quel “segnalatore d’incendio”[11], dopo il quale ogni speranza sarà perduta.

Infine, il quarto saggio, a cui il volume deve il suo titolo, è di preziosa eleganza: lo è perché riesce a indicare un criterio per la lettura delle Tesi sul concetto di storia, senza scivolare nel manierismo (e d’altra parte, è proprio il pensiero benjaminiano ad essere ostile alla pretesa di un ordine espositivo); lo è perché la struttura arditissima, ci costringe a scovare botole, a lasciarci precipitare lungo passaggi segreti, a forzare serrature.

In questa “nuova storia” che si offre al lettore, non vi sono “stanze d’attesa”, ma soltanto stanze del passato che attendono di essere riscoperte; gli innumerevoli tentativi degli oppressi, spezzati dalle classi dominanti, stanno l’uno accanto all’altro, come tante porte dimenticate, in attesa di essere riaperte.

Esattamente in questo consiste l’azione rivoluzionaria: non tanto nella creazione del “regno di Dio in terra”, in quanto “solo il Messia compie ogni accadere storico, precisamente nel senso che egli soltanto redime”, ma in una “distruzione etica”, nello sforzo e nel compito volto a pensare una temporalità altra, oltre l’indifferenza per i fatti che regna nel “bordello dello storicismo”.

“L’angelus”, “le porte”, “la felicità”, “il pericolo”: queste le quattro figure individuate da Tomba che, messe in relazione, compongono una costellazione fioca, a prima vista forse bizzarra e disorganica: tuttavia, è “ su questo minimo bagliore (che) riposa ogni speranza”[12]. Un minimo bagliore, una debole forza messianica, tutto quello che l’umanità possiede per riconoscere il momento, l’attimo carico di possibilità, capace di connettere presente, passato e futuro.

Ecco allora che la suggestione borgesiana che ho proposto all’inizio torna a farmi visita: “lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Non a tutti. Nella molteplicità brulicante dei possibili, sebbene non sia dato conoscere il fine, una scelta irrevocabile s’impone. Anche se decidiamo di considerare, come fa Benjamin, la rivoluzione non tanto come locomotiva della storia (Marx), quanto come “freno d’emergenza” della storia, alla sospensione del “tempo omogeneo e vuoto” non si può giungere se non mediante un caparbio lavorìo di trasformazione di sé e delle condizioni esteriori, mediante la forza distruttiva e redentiva dell’anticipazione. “Ai diversi futuri, non a tutti”: la parte della lotta non è affatto indifferente. Non lo sarà nemmeno la situazione in cui la possibilità ci coglierà: “intervento, rischio, rapidità del politico sono, infatti, una questione di tecnica, non di cavalleria”.[13]

 

NOTE:

[1] J. L. Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, da Finzioni; Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, pp. 696- 702. 

[2] La stessa che muove altri lavori di Tomba, cfr. Strati di Tempo. Karl Marx materialista storico. Jaca Book, Milano 2011.

[3] Cfr. D. Gentili, M. Ponzi, E. Stimilli (a cura di) Il culto del capitale, Quodlibet, Roma 2014.

[4] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e pensiero, Milano 2005.

[5] W. Benjamin, Dialogo sul corso, Echi del carnevale di Nizza, in Scritti completi 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, p.247.

[6] M. Tomba, Attraverso la piccola porta, Mimesis, Milano 2017, p.37.

[7] Si ricorda infatti che Tomba ha curato anche la traduzione di Per la critica della violenza per Edizioni Alegre, Roma 2010.

[8] Th. W. Adorno, prefazione a W. Benjamin, Berliner Kindheit um neunzehnhundert, tr. it. di E. Ganni, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2007, pp.117-118.

[9] Cfr. M. Montanelli e M. Palma, (a cura di) Tecniche di esposizione. W. Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte, Quodlibet, Roma 2016.

[10] P. Scheerbart, Architettura di vetro, Adelphi, Milano 1987, pp. 41, 140.

[11] L’espressione si trova in W. Benjamin, EinbahnstraΒe, trad. it. di B. Cetti Marinoni, Strada a senso unico, Einaudi, Torino 2006, pp.43-44.

[12] Le affinità elettive di Goethe 1922, in W. Benjamin, Opere complete I, Einaudi, Torino 2008, p. 588.

[13] W. Benjamin, Strada a senso unico, op. cit., p.44.