[Gianfranco Ferraro, ITA, 2.10.16]
Abito da due settimane col mio amico al nono piano di un grattacielo a due passi dall’Avenida Paulista, nel cuore del quartiere residenziale di São Paulo, capitale economica e culturale del Brasile. La più grande megalopoli dell’Emisfero Australe. E quindi, dicono, di tutta l’America latina.
San Paolo si estende per 74 chilometri di lunghezza, con venti milioni di abitanti. Fino a metà ‘800 ne faceva appena 250 mila. Era stata fondata da un gruppo di padri gesuiti guidati da un certo José de Anchieta appena tre secoli prima, lungo un tracciato che portava all’interno. Un monumento ricorda ancora quell’evento, perduto tra le foreste e il cielo di quattro secoli e mezzo fa. Un monumento e un pezzo di femore del suddetto Anchieta, oggi venerato come santo dai cattolici, conservato dentro una piccola cappella. Da quel punto, e da quel pezzo d’osso di quattro secoli e mezzo fa, tutte le più piccole strade come le più immani avenidas di San Paolo traggono la loro numerazione. Mentre risalgo sulla Paulista, ho ancora gli occhi fermi a quel femore.
Sono arrivato in un momento strano. I convegni a cui ho partecipato, dentro belle aule universitarie, si sono aperti con degli appelli alla democrazia da parte degli organizzatori. Addirittura uno si è concluso con una (bella) comunicazione su cosa significa politica e mercato. E sul perché è giusto gridare al golpe, oggi, in Brasile. Lo scorso mese, la presidente regolarmente eletta, Dilma Rousseff, è stata destituita da una maggioranza parlamentare che ha riportato indietro l’orologio della storia. Del Brasile come del Sudamerica. E cioè a quando, quasi venti anni fa, Ignacio Lula da Silva, ex metalmeccanico e sindacalista, capo della sinistra socialista brasiliana, venne eletto presidente di un Paese di 290 milioni di abitanti. Forse, ancora più indietro. Perché golpe, qui, non ha un significato astratto: ma riporta alla memoria i primi anni ’60, quando i carri armati scesero in piazza e istituirono un regime che tra assassini, bombe e desaparecidos, impose una stretta osservanza ultracapitalistica. Golpe, quindi: democrazia contro mercato. Oggi, carri armati in piazza non ne vedi. Senti però il sapore di una ingiustizia, e di una colossale sconfessione di una storia che per venti anni ha attraversato l’America Latina, regalando delle speranze concrete a chi è sempre vissuto ai margini, e cioè milioni di persone. Per capire di cosa si tratta, l’Europa deve andare indietro di un secolo e mezzo. Alla Londra di Dickens, di Marx, o alla Parigi di Balzac, in cui milioni di persone si affollavano ai margini della città, senza nulla, neanche il controllo su se stesse, senza neanche un diritto consacrato. L’astratta libertà del cittadino-proletario che altro non aveva se non la propria forza-lavoro, la possibilità di vendersi sul mercato alle condizioni decise da chi poteva offrire un piatto di lenticchie buono ad arrivare a fine giornata. Questo e niente più. Per l’America latina questo non è un ricordo, un ricordo che ora torna ad affiorare in Europa con lo sviluppo di una economia della crisi, con la violenza con cui vengono gettate al macero, “riforma” dopo “riforma”, referendum dopo referendum, decine di lotte, conquiste, semplici possibilità di esistenza. Di scelta: su quale esistenza fare, su quale lavoro scegliere, su quale vita vivere. No. Per l’America latina la miseria non è un ricordo, e non è un ricordo la violenza dei “padroni”. In venti anni, vasti strati di popolazione, nel Brasile di Lula e di Dilma, nell’Argentina dei Kirchner, nel Venezuela di Chavez, e nella Bolivia di Morales, sono usciti dalla miseria, acquistando il diritto che la società di mercato, in cui viviamo, offre più di ogni altro: quello all’acquisto. Mi diceva qualcuno qualche giorno fa: il grande errore è stato quello di scambiare il diritto alla cittadinanza con il diritto all’acquisto. Di pensare che l’uno corrispondeva all’altro. Ho detto su Chavez, sui populismi sudamericani, e sulla socialdemocrazia, tutto il peggio possibile. Ma quanto spazio ci sia, dentro il grande culto religioso imposto dal capitale, per costruire altre forme di cittadinanza, sinceramente non saprei dirlo. Il dramma, e la farsa, è questo. Travolto da una inchiesta che agli italiani ricorderebbe molto “Mani pulite”, il ceto politico brasiliano, corrotto nel midollo, ha fatto dell’ultima rappresentante di questi venti anni, Dilma Rousseff, il grande capro espiatorio di una crisi economica che, adesso, fa paura proprio a quegli strati di popolazione usciti dalla miseria e diventati improvvisamente cittadini-compratori. Cittadini che rischiano di perdere quel minimo potere di acquisto che li ha resi altro, per un po’ di tempo e di vita, dai propri padri. E da chi, in basso, c’è ancora. Centinaia di milioni di vite.
Ma, appunto, abito, da europeo, per quanto nato ai confini dell’Europa, al nono piano di un palazzo nel cuore residenziale di San Paolo. Gli amici europei e brasiliani mi hanno raccomandato di “stare attento”. Che “non è come da noi”. Che può accadere di tutto. Cosa significa, mi sono chiesto prima di partire, e ancora qui, nei primi giorni, questa forma di tensione indotta? Per capirlo devi vedere cosa significa condurre, qui, una vita in taxi da un hotel a un centro commerciale, a un residence, e poi a un teatro. Per capirlo devi abbandonare la Paulista, e scendere nel vecchio centro della città. Dove della San Paolo fin de siècle, degli edifici liberty costruiti dalla grande borghesia arrichitasi sul commercio di caffé rimane poco. Oppure andare nei quartieri intorno alla stazione della Luz. Prendendo, dall’Avenida Paulista, la rua Caneca o l’Augusta, il ritmo dei passi, i respiri, cambiano, così come il paesaggio urbano intorno. Quelli seduti per terra, che non sai se sono morti, vivi, ubriachi o devastati da droghe, non chiedono l’elemosina. E non è detto che abbiano dove andare. San Paolo ha 300 mila senza-tetto. Una città di medie dimensioni. Devi partire da qui. La gerarchia sociale, controllata a vista da imponenti schieramenti di polizia, comincia dove vedi gente seminuda, in pieno inverno, ciondolare con addosso una coperta e degli infradito. Gente che neanche ti guarda. Che se lo fa ti urla addosso, come ha urlato addosso a quello che ti cammina davanti, come urla addosso a quello dietro di te. La domenica pomeriggio, intorno al grande Teatro Municipal, bellissimo edificio liberty sullo stile dell’Opera, ideato all’inizio del ‘900 dall’architetto de Azevedo, c’è un grande vuoto. Da qui Titta Ruffo usciva dopo aver cantato di fronte ai grandi magnati del caffé. Sono uscito di casa dentro una pioggerellina cupa, grigia. Sono sceso, sempre di più. Solo, col freddo. È il vuoto che ti stringe da ogni parte.
Nei giorni successivi sono tornato diverse volte, da solo e in compagnia, nella zona del centro. Nei giorni feriali le strade sono piene di volti, di urla. L’altro ieri, un uomo a torso nudo con dei jeans tenuti insieme da un elastico si lanciava per pochi reais dentro un cerchio di coltelli. Alcuni dei suoi dodici figli glielo tenevano fermo. Intorno alla stazione della Luz, prostitute dai mille generi e sessi cercano un cliente. Non ti attraversa neanche un filo di desiderio. Però ti chiedi quali siano i mille desideri che abitano il mondo, e come questi siano stati colonizzati, simbolizzati. L’enorme vecchia in fuseaux neri col maglione rosa. I trans, scolpiti nelle migliaia di sfumature che la chirurgia plastica riesce a dare a un corpo. Il venditore di pannocchie. Il gruppo di ragazzotti inespressivi che si prende a spintoni. Passi da São Bento, il convento dei Benedettini: fuori, gente che vende tutto quello che può vendere, a due passi da rua 25 de março, dove per ogni stagione trovi il suo prodotto: giochi d’infanzia per la festa dei bambini, regali per Natale, a dicembre, e insieme, costumi interdentali per l’estate. Natale e spiaggia, qui, coincidono. Fuori sei a Napoli, più ancora che a Palermo, o nella vecchia Mouraria di Lisbona. Dentro, i monaci cantano i vespri. Si fa buio, devi andare. Sai a stento dov’è la metropolitana. Fatti un po’ di coraggio e rimani, ancora un momento. Mentre le voci si attutiscono, e milioni di persone entrano sottoterra, rimangono i dannati, i “più dannati”. C’è n’è sempre uno più dannato: è quello che ciondola, come il “musulmano” di Levi. È qui che, passando col bus, gli universitari ti dicono di non scendere. È da qui che quelli che abitano nella Paulista passano in taxi, per andare “dove si deve andare”. È lo sguardo che fa umani gli umani. Ma che sguardo ci possa essere, tra chi frequenta i pub della Paulista, a sei, sette chilometri da qui, o i ristoranti a 500 reais all’ultimo piano dei grattacieli, tra chi compra italiano perché è “legal” nei supermercati dove trovi il parmigiano, e chi ti vende il portafortuna rosso e nero, pazzo e ubriaco, stupito, a Praça da Republica, e ancora più giù, più giù, non lo sai. Non lo sai immaginare.
Se vuoi fare l’archeologia di questo non-sguardo devi andare indietro. Milioni di ossa rotte, grida, pianti, sferzate, sono seppellite nel cemento dei grattacieli che mi circondano. Milioni di immigrati che dai buchi più allucinanti del Continente sono scesi lungo i fiumi cercando il giorno dopo a quello presente. Milioni arrivati qui, a due passi, dopo un viaggio di mesi in una terza classe di un transatlantico ammassato di carne umana, da Dublino, da Lisbona, da Genova, da Napoli. Occhi terrorizzati dalle cinghie con cui i padroni parlavano agli schiavi, grida con cui i gruppi di paramilitari entravano di notte e strappavano via dal letto un ragazzo o una ragazza. Tutto è ancora qui. Come il femore di Anchieta. Sono quelle cinghie e quelle urla che coprono lo spazio vuoto tra te, europeo, con le tue piccole sicurezze, la tua famiglia, i tuoi amori, i tuoi amici, e quello che attraversi, per poi andartene. Ti fermi. Il tuo corpo, il tuo diritto ad averlo, perde di senso. Puoi esserci, e non esserci più. Non farebbe differenza. Non farebbe alcuna differenza. Non fa alcuna differenza. La città ha seppellito il cielo.