Gianfranco Ferraro [ITA_18.02.18]
Ho votato. Circoscrizione esteri, come l’ultima volta. C’è qualcosa di inspiegabilmente triste, nel votare all’estero. Sempre, credo. Per cosa voti? Per te, per quello che sei adesso, per gli altri, gli italiani? Per il tuo futuro, il tuo passato, quello dei tuoi figli, dei figli che neanche immagini, che forse parleranno un’altra lingua, o per i figli degli altri? O per nessuno? Per vendetta, nostalgia, risentimento, speranza, cinismo, gioco? Lo pensavo, mentre votavo, mentre scartavo la busta dell’Ambasciata italiana a Lisbona, mentre leggevo le istruzioni del “voto all’estero per corrispondenza”, con tutte le figurine annesse, mentre aprivo le schede elettorali, che sono costate una guerra di Resistenza e migliaia di morti. Me lo ricordo quando, da piccolo, accompagnavo i miei a votare nella scuola dietro casa. Era una scuola elementare. La domenica, mattina, di solito. Andavo con loro. Mi piaceva guardare i cartelloni colorati dagli altri bambini nei corridoi, durante la settimana. Sentivo la loro presenza, anche se non c’erano. Mi piaceva che i miei si fermassero a parlare con i vicini di casa sulla porta del seggio, mi piaceva guardare i simboli e le centinaia di nomi. Mi piaceva quel borbottio continuo delle conversazioni a mezza bocca, mi piacevano le lamentele, e i sorrisi, e i volti aperti, nella Sicilia degli anni ’80, nell’Italia del ‘900, e comunque mi piaceva il fatto di essere là, in una domenica mattina di sole, con i miei genitori, a sentire parlare delle cose che accadevano. Mi piaceva sentire che delle cose accadevano, e come, nel piccolo o nel grande, quell’essere lì, a quell’ora, faceva parte dell’accadere delle cose, che era giusto esserci, perché solo così delle cose potevano accadere e delle altre no. Mi piaceva che delle cose accadessero, che la linea d’orizzonte fosse spezzata, o si potesse spezzare. Non era neanche una intuizione, ma era questo in fondo, il piacere che qualcosa potesse ancora accadere. Mi piaceva che i miei votassero, e che dopo aver votato si andasse a casa a friggere le melanzane o al Baby Park a giocare sulle giostre. Mi piaceva perché era un rito, e io, che sono nato nel 1981, e che forse non potrò mai rinunciare a vivere, nella politica, nell’amicizia e nell’amore, dentro dei riti, per piccoli che siano, vedevo in questo rito un rito della vita che mi circondava, del mio quartiere, delle persone che mi vivevano intorno. Per questo è strano, e triste, votare dall’estero, e per questo, anche per questo, sarò sempre contro il voto dall’estero: perché voti solo. Apri la busta sul tuo tavolo e guardi i simboli, uno sotto l’altro. E la richiudi. Ho scelto di votare lo stesso, visto che ho la possibilità di farlo, contro me stesso, questa volta. Non per partecipare alla “vita collettiva del mio Paese” o per “esercitare un diritto garantito dalla Costituzione”, ma perché quella vita collettiva e quella Costituzione sono state svuotate. Svuotate in maniera criminale da trent’anni di devastazione delle coscienze e delle esistenze, massacrate dal cinismo, dall’approssimazione e dalla dabbenaggine di un ceto politico inqualificabile che ha giocato a escludere parti sempre più grandi della società. Ho votato perché ho una storia, neanche più tanto breve, ormai, e perché il disgusto è più profondo del non voto. Per questo ho votato, ho chiesto di poter votare, e per questo, anche, ho riposto le schede sul tavolo e ho aspettato di non essere solo. Perché potessi votare, come mai si potrebbe fare altrimenti, sotto gli occhi di chi mi ama. Solo allora mi sono seduto, e ho tentato di spiegare, nella lingua che ora è la mia e che amo perché mi fa sentire libero, che cosa si nasconde, quale immondo marciume si nasconda dietro ognuno di quei simboli, e quei nomi. E mentre inanellavo i miei “perché no” e tentavo di spiegare, simbolo dopo simbolo, il perché del mio disgusto, del mio “nojo”, in portoghese, mi assaliva un sentimento di vergogna, di vergogna drammatica, silenziosa, cupa, come quella di Vittorini, amore, mentre ti raccontavo di quella triade infame in alto a sinistra, di quel branco di arrivisti incapaci a cinque stelle, e tentavo di scacciare i volti, da me, da te, persino dallo stesso mio Paese perduto laggiù nel buio, a Oriente, i volti e la miseria, l’infamia del mio Paese corroso dalla violenza e dai parassiti, del mio Paese e della mia generazione senza coraggio, del mio Paese preda della borghesia più ignorante d’Europa, questo mi assaliva, lentamente, come una fine, come mai tu hai provato, come mai ha provato un uomo e una donna nel ‘900, mentre ti dicevo cosa non vuol dire quel ramoscello d’ulivo, mentre ti snocciolavo nomi, dietro nomi, e mentre tentavo di controllare la rabbia, a ricordarmi di quella nottata in una sezione di Rifondazione Comunista – e non mi sorridere, lo so che per te il comunismo o c’è o non c’è, si chiamava così, ed era ancora peggio, ed è l’unica cosa io abbia votato… – quella nottata d’inverno pisano ad aspettare di fermare dei treni pieni di carrarmati, mentre dei giovani imbecilli giocavano a se stessi, come sempre avrebbero continuato a fare… e confesso che mi sono fermato, per un momento appena, sul solo simbolo della Bonino, dei radicali – no, non c’è scritto radicali, ma è una lunga storia, davvero – mi sono fermato perché la riconosco, e perché quanto sarebbe bello avercela una Bonino libertaria e non liberista, una persona seria, un’avversaria come quella che sempre vorrei avere nella vita, perché la cosa che sempre mi auguro è di avere avversari seri, veri, migliori di me, e chissà che non venga da questo, la mia vergogna di fronte ai tuoi occhi, quello di vedere un Paese incapace di dare vita ad avversari all’altezza, invece che a gente che non il vento della storia, ma lo sbadiglio di un cane, per non dire di peggio, disperderà domani stesso, credendosi ancora qualcosa. “Il meno peggio”, no. È anni che votiamo per il meno peggio, o per testimonianza, e non dico che, nell’urna di una scuola italiana, forse non avrei fatto diversamente. Noi abbiamo perso, ma io non gliela dò vinta… lo so, non ha senso, ma cosa c’è in comune tra me e loro, come parlano alla mia vita… Per questo voto, quando potrei non farlo, perché non se lo meritano di non conteggiarmi, come sarebbe giusto. Perché non meritano neanche questo frego di penna, nulla, neanche queste parole, che sono scritte per te, e para quem ainda sabe ler, para os comunistas, para os democráticos, para a democracia, perché la democrazia è fatta di parole, di riti, di atti, anche mancati, di biografia e di storia, e anche di questo sigillare questa busta, perché accadano cose, ancora. Ho votato, solo per questo, perché non mi diano per morto.