RECENSIONE a Enrico Camanni, Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Editori Laterza, Bari, 2016
CHIARA STENGHEL [ITA_26_01_2018] [pdf]
Da qualche tempo, dopo le fatiche delle mie ricerche, cercavo un testo che mi appassionasse, uno di quelli che, pur splendendo il sole e senza l’obbligo di scadenze immediate, mi tenesse incollata alla sedia per almeno una giornata intera. La raccolta di storie di Enrico Camanni è riuscita nell’impresa raccontando, da Guglielmo Tell al movimento No Tav, la tenacia e l’animo ribelle di chi, per nascita o per acquisizione, si definisce montanaro.
Il testo si apre con una riflessione sulle Alpi che problematizza il tradizionale binomio città-montagna, messo in crisi da una colonizzazione sempre più aggressiva dell’urbano dei territori montani: sci, cemento, parcheggi, condomini caratterizzano oggi tanto lo scenario cittadino che quello alpino trasformandolo in «un impasto di innovazione e tradizione, globale e locale, modernismo e nostalgia» (p. 7). La complessità geografica assunta dal capitalismo, infatti, livella brutalmente le differenze tra i due scenari in direzione della costruzione di quello che assai acutamente qualcuno ha chiamato un “uomo senza qualità”, generalizzandolo su larga scala. Ciononostante, per quanto internet e cemento abbiano eliminato l’isolamento delle valli e in parte sgravato i turisti dello sforzo fisico e spirituale del moto – le Tre Cime di Lavaredo, se potessero, ne avrebbero da raccontare –, «la montagna resta in salita» (p. 8). Ne sanno qualcosa le centinaia di migranti che, privi di qualsiasi equipaggiamento e impreparati alle rigidità climatiche dell’arco alpino, dal Piemonte tentano quotidianamente di raggiungere la Francia. Da questa prospettiva, le storie narrate da Camanni hanno il merito più che attuale di tentare di risvegliare una montagna «rifugio di banditi e ribelli, roccaforte di eresie e di battaglie, baluardo della resistenza a un mondo ogni giorno più ingiusto e insopportabile» (p. 9). La presunta chiusura e indifferenza delle alture sia alla politica che al diverso infatti viene messa sotto scacco da una molteplicità di vicende che, da Fra Dolcino cantore di un Dio povero contro la corruzione del potere ecclesiale alla lotta No Tav, indica luoghi e persone impegnati a rivendicare uno stile di vita alternativo a quello proposto dai centri di potere – quasi sempre cittadini – e dalle leggi asettiche di un capitale indifferente alle specificità dei diversi territori.
Sui crinali delle “nostre” montagne inoltre, troppo spesso lo si dimentica, si è combattuto il nazifascismo: Attilio Tissi, ci ricorda l’autore aprendo lo sguardo sulle Dolomiti Bellunesi, è stato uno dei pochi che «negli anni della propaganda e delle lusinghe di regime aveva guardato oltre se stesso, il fascismo e l’ideale astratto di scalata» (p.107). Ma di certo non l’unico: la sua storia è preceduta da quella di Tita Piaz e da quella di un’impavida Mery Varale che nel 1935 sfida lo zelo antifemminista del Club Alpino Italiano. Che dire poi di Giovanna Zangrandi, staffettista partigiana per la quale, andare in montagna, pur godendo della bellezza delle cime, diventa «camminare e sciare per la difesa della libertà. È sempre un andare come prima, ma è anche un andare diverso» (p. 113). O, ancora, con uno slittamento temporale di circa trent’anni, la vicenda personale dell’alpinista Guido Rossa, non solo per le comprovate capacità arrampicatorie, ma soprattutto per l’impegno sindacale. Anarchico e volutamente provocatore in montagna, egli si avvicina alle tesi di Berlinguer con la medesima attenzione per il prossimo che lontano dalle commissioni del CAI riservava ai propri secondi di cordata.
Non manca nel testo l’inevitabile voce ambientalista: dalle vicissitudini degli abitanti di Cervières i quali negli anni Settanta si oppongono alla creazione degli impianti sciistici a favore di un turismo “dolce” in armonia con l’ambiente e la popolazione locale, fino alle mobilitazioni di Mountain Wilderness contro la mercificazione della montagna che al “tutto e subito” del capitalismo oppone, per dirla con Alexander Langer, uno stile di vita “lentius, profodius, savius”, più lento, più profondo, più dolce. Da questo punto di vista, forse la vicenda più esemplare delle conseguenze dello sviluppo senza limiti del capitale è ancora una volta quella del Vajont, descritta dalla penna di Tina Merlin come una catastrofe “costruita”, una sorta di macchina inarrestabile che «va avanti come se non avesse un guidatore, o nessuno fosse più in grado di tirare il freno» (p. 156).
La sezione conclusiva del volume si concentra sull’esperienza No Tav come esempio negativo di un’iniziativa concertata senza il consenso locale e come esempio positivo di una ribellione che rivendica il diritto a una progettualità politica nuova e dall’anelito universale. Nella lotta in Val di Susa sbiadiscono infatti i confini tra montanari e cittadini sul comune rifiuto di un modello di consumo usa e getta, baluardo di una società basata sulla frenesia, sullo sfruttamento (di persone e territori) e sullo spreco. «Forse il rallentamento potrebbe essere una virtù civica» (p. 207), azzardano all’unisono Marco Revelli e Giuseppe Sergi.
Se da una parte il testo non procede a un’accurata valutazione dei rapporti di dipendenza reciproca che da sempre intercorrono tra l’urbano e il rurale, dall’altra esso ha il merito di inaugurare una riflessione che, lungi dal relegare i paesaggi alpini a mere riserve della città, problematizza la tradizionale dicotomia centro-periferia mostrando come dai “margini” siano sorti e continuino a sorgere laboratori di sperimentazione di forme di vita alternative alle imposizioni del capitale. La questione urgente della necessità di ripensare un modello di sviluppo indifferente alla natura non è posta dall’autore nei termini sterili della nostalgia passatista, ma in un’ottica progettuale interamente rivolta al futuro. Da questa prospettiva, il testo è un invito all’impegno sociale su più fronti con la stessa forza e caparbietà necessarie ad affrontare una scalata. Perché, insegna Camanni, «se non ci parlano di cose alte, se non ci esortano una volta ancora ad alzare la mente per guardare oltre, (…) le Alpi non esistono» (p. 226).
Chiara Stenghel