CHIARA STENGHEL
[26.07.2017_ITA]
Qualche giorno fa, mentre a fine giornata riponevo nello scaffale tomi decisamente meno snelli di Henri Lefebvre, l’occhio è scivolato sulla traduzione italiana, a cura di Cristiano Casalini e di appena cinque anni fa, del testo “Hitler au pouvoir. Les enseignements de cinq années de fascisme en Allemagne”, in italiano Hitler al potere. Cinque anni di nazismo in Germania (Edizioni Medusa, Milano, 2012). Poiché le dimensioni lo consentivano, l’ho riletto velocemente annottando le poche righe che vi propongo in questa breve recensione. Almeno due ragioni mi spingono a scriverne: il silenzio generalizzato attorno alle opere di Lefebvre degli anni Trenta e la tendenza dell’ultimo periodo, seppur sulla scia di un rinnovato interesse rispetto alla sua produzione intellettuale, a privilegiare la riflessione sullo spazio. Queste suggestioni, quindi, vogliono essere un modesto contributo volto a rendere noto al pubblico italiano un’analisi rimasta nell’ombra, offuscata da quel ricorrente “Lefebvre, geografo marxista” che provoca una leggera orticaria a tutti coloro che, come me, passano intere giornate sulle sue opere più filosofiche (e sociologiche, per gli amanti delle ripartizioni disciplinari nette).
Hitler au pauvoir, come mette giustamente in luce Cristiano Casalini nella bella introduzione al volume, rappresenta l’ultimo tassello di una triade sul tema dell’ideologia e della mistificazione scritta a quattro mani con l’amico Norbert Guterman: La conscience mystifiée e Le nationalisme contre les nations che costituisce una delle analisi più lucide del fascismo tedesco in ascesa. La coppia autoriale Lefevbre-Guterman, infatti, lontana dall’assecondare le letture che vedevano nella crisi economica la ragione del successo hitleriano – una proposta ideologicamente radicata nel rifiuto della sinistra europea di accettare la deriva “à droit” del proletariato tedesco –, mette in campo un strumentario concettuale filtrato dalla lente interpretativa del giovane Marx che approda a uno studio dialettico delle forme di manipolazione della coscienza alla base del successo fascista. Presentandosi sotto le mentite spoglie del socialismo, quest’ultimo rivelerebbe una capacità attrattiva inedita che attraversa tutte le classi sociali. Uno schiaffo all’ortodossia sovietica: la classe operaia non è immune alle rappresentazioni rovesciate della realtà. Le nationalisme contre les nations, se possibile, rincara la dose, mostrando come la coscienza di classe, per mezzo del potere carismatico del leader, abbia rinunciato alle proprie radici lavorative a favore di un’identificazione razziale sapientemente sostenuta dalla narrazione mitologica del Blut und Boden. Pertanto, la ricostruzione storica degli avvenimenti che si susseguono negli anni Trenta risponde a finalità di più ampio raggio legate a un’operazione di prevenzione della diffusione del fascismo in Francia e in Europa. La carne al fuoco è tanta: la crescente strutturazione sistematica dell’hitlerismo e la sua proverbiale «incoerenza dottrinale» (p.40) che lo porta da una parte a legarsi agli ambienti capitalisti ansiosi di assicurarsi il controllo dello Stato, spezzando i contratti collettivi e i sindacati; e dall’altra ad assecondare una vera e propria vocazione anticapitalista con un programma (continuamente rinnegato e riaffermato) di nazionalizzazione dei trust, di partecipazione degli operai agli utili e di cessione dei magazzini ai piccoli commercianti. Paradossalmente, «il partito nazista appare così a un certo numero di elettori come il solo partito capace di realizzare il socialismo e ad altri come il solo partito in grado di impedirlo!» (p.41), scrive Lefebvre. Non mancano inoltre note tratte dalla lettura del Mein Kampf sulla politica estera tedesca, diretta in primo luogo contro la Francia e sostenuta da un nazionalismo conquistatore addomesticato dal capitale finanziario, a parere dell’autore, l’unico vero beneficiario dell’ascesa di Hitler. Particolarmente lucide, risultano le annotazioni finali rispetto al presunto miglioramento delle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione tedesca. Dati alla mano, Lefebvre registra un danneggiamento generale che investe trasversalmente proletariato, contadini, artigiani, classi medie, giovani e donne.
Il testo si conclude con un appello ai francesi a porsi alla testa di un movimento democratico mondiale capace di fermare il fascismo dilagante: «Tale deve essere la “missione della Francia nel mondo” e la volontà di tutti i democratici veramente coerenti davanti alla Germania attuale» (p. 90).
Che si condivida o meno la problematica proposta conclusiva, Hitler au pouvoir, a mio parere, ha il merito di proporre un’analisi globale degli avvenimenti in corso senza cedere al grido seduttivo dell’economia e dell’ideologia, ponendo sul tavolo l’annosa questione della mancata organizzazione a sinistra delle classi subalterne, trascurate troppo spesso sia in termini analitici che concreti. Come scrive Lefebvre infatti «la vittoria del fascismo non era inevitabile in Germania. Solo lo smarrimento del popolo tedesco l’ha reso possibile: lo smarrimento delle classi medie, senza guide politiche e spirituali che esprimessero i loro veri interessi – quello della classe operaia, indebolita dalle divisioni – quello dei contadini, delusa dalla politica agraria dei governi democratici» (p.35). Questo, nel 1938. Al lettore la scelta di trarne una lezione costruttiva.